E io che ne so.
Sono arrivata solo all’undicesimo episodio della prima stagione e mi sto pure comportando in modo morigerato.
Insomma, non del tutto, un giorno, siccome avevo saltato alcuni appuntamenti, ho mandato giù tre puntate una dopo l’altra, colpa loro, si interrompevano sempre sul più bello, che ne so, arrivava l’FBI e inchiodava a terra i miei detective ficcanaso, oppure il padre di Rosie aggrediva molto malamente il suo professore, sospettandolo di essere stato lui.
Tre episodi tutti in una volta. Poi, però, la mia camera da letto, di notte, si è trasformata nella scena del crimine, assassini uscivano da tutte le parti, incubi che, al confronto, quello di Füssli è una cosetta.
Non lo faccio più.
Promesso.
Però ne ho fatta un’altra, bellissima

Sono andata sulla barra di Google e ho digitato «Who killed Rosie Larsen?».
(Voi capite, avrei dovuto aspettare fino all’ultimo episodio della seconda stagione. Campa cavallo).
Ho il vantaggio del décalage, che, quando non è il fuso orario, che mi fa sempre stare male, mi giunge gradito, per esempio quando allude a qualcosa di non del tutto allineato, di un po’ autonomo rispetto allo scorrere del tempo.
E il mio décalage in The Killing, la mia superserie estiva 2019, è che la sto vedendo con anni di distanza, dunque, già è successo tutto.
Per cui, nel 2012, il pubblico che stava lì e sbavava, con quella tortura del goccia a goccia, non ti dico mai tutto insieme, a un certo punto si è trovato finalmente davanti l’assassino.
E mi ci sono pure trovata io, avevo però scavalcato una certa quantità di episodi ed ero anche saltata alla stagione seguente.
Meglio della palla di vetro.
Ma, nel frattempo, mentre riprendo e faccio finta di niente, considerando che già vi avevo detto qualcosa qui, vado un po’ avanti, giusto per fare un po’ di ordine.

God is in the Details. Lo diceva pure Mies van der Rohe, che di  dettagli se ne intendeva. Una quantità raffinatissima di particolari: il fratellino di Rosie che al cimitero vede un verme che striscia a terra e lo schiaccia sotto la scarpa della festa; l’imbalsamatore che si prende cura del cadavere di Rosie, tutti primi piani, nell’insieme non vediamo praticamente niente, la bella bocca di lei, le unghie massacrate nella fuga nel bosco che lui ricopre con una french manucure, la spazzola d’argento, una di quelle cose insensate che ti regalano alla prima comunione, finalmente utile per acconciare i capelli morbidamente, le mani di lei appoggiate sul petto e poi accarezzate in un ultimo saluto, un viatico per il viaggio. Grande e letteraria qualità della scrittura cinematografica, una meraviglia.

The Red Herring. Mai sentita nominare. Si tratta di una falsa pista ma etimologicamente stiamo parlando di una citazione ottocentesca tratta da un romanzo, per cui un fuggitivo distraeva i segugi dall’inseguimento usando, appunto, un’aringa, capace di ingannare il loro olfatto. Una quantità industriale di red herring, gli sceneggiatori ci menano per il naso, costruiscono trame che ci sembrano sempre credibili, poi, bruscamente, compiono una deviazione. E si ricomincia tutto daccapo, con un altro sospettato e un’altra aringa.

Le ombre del passato. Tutti abbiamo qualcosa da nascondere, ce lo ribadisce The Killing, con tutti i suoi protagonisti implicati, ciascuno a modo suo, in drammi privati, che vanno dal gioco d’azzardo alle perversioni sessuali. Lo sapevamo, che la vita era complessa e spesso buia, ma ci fa molto piacere sentircelo confermare.

Il turpiloquio. Sto imparando tantissime parolacce, le mie predilette sono tutti i composti di ass, da puffy ass, a dumbass passando per asshole. È probabile che io non debba mai utilizzare un simile linguaggio, ma non si sa mai, quindi, mi tengo pronta. E imparo.

Seattle. Ormai la trovo bellissima, tutta grigia, con il porto, la cui vista ritorna e c’è sempre qualcuno che dice con struggimento «sweet view», tornano le barche del porto, tornano le strade così americane,  quella sensazione di modernità, come se un altro skyline non fosse possibile.
Voglio andarci ad abitare.

Seattle

E se piove sempre (continua a piovere, incessantemente), poco male, prendo un asciugabiancheria e poi faccio quello che fanno tutti: quando piove, mi bagno.

La famiglia. Vatti a fidare dei parenti, soprattutto delle sorelle. Chi sa chi è l’assassino saprà a che cosa faccio riferimento; gli altri possono sempre cimentarsi nell’impresa, poi ne parliamo.

Day one. Day two. Day three. Tutta la narrazione è scandita dal conto dei giorni. Si parte da quello dell’assassinio. Appare in sovraimpressione la scritta minimale, che ha i caratteri della macchina da scrivere.
Questo ritmo, questo respiro, questo accompagnamento, a suo modo musicale, ormai scandisce anche i miei giorni.
Mese di luglio del 2019, ho deciso che mi dedico a una serie ed è quello che sto facendo.

I sentimenti. Colano da tutte le parti, peraltro senza la benché minima sbavatura. Tutti raccontano in qualche modo quello che provano, anche se sono tutti piuttosto sbrigativi, per esempio, non si salutano mai al telefono, cosa per me inimmaginabile.
Ma narrano i loro stati d’animo.
Mi accorgo che vivo a contatto con persone che quasi sempre sembrano anestetizzate, faccio fatica a entrare in profondità in un discorso. Per esempio, se una studentessa scoppia in lacrime a un esame e io le chiedo perché piangi (e io so benissimo perché piange), lei non sa rispondermi, così come non ha saputo descrivere l’opera dell’artista.
Qui non siamo alle prese con gente alla Mies van der Rohe, eccolo che ritorna, un uomo scarsamente loquace, solitario, reticente davanti alle emozioni («Ognuno ne ha ed è qui l’inferno della nostra epoca»), uno che di sé diceva di non avere «nulla di sentimentale».
Qui c’è altro.

Quanto sei laconico.
Quanto sei freddo.
Quanto sei lontano.

Di fronte alla vita, che si è fatta mano a mano sempre più distante dagli affetti, e uso questo termine in senso lato, un po’ come se stessi parlando della temperatura delle anime, questo cinema propone un’alternativa calda, implicata, loquace, fosse solo nei gesti o nelle intenzioni, sempre perfettamente percepibili.

Linden. Come lei chiama se stessa quando risponde al telefono. Ho capito che mastica in continuazione perché ha smesso di fumare, l’ho capito da una sigaretta che ha recuperato in macchina quando le hanno tolto l’indagine.

(Sarah) Linden

Poi, però, non l’accende.
Sempre dolente, sempre partecipe, sempre intelligente, sempre straordinariamente intuitiva, naviga in acque agitatissime e spesso sembra essere sopraffatta dagli accadimenti.
Al momento ha dilazionato il promesso sposo, deve risolvere il caso di Rosie Larsen, e poi chissà, io mi sono fatta un film, che mi sembra più che legittimo.
Lei sta lavorando con un partner e ammetto che, a questo punto, se mi fossi dovuta sposare pure io, avrei anch’io dilazionato il coniuge, non fosse altro che per vedere come andrà a finire.

(Stephen) Holder

Holder. Questa, da me, non me l’aspettavo.  Avevo esordito dicendo ma figuriamoci.
Poi, però.
Che avevo detto.
Che era alto, allampanato, con una specie di barba.
Poi mi sono resa conto che è entrato nel mio pantheon privato di uomini supersexy.
E come ha fatto?
Me lo sto chiedendo.
Abbiamo saputo che è un ex tossico, del resto stava alla Narcotici e, come è noto, chi va con lo zoppo.
Prima lui ci ha detto che da sei mesi non andava con una donna.
E abbiamo scoperto poco dopo che lui da sei mesi è anche clean.
Lo dice dolente in un incontro con gente che sembra sorella (posso dire sorella nel caso Rosie Larsen? Vedi il punto La famiglia) degli Alcolisti Anonimi.
Mi sono interrogata e mi sono resa conto che lui ha toccato in me corde già tesissime, quella della commozione e quella della tenerezza.
Brutale durante gli interrogatori, spiccio quando serve, ha continui cedimenti: quando porta a Linden la colazione, un donought  al bacon;  quando viene sbattuto fuori con tanto di porta in faccia in una riunione con l’FBI riservata solo ai primi della classe; quando nottetempo, in quelle loro indagini da detective che non conoscono né l’orario di servizio né, tantomeno, il cartellino della presenza (che c’è pure, e per la prima volta della mia vita, nella mia Accademia, come se si potessero davvero contare in quel modo le ore di servizio), lui sembra più morbido e, morbidamente, aver bisogno di qualcuno; quando aspetta Linden al porto e le chiede se lei, quella sera, vuole essere la sua «date», il suo appuntamento, locuzione che identifica un incontro e che da sempre mi pare bellissima.

In sintesi.

So come va a finire e so chi ha ammazzato Rosie Larsen.
Ma è un po’ come con la vita medesima: sappiamo che siamo tutti mortali, poi bisogna vedere come ci giochiamo le nostre carte.
E forse, venire a conoscenza di questo gioco così speciale, giocare ciascuno le sue carte nella vita, un gioco intriso di ragione, assurdo, Caso e sentimenti, può essere uno dei motivi per stare al mondo.

Se mi cercate, ve l’ho già detto, sto vedendo una serie.