Pan e la capra, I secolo, part.

Ci invidiano, gli dei.
Lo sa, per esempio, Achille, che, se non fosse stato per la sventatezza della madre Teti, che lo teneva per un tallone quando lo immerse nello Stige per dargli l’immortalità, sarebbe stato invulnerabile.
(Peccato quel dettaglio).
E Achille sa che gli dei ci invidiano per prima cosa perché siamo mortali, quindi sottoposti a una fine di cui ignoriamo, fra l’altro, il momento.
(Come diceva uno in un film, eh, siamo messi peggio dei replicanti di Blade Runner).
E, come sappiamo, è proprio la morte, paradossalmente ma fino a un certo punto, a dare un senso alla vita.
Gli dei ci invidiano anche per i nostri affanni, per quel nostro sbatterci qui e là continuamente, è probabile che gli dei ci invidino anche per i sentimenti che proviamo, con tutto che pure loro, al riguardo, mica scherzano.
Nonostante anni di frequentazione, anzi, forse proprio per questo, la classicità mi riempie sempre di stupore.

 

Pothos, copia romana da originale greco di Skopas, IV secolo a. C.

Una delle cose che più mi meraviglia è che gli Antichi abbiano saputo dare un dio a ogni nostro stato d’animo, per cui, per esempio, se soffriamo di nostalgia per un essere che amiamo e che è lontano, l’affetto è rappresentato da Pothos, figlio di Venere, creatura del desiderium.
E via elencando.
In questi giorni, per una di quelle situazioni professionali che mettono in primo piano un artista di cui mi occupo, mettiamo, per circa un mese per dedicargli alcune lezioni, mi sono ritrovata ad avere a che fare con un dio che già avevo frequentato, ma solo superficialmente.
Dunque, è venuta l’ora di approfondire la conoscenza.
La prima cosa che vi dico è che non tutte le ciambelle riescono col buco. Per cui quando nacque il figlio di Ermes e di Penelope (che non è quella di Ulisse, ma una ninfa dalla maternità evidentemente difficile), si spaventarono tutti per quanto era brutto.
In particolare la sua mamma.
Il pupetto aveva i capelli incolti, le corna e la barbetta come hanno le capre, il naso rincagnato, era pieno di peli e aveva pure la coda.
Per non parlare dei piedini, che erano, in realtà, zoccoli di animale.
La puerpera lo abbandonò, inorridita.
Il padre, che era uno spregiudicato e rotto a tutte le esperienze, prese il figlio, lo avvolse in pelli di lepre e lo portò sull’Olimpo.
Lì gli dei, che, come abbiamo visto, si annoiavano, accolsero in modo divertito la strana creatura, che fu addirittura accolta nel corteo di Dioniso.
Buono, quello.
Pure lui partorito, si fa per dire, malamente, visto che il solito Ermes lo aveva cucito nella coscia del padre Zeus perché la madre Semele era morta e che, dopo la nascita, lo aveva subito portato a crescere in una grotta. E lì Dioniso era cresciuto, accudito da satiri, menadi e da Sileno, tutti ubriachi tutto il tempo, apprezzando inevitabilmente i frutti di quei tralci d’uva che sono sempre rappresentati, lui presente, dappertutto.
Ma torniamo al dio caprino, che va ad abitare in Arcadia, certamente regione del Peloponneso centrale molto adatta alla pastorizia, ma anche luogo della mente e dell’anima, nella quale si consuma l’Età dell’Oro del mondo.
Pan, questo era il nome del dio, si rivela subito di umore scontroso e selvatico, è uno astuto, che urla per boschi e monti, agilissimo ad arrampicarsi sulle rocce, con crisi di solitudine, interrotte quando balza fuori di botto da un cespuglio per terrorizzare i passanti.
Insomma, uno con un carattere impossibile.
Conosce però l’arte di predire il futuro e di guarire il prossimo.

Arnold Böcklin, Siringa fugge gli assalti di Pan, 1854

È anche uno che non disdegna nessuna delle donne che gli capitano a tiro, menadi e ninfe, giace con tutte.
Non a caso nel Rinascimento egli impersona l’allegoria della Lussuria.
Ma anche lui ha un cuore, dunque viene pure per lui il tempo di innamorarsi.
L’unico problema con la ninfa Siringa è che lei è votata al culto di Artemide, quindi non vuole saperne di uomini, soprattutto se così bestiali (ma questa è una mia congettura).
Lui la rincorre, lei fugge, siamo in una palude sulle sponde di un fiume, lei implora le Naiadi, consorelle delle acque terrestri, di aiutarla.
E lei si trasforma in un canneto.

Arnold Böcklin, Pan nel canneto, 1857

Le canne si muovono al vento, che le fa gemere armoniosamente.
Il dio è incantato dalla novità e dalla dolcezza del suono. Dice «Sarà così che il mio colloquio con te si perpetuerà», taglia le canne, le mette, degradanti, una accanto all’altra e le tiene insieme con la cera.
Arnold Böcklin, il più grande artista dei paesi di lingua tedesca dell’Ottocento, sì, quello dell’Isola dei morti, rappresenta il dio che, consapevole di aver perduto per sempre la sua amata, si è accucciato nel canneto e suona la sua siringa.
Bellissimo sentimento del mito, vicinanza alla natura, nell’arte di Böcklin mito e natura si completano e si danno luce e forza reciprocamente.
Pan, che è l’antagonista dell’uomo civilizzato, diventa l’autoritratto dell’artista.
E pure noi non siamo esenti da questa fascinazione, in greco  παν significa «tutto» e anche noi a quel tutto apparteniamo.

Annibale Carracci, Pan e Diana, 1604

Dio dei pastori e del bestiame, ma anche dei cacciatori, Pan intreccia una tresca amorosa anche con Diana, che conquista (non sappiamo fino a che punto) donandole della lana candida come la neve.
La scena, così come è descritta da Annibale Carracci nel suo affresco a Palazzo Farnese, è idilliaca. Il dio caprino, pure accompagnato dal caprone, porge alla dea che levita in aria sopra di lui la sua offerta, di cui noi sentiamo la morbidezza. Egli ha in mano la verga del pastore e la sua siringa è appesa all’albero lì accanto.
Respiriamo aria, sole, luce, respiriamo un omaggio al Rinascimento che, in una Roma controriformata, un po’ chiusa, un po’ triste, quasi non ci sembra vero.
Come qui non ci capacitiamo della malinconia di Annibale, cui, a un certo punto, venne «a noia il vivere» e che, avvilito, non riuscì più a lavorare, si risentì perché era stato mal pagato, fuggì a Napoli, «diede in peggio», ritornò a Roma e si ammalò, morendo di febbre e di tristezza.
Miracolo dell’arte, quando un artista che vive di profondi turbamenti produce invece opere di serena e luminosa classicità.
(Eppure ci deve essere una logica. Forse l’arte davvero consola e compensa).

Per me l’immagine più bella di Pan è quella che vi ho messo in apertura in un dettaglio e che qui vi faccio vedere completa. Custodita, giustamente, nel Gabinetto segreto del Museo Archeologico di Napoli, viene da Ercolano e mostra il dio in una versione stavolta umana. Il dio e la sua capra fanno l’amore come (a volte) lo fanno uomini e donne, guardandosi in faccia, lui la tiene per la barbetta, lei sembra molto contenta.

Pan e la capra, I secolo, foto A. Maddalena

Nel rapporto fra uomo e animale, di rado si è raggiunta una simile intesa, insomma, non stiamo più nemmeno a vedere chi è l’animale e chi la bestia.

Gemma augustea, I secolo

Se alle signore e alla signorine che mi leggono è venuta voglia con tutte queste sollecitazioni di fare un’esperienza caprina, casomai facendola precedere da una bella lavata, ma se esse non hanno del tutto il coraggio, come dicono i francesi, di «se jeter à l’eau» (non credo che ci sia bisogno di tradurre), possono sempre provare con un uomo Capricorno.
Certe volte la rudezza è quella.
In realtà anche Augusto era nato sotto questo nobile segno, ce lo dice la squisita Gemma augustea, l’onice a lui dedicata, che in alto, proprio alla sinistra dell’imperatore, che viene incoronato, reca inciso il suo segno zodiacale.
E Augusto tanto rude non sembra.
Insomma, con i Capricorni, vedete voi.

Ma non dimenticate che Pan governa anche il panico, quel «senso di forte ansia e paura che un individuo può provare di fronte a un pericolo inaspettato, e che determina uno stato di confusione… caratterizzata per lo più da comportamenti irrazionali».
D’accordo, situazioni di pericolo, ma non è che ci vogliamo mettere anche l’amore, forse, meglio, quello un po’ caprino e bestiale?

E per finire un ricordo personale.
Qualche tempo fa me ne andai in vacanza a Bordeaux. Volevo vedere cose d’arte e anche bere sul posto qualcuno dei loro meravigliosi vini.
(Purtroppo lo Château d’Yquem, che avevo finalmente a portata di mano, era chiuso e dovetti accontentarmi del resto).
Ero scesa in un albergo fuori città, in una situazione di idillio campestre, di quelli, però, civilizzati, dove si mangiava e si beveva d’incanto.
Tutte le mattine prendevo la macchina che avevo noleggiato e raggiungevo la città per le mie solite cose d’arte.
Passavo regolarmente davanti a un boschetto dove pascolavano delle capre e mi venne spontaneo fermarmi a guardarle.
Una di loro, una capretta scura e vivacissima, mi venne subito incontro la prima volta. Facemmo amicizia, mi dava delle testatine, si faceva grattare fra le piccole corna, prendeva dalla mia mano l’erba che le porgevo, la medesima che stava nel prato, ma sembrava preferirla.
Non solo, quando le compagne provavano ad avvicinarsi, aveva crisi di gelosia e le caricava, allontanandole.
Mattina, uscendo, e sera, rientrando, mi fermavo da lei e ci intrattenevamo reciprocamente in una conversazione singolare.
Avevo l’impressione che riconoscesse il motore della mia macchina.
La partenza fu straziante, le pensai tutte, portarmela a Roma non era possibile, mi sarei potuta trasferire io a Bordeaux, un lavoro lo avrei trovato, avrei preso una piccola casa in campagna con uno spazio a lei dedicato.
Ero quasi decisa a tagliare i ponti con la mia vita precedente.
Non se ne fece nulla.
Appena scesi dall’aereo a Fiumicino, la vita mi riafferrò e dovetti ricominciare a starle appresso.
Ma la capretta bordolese non l’ho mai dimenticata.
E quando mi sarò stufata della città, difficile ma mai dire mai, mi prenderò una piccola casa un po’ fuori Roma, coltiverò limoni e pomodori e mi prenderò per compagnia una capretta.

E se poi una volta uscirà da un cespuglio, urlante e agilissimo, il dio Pan in persona, armato di zampogna e del resto, minacciandomi con il suo bastone e tentandomi con altro, vuol dire che farò l’esperienza cui Siringa si è sottratta.
Prima, però, una lavata al dio gliela do.
Con acqua calda, sapone e pure spazzola, sapete, quelle dure per il bucato.
Caprino, sì, ma non esageriamo.