Con il cuore in gramaglie e il mio immaginario, già lo so, che sarà ridotto a uno straccio, mi avvio alla conclusione dell’avventura.
Che è stata bellissima e che mi ha portato in giro per il palazzo e i giardini di Versailles, che per me non sono più quella specie di prigione aristocratica e noiosissima come ritenevo da sempre, ma che sono diventati lo scenario di ogni avventura possibile.
Si impone un punto della situazione, per salutare, ringraziare, imprimere nella memoria.

Andiamo a cominciare. E cominciamo dall’inizio.

La serie. Una delle cose più belle che abbia visto in vita mia, dinamica, dirompente, sferzata dalla vitalità, dall’erotismo e dalla giovinezza. Tre stagioni con trenta episodi in tutto, che pensavo di concentrare nelle vacanze di Pasqua e che invece mi sono portata oltre, anche con un certo gusto, dato un mio errore di valutazione per cui contavo di trovare i dischetti alla libreria all’angolo e invece me li sono dovuti far arrivare in due soluzioni dalla Francia, perdendo giorni preziosi e assaggiando pure l’astinenza.
Ho visto tutte le puntate in francese, ovvero doppiate, ma la versione originale inglese, che pure ho tentato, era troppo complicata, soffriva della trama, intricatissima, degli amori del re, innumerevoli, e di tutti gli agguati della storia. Un po’ bastonata, sono tornata al francese. Poco male, fino a prova contraria era quello l’idioma in cui si esprimeva Louis XIV.

Mon Roi. Ovvero, le Roi Soleil. Mai definizione fu più indovinata. Un sovrano investito dalla grazia, d’accordo, lui pensava di essere in possesso di quella con la g maiuscola, ritenendosi pari, se non superiore, a Dio, e invece gli è toccato esprimere altro. Un uomo giovane, dagli occhi chiari e i lineamenti delicati, ça va sans dire, elegantissimo, e ci mancherebbe, spesso sorridente. E qui sta il suo stigma: uno che sorride in quel modo, tu come fai a pensare che possa uccidere, ordinare di eliminare, torturare, imporre la vendetta, coltivare solo la sua paranoica ambizione.

Louis

Mica gli riesce del tutto, è un po’ sempre come se fosse malgré soi, lui sembra nato per portare luce al mondo, quando tocca una donna, e ne tocca tantissime, le sfiora le spalle con la punta delle dita, quando si spoglia, e si spoglia molto, ha una certa quantità di peli, lui che non porta nemmeno la barba ed è un maschio scuro ma con gli occhi azzurri, dunque ci si aspetterebbe altro. Lui sorride per educazione e perché è così che si comanda, mentendo, ma gentilmente, lui, tutto sommato, è un uomo fragile, sta sempre a pendere dalle labbra dell’amante di turno, si fa perfino rigirare da qualche ragazzetta, ha una sua maniera corretta di imporre il suo potere, quando la giovanissima nipote dell’imperatore Leopoldo si è già mezza spogliata e già si sono detti che per lei è la prima volta, la congeda perché lei gli ha chiesto se la ama. Che lezione di stile, ce ne fossero, di uomini chiari come lui, almeno in questa circostanza. Un re dinamico e dirompente, che incarna il vero spirito della serie, sferzato com’è dalla vitalità, dall’erotismo e dalla giovinezza.

Mon Frère. Philippe d’Orléans, detto Monsieur. Uno degli uomini più belli che abbia visto in vita mia. Massimo, il mio parrucchiere, fra i cultori più accesi della serie, mi ha detto che non gli piace per via del naso. E io il naso di Philippe mi sono messa a guardare.

Philippe

Nel viso danno l’espressione in primo luogo gli occhi, infatti sono nascosti quando si vuole celare l’identità. Subito dopo arriva il naso, voi pensate solo a come cambia la vita di chi, esasperato da se stesso, si sottopone a una rinoplastica.
Certo è che danno espressione anche le orecchie, provate a tirarvele, e i denti, che riescono anche a fare scemo o intelligente.
E il naso di Philippe è quello che gli imprime l’alterigia dell’aristocrazia.
Anche lui elegantissimo, dritto, coraggioso, è uno che tira di spada e tira pure cazzotti, dunque non è quel moscardino che sembra.
Almeno non è solo questo.
E la sua presenza acquisisce spessore mano a mano che la narrazione va avanti, lui diventa un uomo sempre più prismatico e complesso, matura, non mi sembra che invecchi perché rimane sempre allo stadio della sua giovinezza, nella vita capita di rado, ed è un peccato, di assistere a un’evoluzione di questo genere. Gli uomini, a un certo punto, si buttano sul divano a guardare le partite e le serie tv, smettono di giocare a calcetto e diventano padri di famiglia, il croccante pollo arrosto di poco tempo prima diventa un piatto di pasta della mensa aziendale, pure coll’odore di dado da brodo che esce dalla salsa.
Che tristezza.
Messieurs, guardate Sua Altezza, pieno di figli benché non del tutto interessato alle donne, ha fatto il suo dovere dinastico, però preferisce andare in guerra e gli affari di famiglia lo appassionano solo se sono drammatici. Insomma, uno così, ne ha di cose da raccontare, la sera quando rientra.
E poi, con buona pace del mio parrucchiere, è bello, bello, bello.
Bello.

Mon Chou. Già ho detto qui chi è il mio favorito. E lo confermo. Fabien, in quanto Capo della Polizia e personaggio fondante, è quasi sempre presente. Sempre torvo, scuro, solitario, ha pure un’avventura con Sophie, figlia della Béatrice da lui fatta decapitare perché aveva tentato di avvelenarlo. E in quel vortice di abiti che si slacciano, stivali che si sfilano, seni che emergono da quintali di stoffa, capelli che grondano sudore, si capisce che quel corpo per lui è un approdo.

Fabien

Solo che la figlia è infida come e più della madre, opportunista, avvelenatrice pure lei, scappa portando in salvo la nipote dell’imperatore, visto che da buona spia, lavora per la concorrenza.
Insomma, Marchal è un uomo così sfortunato con le donne che, contrariamente a quanto accade nella vita quotidiana, quando da uno del genere è bene darsela a gambe, lui, ti viene voglia di prenderlo fra le braccia e di raccontargli la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude ma che bella è e bella rimane.
E meno male.

Les Hommes. Tempo fa avevo un’amica che si chiamava Lucia, grafologa, una donna in bilico fra tragedia e commedia, voi pensate che quando decise di dimenticare un fidanzato, e di dimenticarlo rapidamente, si iscrisse all’Accademia del Biliardo, trovandosi di botto circa una trentina di pretendenti fra i quali scegliere (le donne, la sera, fanno altro).
Io, che sono una esperta delle cose del mondo, le dissi guarda che quelli sono tutti pessimi, sfaccendati, alcolizzati, nottambuli, non ne caverai niente se non altri fastidi. E così fu, anche se i primi giorni furono esaltanti.
Lei ogni tanto mi telefonava e mi diceva  «Io stasera ti vedrei uscire con» e giù con tutta una serie di attori che io non avevo mai citato in nessuna delle nostre conversazioni. Il suo prediletto per me era, secondo lei, Jeremy Irons, non ho mai capito per quale motivo, visto che io mai avevo manifestato un qualche interesse nei suoi confronti.
Ma tant’era.
Credo che lei volesse esprimere una specie di rosa di scelte, un po’ come potrebbe fare qualunque donna con gli uomini di Versailles, ciascuno dei quali incarna un aspetto della virilità o un sentimento.

Dunque, ci sarebbero le serate fatue con Le Chevalier, l’amante del fratello del re, un dandy insopportabile da qualunque verso lo prendi; quelle intense con il valletto Bontemps, figura potente alla corte per la sua vicinanza al sovrano; quelle tutta testa e numeri con il Ministro delle Finanze Colbert, che fu colui che inviò il tiro di famiglia a sei cavalli a Gian Lorenzo Bernini e al suo seguito per condurre tutti a palazzo quando il grande Maestro andò a Parigi nel 1665, uscendo per la prima e unica volta da Roma e ritornando contento, stufo di quella corte e del suo cerimoniale e più ricco, lui che già non se la passava male, per un generoso vitalizio.
A proposito di Bernini, ho aspettato che si raccontasse questa sua visita durata quasi quattro mesi e non ne ho visto traccia.
Se la prossima volta gli sceneggiatori di Versailles volessero approfittare della mia competenza professionale, eviterebbero questa lacuna nella narrazione e, cosa ben più importante, mi accoglierebbero nel loro mondo di fantasia e di scrittura, facendomi contenta.
Tutti gli uomini hanno i capelli lunghi.
E non sembrano parrucche.
E loro sono magnifici anche per questo.

La Reine. Bellissima, dolente, trascurata, traditrice e tradita.
Il bello sta proprio in questo. Donna annoiata, donna facile. Muore pure lei avvelenata, dopo una specie di lunga agonia di sofferenza scambiata per isteria diabolica.

Marie-Thérèse

Ha il coraggio di lamentarsi con il re perché l’ha solo usata, la vediamo alle prese con ben due avventure extraconiugali, una delle quali finisce da subito, appena comincia la serie, con un episodio imbarazzante: la nascita di una creatura nera, realmente esistita, frutto evidente di amori policromi e che qui diventa il gancio con il quale da subito i creatori ti attaccano alla tua poltrona, con una coda che, storicamente, pare sia tutta d’invenzione ma che è talmente ben trovata che non chiedi altro se non che ti dicano che è vera.
Della regina apprezzo tutto, il volto scolpito, la voce di velluto, mai, mai un sorriso, sempre quel rimprovero nei confronti del re per quello che non è stato, con i tradimenti di lui, palesi e imposti, e quelli di lei, inammissibili.
Un bel coraggio, sarebbe tale oggi, figuriamoci a quei tempi.

Les Femmes. Bellissime le aristocratiche, tutte lì a vedere se si può fare un salto nella camera da letto regale, talmente implicate nella caccia all’uomo da non capire più dove siano i confini fra l’amore e il potere eppure capaci a tratti di passioni intense, magnifiche per il portamento e le spalle scoperte, chissà quanto tempo impiegavano la mattina a vestirsi, sontuose le acconciature, pieni di lacci gli abiti, che disfano loro personalmente o che si fanno disfare dagli amanti, sbocciando da quei metri infiniti di stoffa, offrendosi, sempre con dichiarazioni pubbliche di devozione e pazienza.

La più simpatica è la Palatina, tedesca, destinata a un matrimonio disgraziato che lei, con puro pragmatismo, rende plausibile, piena di buon senso, un pesce fuor d’acqua fra gli insensati del palazzo.

Gli uomini sono tutti opportunisti e sfruttano l’opportunità di trovarsi a portata di mano una donna.
Succede tutti i giorni, per i figli, il pranzo della domenica, le camicie stirate, l’ascolto, la bella figura, se la signora o signorina è avvenente, alla festa del dopolavoro o della bocciofila.
Figuriamoci se non succede a palazzo.
Dove però le donne ricambiano le attenzioni interessate con colpi bassi, avvolte in fantastici mantelli vanno cercando veleni e pozioni magiche che nascondono in seno, si muovono con una disinvoltura atletica e morbida montando pure a cavallo, sono consumate rapidamente ma si lasciano consumare bruciando da due parti, emettendo una luce che arde con il doppio dello splendore.

Complici di tutti le serve.
Belle a modo loro le popolane e le contadine.
Chiuse nei loro conventi e nelle loro tuniche le suore.
Una delle quali, però, una volta che il Re fa sosta nel convento, si rivela a lui come un’antica amante.
Stavamo in pensiero e temevamo che Louis se ne stesse tranquillo, almeno per una sera.

Les Verres et le Vin. A Versailles bevono tutti, spesso e volentieri. E bevono rigorosamente vino rosso in calici che spesso stanno lì, pieni, appoggiati sui tavoli, pronti per il servizio.
Vino come pausa, consolazione, rifugio, festeggiamento.

Verre à pied, sec. XVII

Vado fiera dei miei bicchieri, ho anche alcuni pezzi dell’Ottocento, che uso regolarmente e che regolarmente rompo.
Però i calici del Re sono impareggiabili, ve ne mostro uno dell’epoca che può rendere l’idea.
Magnifici, colorati, leggeri come bolle di sapone, sembrano intagliati nel ghiaccio e insegnano che i dettagli sono importanti, e non solo a corte.
E che il vino è sempre meglio offrirlo nel giusto recipiente e che non ci sono scuse per la mancata eleganza.

La Musique. Come sempre, la musica parla una sua lingua universale. Qui, la colonna sonora ritorna a ogni stagione, fedelmente.
Interpretata dagli M83 apre con una dichiarazione di intenti.
I versi che sentiamo sotto i titoli di testa dicono tutto:

I’m the king of my own land.
Facing tempests of dust, I’ll fight until the end.
Creatures of my dreams raise up and dance with me
Now and forever, I’m your king!

Mi avvio alla conclusione della mia avventura.
Ho già organizzato la mia consueta vacanza di studio e ci sto pensando.
Forse quest’anno potrei sostituire la mia giornata di rito al Louvre (una sola sezione, più o meno una decina di sale) con uno spostamento di una trentina di chilometri, tornando sul luogo di tutte le avventure e di tutte le battaglie, quelle della storia e quelle private, non meno importanti.

Indovinate in quale luogo, indovinate dove.