Stuart Davis, Men Without Women, 1932

Vediamo se ci siamo: una spider decappottabile; una pompa di benzina; un pacchetto di sigarette; sigari; barca a vela; tabacco e un sacchetto di tabacco; carte da gioco; fiammiferi; insegna di barbiere; campana di una nave.
Questo è un uomo.
Almeno secondo la visione che di un uomo ha Stuart Davis, insieme a Hopper, l’altro grandissimo artista americano degli anni ’30.
Tutto il contrario di Hopper, visto che Davis è estroverso, loquace, spiritoso, ottimista.
Sensibile al Cubismo, anticipatore della Pop Art per via della sua passione per gli oggetti, uno cui dovrebbero guardare tutti coloro che si occupano di pubblicità, visto che il suo catalogo è pieno di dipinti nei quali compaiono prodotti che per noi diventano subito desiderabili.
Ma oggi Davis ci interessa per il murale che gli venne commissionato nel 1932 per il lounge riservato ai fumatori (maschi) nel Radio City Music Hall, quel tempio dello spettacolo del Rockefeller Center nel quale, se ricordate, finisce anche il giovane Holden durante le sue peregrinazioni newyorkesi, scocciandosi a più riprese, per il varietà e per il film di quell’Alec vattelappesca che aveva perso la memoria.
Eccetera.
Ma il giovane Holden arriva una ventina di anni dopo.

Men Without Women al suo posto

Quando Stuart Davis riceve la commissione, accade che un edificio commerciale, e un’istituzione semi-pubblica, diventa committente di una collezione di artisti americani moderni e progressisti formata da circa trenta nomi e da cento lavori d’arte.
Niente male.
Il titolo dell’opera di Davis deriverebbe da una raccolta di racconti brevi di Ernest  Hemingway, ma fu considerato dopo un po’ inappropriato dall’artista.
Quando l’opera passò al MoMA si chiamò semplicemente murale, ma questo è un altro discorso.
A noi interessano gli uomini senza donne.
Che sembrano spassarsela, fra oggetti che sono collegati al divertimento, al riposo e allo svago.
Diciamo che manca un pallone.
Per il resto mi sta tutto bene, anche se non apprezzo gli uomini che fumano la pipa, che mi sembrano dei pantofolai e quelli che fumano il sigaro, che mi fa subito gangster.
(Ecco che mi sono alienata alcune simpatie, poco male, così non corro il rischio di dover inventare scuse nel caso di un invito da declinare).
Il murale è molto grande, misura cm 327 x 518, è cioè un pannello che sale e si allarga fino a divorare lo spazio.
Tecnicamente è un olio su tela. Ma fu molto difficile rimuoverlo dall’edificio, visto che si dovette portar via anche una porzione di muro che, fra una cosa e l’altra, pesava più di 450 chili.
Pensate come sarebbe stato bello vederlo nell’ambiente per il quale era stato creato, con quell’eleganza degli anni ’30 che è tale un po’ in tutto il mondo, le linee dritte, quell’umore un po’ geometrico che fa subito stile.
Il problema era che per vedere l’opera bisognava essere maschi e fumatori.
Altrimenti il fantastico oggetto sarebbe stato sottratto alla nostra vista e lo avremmo conosciuto solo dai racconti.
Ancora meglio: esso sarebbe diventato per noi leggenda.

Stuart Davis produce lavori che sono chiari come forma e quanto a idee, insomma, perfettamente leggibili. È uno altamente stilizzato, che tende all’astrazione ma che all’astratto non arriva del tutto. Uno molto sensibile al paesaggio urbano che l’America gli mette sotto gli occhi in quel periodo, dalle insegne ai manifesti, e poi grattacieli, imbarcazioni, negozi che vendono utensili da cucina  a 5 & 10 cents, taxi, radio, musica jazz, poesia, un sacco di packaging, che protegge, incarta, comunica, fa vendere: ancora fiammiferi, rasoi, disinfettanti.

In qualche modo era destinato a lavorare su larga scala raccontando come si sta senza donne fra i piedi.
Nel murale, infatti, non ci sono figure umane, tantomeno femminili, siamo insomma lontani dal cliché che inserisce una donnina semisvestita fra i passatempi virili.
Qui tutto è autonomo e chiuso in un universo autosufficiente, lo dice il tabacco, lo dice la scelta dei colori, radicalmente sobri con un’abbondanza calcolata di terre, si ha la sensazione di un veliero di pirati, sul quale, se arriva una donna, i guai si succedono a catena.
A interrogarsi su quale potrebbe essere il corrispettivo femminile c’è da rimanere perplessi. C’è un film iraniano del 2009 che si intitola Donne senza uomini, non l’ho ancora visto e forse non voglio vederlo, quando non ci sono uomini c’è subito il convento, la guerra, l’harem, il pollaio.
Anche se ci sono complicità femminili che apprezzo profondamente, momenti di scambio sofisticati e liberi dai quali esco con forze nuove, ma ci vogliono, come sempre, le persone giuste, gli incontri che danno e prendono con il ritmo e l’intensità necessari.

Se non bastasse quello che abbiamo detto finora del murale di Stuart Davis, per ribadirne l’importanza nella storia dell’arte vi do un’altra indicazione e il sigillo di garanzia.
La somiglianza fra Men Without Women e Guernica di Picasso salta immediatamente agli occhi.

Picasso, Guernica, 1937

C’è un’organizzazione delle forme simile; un analogo equilibrio fra il chiaro e lo scuro; c’è un uso più che sobrio del colore.
Picasso diceva che il colore in un dipinto può essere una distrazione. Soprattutto in un dipinto come questo. Se volete saperne di più, leggete qui.
Le forme sono stilizzate, si capisce che la loro matrice è cubista.
Picasso non era stato in America. Però era un vorace collezionista di immagini e il murale di Davis era stato ampiamente pubblicizzato, quindi deve essergli stato noto.
Gertrude Stein, che accoglieva e proteggeva letterati e artisti, metteva da parte per Picasso i giornali che potevano interessargli. Dico anche che quando Davis andò a Parigi alla fine degli anni ’20, andò spesso a trovarla per vedere la sua collezione.
Aggiungiamo che anche Hemingway era un frequentatore di casa Stein. Aveva preso l’abitudine di fermarsi al numero 27 di rue de Fleurus nel tardo pomeriggio e dice che lo faceva per il calore, i magnifici dipinti e la conversazione, come racconta in un bellissimo capitolo di A Moveable Feast .
Insieme alla superba raccolta, degna di un museo, e al grande camino, c’erano anche buone cose da mangiare e altre da bere, per la precisione liquori naturali distillati da prugne viola e gialle e da lamponi selvatici. E tutto questo, nella disciplina di cui parla Hemingway (che ci dice che lui aveva bisogno di fortuna e di disciplina), faceva comodo, non fosse stato che per le difficoltà economiche che c’erano sempre e che venivano un po’ addolcite dalla generosità di alcune care persone, passate peraltro alla storia e vicine anche al mio cuore.

In conclusione e ricapitolando.
Abbiamo messo insieme un po’ di nomi insigni: Stuart Davis, Picasso, Hemingway. Aggiungo anche Miss Stein, signora, diciamolo, piuttosto virile, nella forma e nella sostanza.
Insomma, un bel gruppetto di uomini senza donne, tutti impegnati in attività di creazione a titolo diverso, tutti nell’aria del tempo, che si muovono fra New York e Parigi.

Ce ne è abbastanza per sognare.

Come fanno sognare gli uomini quando stanno senza donne, quando sono, quindi, disponibili, aperti a ogni possibilità e avventura, insomma quando danno il meglio di sé e quando il meglio di sé suggeriscono che possono offrire.