Arte e cinema (page 2 of 9)

Insieme perché hanno entrambi a che fare con l’immagine. L’arte, semplicemente, il mio lavoro, la professione amatissima, ciò cui mi dedico in modo completo e totale. Vi racconto la mia arte, così come la vivo, la studio, la diffondo. Il cinema, ve lo dico subito, ciò che farò nella mia prossima vita, non appena mi sarà data la possibilità di scegliere: critico o sceneggiatore, poco importa, l’importante sarà stare in una sala buia, accomodata in una accogliente poltrona, con fuori il mondo con tutti i suoi fastidi. Oppure davanti a uno schermo o a una pagina bianca, inventando situazioni e vite alternative, per me e per gli altri.

MORIR D’AMORE (ADDIO, FRATELLO CRUDELE)

Soranzo, Annabella, Giovanni, Addio, fratello crudele, 1971

Baciami. – Se mai avvenga che le età future
Odano di questo nostro vincolo, può darsi
Che le leggi morali e del viver civile
Debbano biasimarci…ma non appena sappiano
Del nostro amore, basterà quello a cancellar l’orrore,
Che rende abominevoli gli incesti.

(John Ford, Peccato che sia una puttana, 1630)

Chissà com’è, avere (avuto) tutti i numeri per diventare lo Sean Connery italiano ed essere finito nella casa del Grande Fratello.
VIP, d’accordo.
Evidentemente qualche numero mancava.
Del resto lo si capisce pure dal film, perché se un attore italiano non si doppia da solo, qualche problema ce l’ha, laddove Sean Connery è un artista completo, corpo, anima, voce e il resto.
(Fabio Testi è doppiato da Corrado Pani e mi sento di dire che la metà del suo fascino viene da questa voce altra. Da qui e da cui, il Grande Fratello. VIP, d’accordo).
Comunque l’attore veneto a trent’anni era sbalorditivo, anche come portamento.

Soranzo

E la recitazione era ottima.
Dietro c’è, evidentemente, un grande regista come Giuseppe Patroni Griffi, che si è dedicato prevalentemente al teatro (e si vede), ma che ha fatto anche incursioni nel cinema.
Comunque sbaglia, e sbaglia di grosso, la mia enciclopediola (enciclopediucola) di cinema, che definisce gli attori di Addio, fratello crudele «inadeguati o ridicoli», tutti tranne Charlotte Rampling e il film una «versione non soltanto mercantile, ma inetta» della tragedia di John Ford Peccato che sia una puttana, andata in scena a Londra nel 1630.
Castronerie, tutte, perché invece il film è bellissimo, raffinato, pieno di citazioni, un po’ astratto nella narrazione di sentimenti terribili, con delle magnifiche ambientazioni e abiti sontuosi, un po’ ruvidi, come è ruvida tutta l’atmosfera, gelida, con il fuoco sempre acceso nel camino e la campagna del nord Italia, intirizzita e spoglia.
Certi critici sono veramente irritanti, casomai dovrebbero riflettere un momento prima di distruggere un film pieno di elementi squisiti.
Ma non sono bastati la fotografia di Vittorio Storaro, le musiche di Ennio Morricone, i costumi di Gabriella Pescucci.
Chissà com’è che, di botto, tutti questi grandi professionisti, nel pieno della loro attività, prendono una cantonata collettiva e si sbagliano.

Infatti, non si sono sbagliati per niente.

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CADONO, GLI DEI

Luchino Visconti, La caduta degli dei, 1969

Mica ce l’hanno raccontata giusta.
Non è vero che Visconti era un perfezionista, con le lenzuola d’epoca negli armadi d’epoca anche se gli armadi erano chiusi e le lenzuola non si vedevano.
Così, per fare meglio atmosfera.
Se fosse stato un  perfezionista, le ragnatele del palazzo del Principe di Salina nel Gattopardo non sarebbero sembrate quelle del tunnel dell’orrore al luna park.
Se fosse stato un perfezionista, rivedendo la Caduta degli dei non si sarebbe diffuso nel mio salotto l’odore di naftalina che veniva dagli abiti che indossavano i protagonisti.
La macchine non sarebbero sembrate quelle della Mille Miglia, simpatiche, sì, ma pure loro con sulla carrozzeria l’aria della fiera di paese e della baracchetta con le bandierine per metterle in mostra.
Se Visconti fosse stato un perfezionista, non sarei rimasta sulla mia poltrona a vedere le cose dall’esterno, pensando ma guarda questi che caricature che sono, guarda le bambine quanto sono petulanti, la casa quanto è finta, senti tu le voci come suonano male.
Se Luchino Visconti fosse stato un perfezionista, avrei partecipato torcendomi le mani alle vicende di una potente famiglia tedesca di industriali metallurgici alle prese con la salita del nazismo.
Ce n’era, di abbondanza di argomenti, buona per più stagioni di una serie, di quelle che ti incollano alla poltrona, allo schermo e al salotto.
E invece ne è uscito un film che non è un capolavoro, come ci avevano fatto credere e come anch’io ho creduto per un sacco di tempo.

Ma che succede al cinema.
Oppure, che succede a me che alle prese con certo cinema non sono più contenta.

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GIRLS JUST WANT TO HAVE FUN: THELMA & LOUISE

Thelma & Louise, Ridley Scott, 1991

Per trenta minuti ho pensato ma tu guarda quanto è brutto questo film.
Mica me ne ero accorta: come ero scema.
Come eravamo scemi.
Come eravate scemi.
Trenta minuti sono un’eternità, anche se il film è lungo (poco più di due ore), però uno se ne accorge, che non va, due matte, una un po’ più matta, sgangherate, conciate da fare paura, che strillano continuamente, vizio che non si tolgono e che va avanti fino alla fine.
Un marito agghiacciante.
Una provincia americana che francamente a me dell’Arkansas, l’ultimo posto al mondo dove vorrei andare, meglio, uno degli ultimi, la mia lista di ultimi è infinita.
E ho pure pensato ma il regista è quello che nove anni prima ha fatto Blade  Runner, che continua a essere un film bellissimo, tutte le volte che lo vedo penso che sia il film della mia vita.
La mia enciclopediola del cinema definisce Thelma & Louise «uno dei film più euforicamente femministi mai arrivati da Hollywood».
E allora mi sono detta ecco perché è brutto, perché è «euforicamente femminista».
Francamente a me del femminismo.
Poi, resti fra noi, francamente, a me, pure dell’euforia.
Se non ho tolto il dvd dal lettore è stato solo perché mi è preso un attacco di pigrizia, però ho continuato a pensare quanto ero scema.
Avevo visto il film al cinema e fin qui ci siamo, e avevo il dvd, quindi lo avevo anche rivisto e allora, che cosa mi era preso, prima o dopo?
E, soprattutto, che cosa era preso al regista?

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TALIS MATER

Anthony Perkins in Psycho, Alfred Hitchcock, 1960

La differenza fra uno zombi e un revenant è che uno è uno zombi, l’altro, un revenant.
Dopo aver dato prova di questa limpida logica femminile, cerco di spiegarmi.
Uno zombi è uno che è stato sottoterra e al quale possono mancare dei pezzi. Come dice la Treccani, c’è anche l’uso di definire uno zombi un «individuo in uno stato fisico e psichico di estremo decadimento, stralunato e malvestito».
Un revenant è tutt’altro, è uno che sta bene in salute, che di solito troviamo in cucina che mangia, che è esattamente come ce lo ricordiamo.
Solo che era morto.
E che ha deciso di ritornare: pure dopo anni, quando le cose di solito sono cambiate perché, come si dice, la vita continua.
Il revenant, no, ha la medesima età di una volta, i medesimi sentimenti e pure le medesime pretese.

A me i revenants fanno paura, ma paura vera, quindi sono riuscita a vedere solo tre episodi della serie francese, fra l’altro molto bella, a loro intitolata, che però non ho potuto proseguire perché ero perseguitata da incubi.

Les Revenants

Le ho provate tutte. Non era possibile vederla di mattina perché mi faceva ospedale, anzi, magari in ospedale fosse possibile vedere una serie; ho provato il pomeriggio presto, con il sole ancora alto, per darmi il tempo di distrarmi prima che facesse notte; ho tenuto tutte le luci accese.
Niente.
Non me li toglievo dalla testa, soprattutto il ragazzino con la faccia da impunito, e poi l’ambiente gelido del lago, e poi la diga, e poi la sigla, che da sola bastava e avanzava.

Insomma, per colpa della mia paura dei morti, mi sono giocata la possibilità di vedermi una delle serie più interessanti degli ultimi tempi.

E dove si colloca Psycho in quest’ottica?

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ORNITHOLOGY

Alfred Hitchcock, 1963

– Che cosa l’ha segnata personalmente in questi ultimi vent’anni?
– La scomparsa degli uccelli, la rarefazione del silenzio, l’inquinamento dell’aria

Blandine Rinkel, Tutto trema, 2021

Una volta, anni fa, organizzai uno Zombi Day.
Sono una donna metodica e tutte le volte che da ragazza ho lavorato come segretaria, quando ho lasciato per occuparmi dei fatti miei, sono stata rimpianta.
E vorrei vedere, siamo in Italia, dove uno dei nodi è l’organizzazione, che a me, invece, riesce benissimo.
Dunque, mi organizzai pure con i morti viventi: un film al cinema e due dvd del noleggio, prenotati il giorno prima.
(C’era ancora il noleggio all’angolo dove adesso c’è un negozio di mozzarelle).
Per inciso, il film che riportò la palma fu quello più vecchio, i più recenti, carichi di effetti speciali, erano solo disgustosi.
Quello, faceva paura.
Ma la faccio breve: andai a dormire deprecando la cattiva abitudine che c’è a casa mia di avere, sì, scorte di fazzoletti di tutti i generi (sono una piagnona e mi piace piangere comodamente), ma non una scorta equivalente di assi per inchiodare dall’interno le finestre.
Scorta che invece ha il protagonista di The Birds, di Alfred Hithcock, un avvocato penalista che si chiama Mitch Brenner, che non guarderei nemmeno se fosse l’unico uomo presente su un’isola deserta, un po’ quadrato e con gli occhi azzurri.
Ma forse il fisico tarchiato gli è venuto dalla mia televisione nuova, sulla quale non è che tutti i miei film si vedano benissimo.
Insomma, anch’io provo un sentimento di rimpianto, per quanto mi riguarda a causa della nuova tecnologia e nei confronti dell’altro televisore, sentimento tale e quale a quello che hanno provato quando me ne sono andata coloro ai quali ho fatto da segretaria.

(Adesso, la segretaria la faccio solo per me stessa).
(E comunque non posso ricomprarmi tutti i dvd che ho già, ma questo è un altro discorso).

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A VOLTE RITORNANO

Victor

Li scopri tutti in cucina, che divorano quello che hanno trovato in frigorifero o che mangiano direttamente dal tegame.
Li capisco, dopo anni senza cibo, farei anch’io la medesima cosa.
Eppure sembrano tutti bene in carne, fra l’altro non sono cambiati, vedi tu il vantaggio di morire giovane: non invecchi.
Ma questo si sapeva.
Lo dice tutta una letteratura dedicata alla consolazione, che canta eroi e meno eroi, che comunque hanno lasciato un vuoto.

Da un pezzo giro intorno a questa serie, ma non posso vederla perché mi fa paura.
Però la paura talvolta è bella, c’è tutto un pubblico di appassionati di splatter e horror.
No, perché qui è un’altra cosa, più sottile, più sfumata, più profonda.
Io ho paura dei morti che ritornano.

Ecco perché non posso vedere Les Revenants.
Anche se ogni tanto ci ricasco.

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INCONTRI

Erika Lee Sears, Self Care, 2021

È un film brutto. O, almeno, non ha niente del capolavoro.
Ho appena sentito alla radio che la New York fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 era un luogo straordinariamente creativo.
Come dice Don Giovanni: me ne consolo.
Nel senso che me ne rallegro.
Ironicamente, tale e quale a Don Giovanni.
Le creazioni di quelli che abitano quella New York sono raccontate da Woody Allen in Manhattan (1979).
E sono inesistenti.
Da quello che si vede nel film, gli intellettuali che stanno da quelle parti passano il loro tempo facendo cose che oggi a me appaiono prive di senso.

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GIRL POWER

Istaso Arana in «La virgen de agosto», Jonás Trueba, 2019

Ci sono donne che piacciono alle donne.
Ci sono donne che piacciono agli uomini.
Ci sono (poche) donne che piacciono agli uomini e alle donne.
Ci sono donne che non piacciono né agli uomini, né alle donne, e allora è una tragedia.
Come sempre, quando vedo una donna, io mi chiedo se mi piace e se piace agli uomini.
Come sempre e soprattutto con un’attrice, dove il gioco dell’identificazione è più potente e dove il film funziona solo se il gioco funziona.
All’inizio lei non mi piaceva: occhi rotondi e sorriso gummy, volontario, a questo punto, perché il mio medico estetico, che poi è il fratello del mio odontoiatra, una volta mi ha spiegato come si corregge e ci vuole poco o niente, due iniezioni che neutralizzano i muscoli che tirano troppo il labbro superiore e il vermiglio fa il suo lavoro, scoprendo solo quello che deve scoprire.
Venti minuti in tutto.
Reversibile.
All’inizio lei non mi piaceva, poi è bastato che si mettesse a ballare, era in una festa in piazza, faceva roteare la coda di cavallo, si capiva che si divertiva e ho visto, finalmente, che la camera del regista la cercava con piacere.
Lei ha seni bellissimi.
Si intravedono quando lei fa l’amore con un tipo che si è messa a seguire tutte le sere e con il quale ha attaccato discorso.
Poi si vedono benissimo quando lei una mattina si alza e ha addosso solo una T-shirt e fa quello che fanno tutte le donne: la solleva e si guarda allo specchio.
I seni sono di dimensioni giuste, né troppo piccoli, né troppo grandi, alti e sodi, alti e sodi come dovrebbero essere tutti i seni che stanno sulla faccia della terra.
E le scollature di tutto quello che lei indossa, roba semplice, ma ci arriviamo fra un momento, le scollature, ecco perché le stanno così bene.

È tornata la Nouvelle Vague e il film è bellissimo.
Se avete pensato per un attimo che battesse bandiera italiana, devo deludervi.
Da noi nessuna onda, né nuova, né vecchia.

Il film batte bandiera spagnola.

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IL METEO SPIEGATO DA IRINA

Ancora non ho capito se è un sito, un’app o altro.
Ma ci prende.
Un certo numero di volte, nel corso della mattinata, Irina molla lo spazzolone, o il tubo dell’aspirapolvere, o lo straccio, o il flacone del Cif liquido e mi dice: «Alle 11:05 piove. Guarda».
E mi mostra sul telefono una schermata con il disegnetto di una nuvola nera carica di lampi e di acqua.
È probabile che alle 11:05 piova. Non sempre, questo va chiarito. Ma più spesso di quanto non piova o faccia bello a detta di altre app o altri siti meteo.
Con Irina parliamo molto di uomini e di bucati, che in fondo sono argomenti simili: fanno parte della vita e talvolta ti creano problemi, vuoi per le paturnie, le loro e quelle che ti procurano, vuoi per le macchie di vino rosso.
Il meteo è un altro argomento molto affrontato.
Una volta ho provato a spiegare a Irina che parlare del tempo è un modo ottimo per non parlare di altro e che ci sono intere culture che praticamente parlano solo di quello.
Tu vai a Londra e lo capisci al volo.

Resta che lei non ha idea di dove stia Londra e che il mappamondo che sta sopra una delle librerie del mio studio, e che le mostro per spiegarle i luoghi e le distanze, per lei è e rimane lettera morta.
A lei interessa solo se piove o se fa bello.
«Quindi, se esci, togli prima i panni. Oppure li tolgo io alle 11:05, prima che si bagnino».

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L’INFILTRAZIONE DEI SENTIMENTI

La casa-atelier di Malotru, il protagonista

Guardate che vi hanno ingannato.
Vi hanno raccontato cose che non esistevano.
Vi hanno dato spiegazioni insensate.
Vi hanno consolato inutilmente.
Un’intuizione, del resto, io ce l’avevo avuta. Tempo fa, davanti a uno che non capivo che mestiere facesse.
Ora, se uno si presenta e ti dice faccio l’avvocato e sono penalista, tu capisci che quello lavora con gente che sta al gabbio e che ha cose di sapore forte da raccontarti.
Capisci che quello porta le casse al mercato all’alba; che quell’altro gira i barattoli di pomodoro dalla parte dell’etichetta al supermercato; che quello vende telefoni; che quell’altro insegna, cioè spiega le cose che sa, e certe volte pure quelle che non sa, a ragazzini di età diverse.
Eccetera.
Ma quello che si presenta come marketer, nella sostanza, che fa.
E quello che organizza eventi.
E quell’altro che sta nella comunicazione.
E lo psicologo, al quale la gente dà dei soldi per parlare e quello di solito non è che capisca del tutto quello che gli stai dicendo.

Tutte menzogne.
Non è vero niente.

Ma non è come pensate voi.
O come vi hanno fatto credere che fosse.
Mica ci voleva tanto a capirlo.

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