Voi credete nella fortuna?
Io, un po’. Conosco pure un paio di persone fortunate, di quelle che, quando grattano, vincono. Sono due giovani uomini, il mio parrucchiere e il mio unico nipote, cui la vita sorride e che possono vantare una brillante riuscita professionale.
È pur vero che forse la vita sorride loro perché loro sorridono alla vita, come si dice Oltralpe, «non si prendono le mosche con l’aceto», ma questa è una storia che conosciamo tutti. Solo, non è facile raccontarla a se stessi.

Questa settimana, in cerca di fortuna per motivi tutti legittimi, ho fatto due lezioni sul medesimo tema davanti a persone diverse, quelle perbene della mia Associazione culturale e i miei studenti dell’Accademia di Belle Arti. Le reazioni stampate sulle facce sono state analoghe.
Dicevo che, in cerca di fortuna, ho fatto due lezioni sugli escrementi nell’arte, limitandomi a quella contemporanea, sebbene con dei riferimenti. Questo perché, se mi fossi allargata anche al passato, mi sarei dovuta orientare in una montagna di sterco.
Ora vi racconto. Poi vediamo le reazioni stampate sulle facce vostre.
Certo, per addentrarmi in un labirinto del genere avevo bisogno di una guida salda. Vi presento, allora, Jean Clair, per me, e non solo per me, il massimo storico dell’arte in professione ai nostri tempi. Questo nome, così limpido e pieno di promesse, non è il suo. Se lo è inventato, un po’ come noi cerchiamo di inventare noi stessi (una favola moderna), quindi è già partito con il piede giusto.

Jean Clair

Per intenderci, lui è quello che ha messo insieme, con dieci anni di lavoro, la mostra dedicata alla Malinconia, quella che ha fatto, solo a Parigi, più di 500.000 visitatori, praticamente circa sei volte quelli che può contenere il Maracanã. Questo per dire che l’argomento sta a cuore a un sacco di gente.
Fra la gente, c’ero anch’io, anche con tre ore di fila e pure con i piedi nella neve, visto che i biglietti prenotabili un mese prima erano finiti e quello era l’unico modo per entrare al Grand Palais.
Mi veniva in mente che dunque non sono l’unica a trascinare i miei giorni fra ubbie e paturnie.
Bella consolazione, eh.
Ma procediamo con ordine.

Fortuna e feci sono legate, lo sappiamo tutti. Basta pestare un escremento di cane o essere oggetto casuale di una benedizione da parte di un piccione per sentirsi dire che dovremmo essere contenti, chissà che cosa sta per succederci di bello. E c’è pure il legame con il denaro, da un pezzo chiamato lo sterco del diavolo.
Vi ricordo anche che l’augurio che si scambia la gente di teatro la dice lunga: Merde! Questo perché, quando si andava a vedere lo spettacolo in carrozza, più merda c’era sulle ruote, più gente sarebbe stata presente in sala.
(Da qui il titolo dell’articolo di oggi).

Come accennato, mi giro solo un momento indietro e vi mostro due demoni ritratti nel medesimo atteggiamento.

Cupola Battistero Firenze, Satana

Sia nei duecenteschi mosaici del Battistero di Firenze che in una scena del complesso Trittico delle Delizie di Bosch, abbiamo Satana, che nell’artista fiammingo ha la testa da uccello, che ingoia dannati e che li defeca. Ammetto che questa costruzione grammaticale è inesatta, defecare è un verbo intransitivo, come se non fosse possibile «passare in escremento», come invece accade qui, qualcosa (o qualcuno) che si è mangiato.

Hieronymus Bosch, Trittico delle Delizie, 1503, part.

Se voi guardate bene, in Bosch, sull’orlo della piccola fogna che sta sotto Satana, c’è un dannato che «snocciola monete d’oro dal deretano». C’è anche un uomo che vomita poco distante e in entrambi i casi, per quello che si riesce a sciogliere nell’artista, anch’egli una creatura infernale, noi abbiamo un’allusione a qualcosa di non assimilabile.

Picasso

L’arte è stata per tanto tempo qualcosa di diverso da quello che è diventata nel contemporaneo. Il gusto è stato sostituito dal disgusto e allignano ai nostri giorni scatologia, mutilazioni, sangue, insomma, il corpo mostrato nei suoi aspetti meno nobili.
Eppure evidenti e importanti.
Si racconta che qualcuno domandasse a Picasso: «Maestro, che cosa fareste se foste in prigione, senza niente?».
E lui: «Dipingerei con la mia merda».
Niente di strano, chiosa Jean Clair. Siamo più o meno dalle parti di una specie di pigmento: in questo caso, il colore è ocra; è untuoso, coprente, abbastanza stabile.
Ce n’è, da ragionarci sopra.
Fra l’altro, dipingere assomiglia un po’ a cucinare e in cucina gli avanzi sono riutilizzati dal cuoco con la testa sulle spalle.

Alexander Calder, The Circus, 1931

Alexander Calder, l’artista che pensava meglio «in wire», ovvero in termini di filo di metallo, che piegava a una fantasia inesauribile, ha messo su un intero Circo, costruito con filo, legno, stoffa, carta, cuoio, spago, tubo di gomma, sughero, bottoni, lustrini, dadi e bulloni, tappi di bottiglia, scovolini da pipa e altro ancora. Lo spettacolo, a pagamento, era da lui animato, presentato e narrato, con l’aiuto di chiunque fosse arruolabile e a portata di mano. Oggi la fantastica struttura è immobile in una teca del Whitney Museum, ma ci sono filmati davanti ai quali si rimane incantati. Anche per ciò che ci interessa.
Il ferocissimo leone, con una sontuosa criniera gialla fatta di fili di lana, a un certo punto fa la cacca. E arriva di corsa un inserviente con scopa e paletta che pulisce e porta via.
Gli animali, così come i bambini molto piccoli, non hanno nessun senso del pudore. L’artista lo sa bene e quando crea la sua versione della mucca, non può mancare un degno completamento: la cacca dell’animale. Deposta e realizzata anch’essa in filo di metallo.

Alexander Calder, Cow, 1929

Ormai siamo talmente aperti all’argomento che ci stupiremmo di non trovarla.

Piero Manzoni, Merda d’artista, 1961

E ora passiamo all’opera, in questo senso, più famosa del secolo scorso.
La Merda d’artista di Piero Manzoni è proprio figlia del suo tempo. Prodotta all’inizio degli anni ’60, in edizioni limitate e numerate, sta in una scatoletta.
Da un pezzo l’arte aveva cominciato a ingoiare l’ordinario, il quotidiano, il banale, l’insignificante (almeno apparentemente).
Piero Manzoni vive poco, trent’anni, anima tutto l’ambiente che vive intorno a Brera, fa mangiare l’arte al pubblico offrendogli uova sode con l’impronta del suo pollice, gonfia palloncini con il suo «fiato d’artista», firma alcune persone, fra cui Umberto Eco, come se fossero sculture viventi.
A questo punto, non ci stupisce che abbia inscatolato i suoi escrementi. C’è, nel gesto, la volontà di dissacrare il mito romantico dell’artista e quella di sfidare un mercato sempre più avido, che vede l’arte solo come speculazione commerciale.
A quanto vende Manzoni le sue scatolette? Anche questo è molto interessante: esse contengono g 30 di materiale, che viene ceduto esattamente a peso d’oro. Si riaffaccia il tema dell’artista alchimista, in questo caso capace di trasformare la feccia (faex, è qualcosa da espellere) nell’aureo metallo.
Coprofilo, Piero Manzoni? No, direi proprio di no.
Nell’arte c’è tutto, per cui non mi sentirei di escludere eventuali possibilità che dovessero presentarsi. Ma, cerco di spiegarmi, in essa c’è sempre una ventata di vita, come se l’atto del creare portasse con sé, per definizione, un flusso esistenziale esuberante, produttivo, dinamico.
Siamo cioè sempre ben lontani da quell’asfissia, spesso segreta e chiusa in se stessa, che qualunque perversione suggerisce.
Per non dire di quanto il contemporaneo sia spesso giocoso, come a volerci consolare di un’esistenza che si fa sempre più austera (parlo per me, come sempre).
Vi do una dimostrazione.
Piace molto ai più giovani e ai bambini la macchina che fa la cacca di Wim Delvoye.
Già l’artista è tutto un programma: belga, dunque, conterraneo di Bosch, ha tatuato polli e maiali, prodotto radiografie di rapporti orali, sostituito la rete di una porta da calcio con la vetrata di una cattedrale (avete il coraggio, ora, di sfondarla con un pallone?), truccato bombole per il gas da ceramiche di Delft.

Wim Delvoye, Cloaca Original, 2000

Degno erede di Manzoni, progetta la prima Cloaca nel 2000. Ci sarebbero state varianti, però il principio rimane sempre quello: una macchina concepita come un corpo umano, che viene nutrita, digerisce, produce energia (che lui, scandalosamente, disperde).
E poi fa la cacca.
Come ieri ha suggerito una studentessa, incredibile quanta progettazione e dispendio esiga una macchina che fa quello che il nostro corpo fa quasi senza che ce ne accorgiamo.
Miracolo della vita.
Miracolo dell’arte.

Se volete capire come avviene il più che ordinario processo, date un’occhiata al video che vi propongo. Attenzione anche alle citazioni grafiche, il nome e il cognome dell’artista equivalgono al marchio Walt Disney e il titolo dell’opera alla Coca Cola.

Nato a Manchester da genitori nigeriani, Chris Ophili produce dipinti di grande raffinatezza.

Chris Ophili, The Holy Virgin, Mary 1996

Quanto a tecnica, vi trascrivo la scheda del MoMA di New York: acrylic, oil, polyester resin, paper collage, glitter, map pins, and elephant dung on canvas.
Si capisce che quella di Ophili è una pittura complessa, lucida, scintillante. Sì, avete letto bene, insieme all’olio, all’acrilico e al resto, per la tela l’artista ha utilizzato anche zolle di sterco di elefante.
La prima volta, in un viaggio alla ricerca delle radici, se lo è andato a prendere sul posto, in Africa, dove se lo è trovato sulla sua strada. Ha riempito la valigia (chissà se è stato fermato alla dogana) e se lo è portato nel suo studio. In seguito l’ha preso dallo zoo di Londra.
Zolle di sterco di elefante stanno nei dipinti e su zolle di sterco di elefante essi sono poggiati.
Ovvio, che ci ho avvicinato il naso. Essi non hanno nessun odore specifico e comunque tutta l’arte ha un sacco di odori suoi.
Uno più, uno meno, che fa.

Rischio di non fermarmi più, come sempre, una volta messe le mani su un argomento, scopro dei tesori.
Mi limito e vi propongo un’opera di Maurizio Cattelan, America, da lui installata nel bagno unisex del Guggenheim di New York. Quindi, utilizzabile, e ciò nonostante sia in oro a 18 carati. Certo, gli addetti alle pulizie si sono un po’ lamentati perché non sanno bene che detersivi impiegare, però, volete mettere, a parte l’esperienza da sceicco, qui siamo di fronte alla chiusura di quel cerchio aperto da Marcel Duchamp con la sua opera del 1917 Fountain, in pratica un orinatoio firmato. Ma di questo parliamo la prossima volta.

Maurizio Cattelan, America, 2016

In Cattelan c’è anche la denuncia della disuguaglianza economica.
Se vi interessa, sappiate che l’opera è in vendita. Poi casomai mi raccontate la faccia dell’idraulico quando lo chiamate per installarla.

Giocano, proprio come fanno gli artisti, anche le fantastiche Meringue Girls, delle quali ho un libro coloratissimo che sfoglio come rimedio alla malinconia. Lo trovate qui.

Meringue Girls, Unicorn Poo

Fra le loro creazioni, la cacca dell’unicorno, mitico animale «simbolo curiosamente ambiguo della purezza femminile», che, dato il suo carattere chimerico, non mi stupisce che possa produrre escrementi così invitanti.

Niente cinema, d’accordo?
Oppure solo un regista, straordinario.
Il Castello errante di Howl di Hayao Miyazaki ha una forma organica ed escrementizia, pur essendo abitato da una meravigliosa creatura, uno stregone biondo con gli orecchini, che fa continuamente il bagno e usa tutti i nomi che gli servono per vivere libero (un po’ come Jean Clair).

Hayao Miyazaki, Il Castello errante di Howl, 2005

E lo stesso regista ne La città incantata, del 2001, ci fa vedere lo Spirito del cattivo odore che arriva alla terme e che paga il bagno con la cacca.
Non avevamo detto denaro come sterco? E viceversa.

Quante, quante cose lasciamo in sospeso. Meglio così, vuol dire che i nostri discorsi non sono esauriti.

E la pipì, in tutto questo?
Arriva, arriva. Anche se il mio galateo, inglese e moderno, dice «It is bad manners to expel any liquid from any orifice in public», forse, però, è possibile parlarne professionalmente.
Ieri abbiamo elencato con i miei studenti i liquidi che il corpo espelle: urina, sudore, lacrime, sperma, saliva, sangue.
Tutti umori che bagnano la nostra esistenza e che figuriamoci se l’arte non ha preso in considerazione.

Dedichiamo loro un articolo, che immagino un po’ a completamento di questo, un po’ autonomo, e lo facciamo presto.
E anche lì, promesso, avrete modo di stupirvi davanti a tanta ricchezza e di dire ma come ho fatto a non pensarci.