Paul Signac, Un dimanche, 1888-1890

Voi la domenica che fate?
Io da un pezzo, anzi, da sempre, la domenica faccio la medesima cosa: studio.
Studiavo già da ragazzetta, alle scuole medie, quando però la domenica mattina aveva un  momento elettrizzante, quello che seguiva alla parrocchia e che sfociava clandestinamente nell’autoscontro allestito non lontano dalla chiesa, a Trionfale.
(Sospetto da tempo che una stagione di miei terribili mal di schiena, intorno ai trent’anni, abbia tutta avuto origine proprio lì. Quelle macchinette erano indemoniate e le più ricercate erano le botte frontali. Le conseguenze non avrebbero tardato a manifestarsi).
Al ginnasio, proprio non se ne parlava.
L’uscita del sabato pomeriggio, per tre ore di cinema o, sempre più clandestinamente, in discoteca, con la necessità subito dopo di togliersi di dosso l’odore di fumo, dalla faccia, il trucco e dagli abiti la provocazione, l’uscita del sabato pomeriggio, dicevo, si scontava con un’adesione totale, che durava dalle 9 alle 21 con pausa pranzo, alla scrivania, la domenica.
Insomma, una vita in décalage.
Che in francese è quella cosa che mi fa stare tanto male che è il fuso orario.
Ma che è anche la possibilità di vivere senza fare del tutto quello che fanno gli altri.
Proviamo a ragionarci.


Il liceo, per carità.
L’università, manco a parlarne. Con tutto che ho memoria di un’infinità di relazioni e di contatti, ho anche quella, solidissima, di intere domeniche passate sui libri.
Altrimenti rimanevi indietro con gli esami.
Altrimenti non ce la facevi.

Poi, la professione.
E pure lì o c’era il lavoro da fare il sabato e la domenica, la conferenza, la visita guidata, oppure c’era da studiare per la settimana entrante.
Quello che faccio ancora e sempre, per esempio, regolarmente a Pasqua, che viene, come sappiamo, di domenica.
Ma come si vive così?
Non so, a me sembra normale, come mi rispose una volta un collega architetto figlio di un padre e di una madre entrambi artisti, che mai si era posto l’interrogativo di come fosse essere figli di, mettiamo, un avvocato, un impiegato delle Poste o di uno scaricatore di porto.
La normalità, quindi ciò che è regolare e che fa testo.
Ma come si fa con le relazioni con il mondo, che è sempre tutto indaffarato a cercare di fare la domenica qualcosa di festivo.
Semplicemente, lasci perdere.
E allora in un matrimonio, che è, per definizione, una situazione in cui ci si frequenta, più o meno assiduamente.
Lì, bisogna stare attenti. Nel senso che, come è noto, non è che gli uomini capiscano, gli uomini non sono fatti per capire, e a me questa cosa va benissimo, quindi è anche data la possibilità, mettiamo, che un marito abbia la fisima della casa fuori, nella quale deve recarsi tutte le domeniche, perché altrimenti non può controllare la crescita dell’insalata e dei pomodori, né riposarsi dalle fatiche settimanali.
E al quel punto, quello, o non te lo sposi, oppure in quindici giorni sei messa davanti a una scelta: o lui o la professione.
Bivio dal quale gli uomini non si trovano mai a passare.
La soluzione è sposare uno che faccia più o meno qualcosa di simile.
O che sia innamorato. Un uomo innamorato, si sa, fa finta di capire.
Poi, però, bisogna vedere quanto dura e quanto te lo fa pagare, il décalage.
Le relazioni più moderne, incostanti per definizione, si sistemano da sole, la gente ha talmente tante cose inutili da fare che casomai manco si accorge che la domenica tu fai altro da quello che fanno gli altri.

Detto questo, questo ho premesso per fare il punto. La letteratura, il cinema, l’arte, perfino le canzoni, tutto è pieno della noia e degli interrogativi della domenica.
Oggi voglio accennarvi qualcosa e parlarvi di questo dipinto sul quale sto lavorando e che si intitola, appunto, Un dimanche. Perché in francese la domenica è maschile.
(Guarda questi come sono strambi. O non sarà che hanno capito tutto?)

Paul Signac viene al mondo nel 1863 in una famiglia di commercianti agiati. Nasce a Parigi e cresce a Montmartre.
Fra i vari talenti ha anche quello della scrittura, che è all’erta, concisa, vivace.  E poi, naturalmente, si dedica all’arte e lo fa in modo moderno, nell’atmosfera dell’Impressionismo, che, però, rispetto a lui, è già pienamente affermato. Come dico sempre, in arte ogni movimento reca in sé i motivi del suo superamento.
E l’Impressionismo Signac lo supera, approdando a quella fase che si chiama Néo-impressionisme o pointillisme, che credo, più o meno, conosciate. È quel momento della pittura super scientifico, in cui i colori sono messi sulla tela in piccoli tocchi uno accanto all’altro e si lascia all’occhio il compito di ricostruire l’immagine.
Qui siamo agli esordi di questa fase artistica, Signac ha 25 anni e dipinge volentieri scene di interni.
Qui lui ci racconta il penoso isolamento domenicale di una coppia non troppo unita, la cui distanza di sentimenti è espressa  attraverso mezzi squisitamente formali: questa è una composizione di linee vincolanti e di colori scuri.
Siamo evidentemente in una situazione di media borghesia, c’è indifferenza, c’è noia, la critica contemporanea sosteneva che più di una coppia si era riconosciuta in questa messa in scena.
Ogni dettaglio, lungamente meditato, ha un senso.
La donna alla finestra è una specie di pianta d’appartamento. In lei sono scarsi i segni di vita: l’abito ha pieghe rigide, che sembrano intagliate nel legno, lei potrebbe fondersi con le doghe del parquet, qualche ciocca di capelli le sfugge dall’acconciatura e si collega nel disegno alle foglie che stanno subito dietro.
Solo un gesto della mano allude a una qualche forma di esistenza: lei palpita guardando la strada. (Sto rileggendo Madame Bovary, quindi è probabile che io veda noia coniugale dappertutto).

C’è un «valet muet», che è quel tavolino con un sostegno che sta lì, appunto, solo per la pianta.
I due si voltano le spalle.
L’uomo è girato verso il camino e cerca di attizzare un fuoco a noi invisibile.
La pieghe della manica destra della sua giacca riprendono la decorazione del caminetto.
Il terzo protagonista è il gatto, che ha il pelo ritto, che fa di lui un elemento decorativo, sistemato com’è, fra l’altro, sul tappeto.
C’è ironia nelle colombe che compaiono sul ricamo della spalliera della sedia di lui: sono separate da una fontana, elemento di solito associato all’amore e al matrimonio.
Ci sono molti oggetti, in questo appartamento così parigino. E tutti sono strettamente associati alle persone, che fanno pure loro parte del décor.
Il dipinto è come se fosse, nella sua sostanza, astratto.
L’artista è un anarchico convinto, ha una relazione con una grisette, ovvero con una sartina, che sarebbe diventata sua moglie.
Siamo autorizzati a pensare che questa sia la sua idea del matrimonio borghese: una cella di carcere, con stoffe, mobili e assenza di discorsi.
Altro rispetto all’aria aperta.
Altro rispetto all’erotismo di altri suoi dipinti.
Situazione da romanzo naturalista, di quelli che descrivono le situazioni senza schierarsi, praticamente la partecipazione e l’empatia non esistono.
Esistono, però, in noi.

Ed esplode la ribellione e la noia, la voglia dell’insalata da crescere, delle alternative che offre il mondo, pure dell’autoscontro.

Meglio, molto meglio, la domenica, studiare.

Come niente, incontri pure un capolavoro.

E inoltre:

  1. Il dipinto di Georges Seurat, geloso del suo ruolo di inventore del pointillisme, che racconta, invece, una domenica in esterni, meno claustrofobica, certo, ma non per questo più gioiosa

Georges Seurat, Una domenica d’estate alla Grande Jatte, 1886

2. Il film del risucchio dell’anima, quando tutti oscillano fra più persone e qualcuno anche fra generi diversi

3. Una canzone longeva, che, se gli adolescenti la domenica avessero i compiti da fare, li consolerebbe dei primi dispiaceri d’amore

4. Per chi ama la Francia e le sue atmosfere: anche da quelle parti c’è qualcuno che odia le domeniche