Il castello di Howl, la casa perfetta, completa ed errante

I Sapori dell’arte, 2. Lunedì 26 marzo 2018: Il Sapore della casa

Fosse per me, i locali pubblici se la passerebbero maluccio.
Bar, ristoranti, teatri, gallerie d’arte, sale da biliardo, parrocchie, hall di alberghi, tutto sarebbe vuoto.
Perché io sono la persona meno mondana che io frequenti (e si capisce che mi devo frequentare per forza).
Perché sono molto casanière, ovvero mi piace stare a casa mia e sono capace di starci come ficcata in una tana anche tre o quattro giorni filati, uscendo solo nottetempo per liberarmi di ciò che non mi serve, l’importante è che io abbia viveri, alcolici e film in quantità abbondante e poi che i miei due computer funzionino e che i servizi siano assicurati dall’esterno.
In casa posso fare tutto: dormire, mangiare, leggere, studiare, scrivere,  ascoltare musica, parlare al telefono.
Al limite, anche ricevere ospiti.

Ora che la modernità mi offre la possibilità dell’acquisto on line, dai filtri della caraffa dell’acqua alle creme, con in aggiunta le stoviglie vintage, che tanto amo e che posso scegliere da belle fotografie scattate da chi le ha scelte per me, risparmiandomi l’alzata all’alba per il mercato e la delusione di quando non trovi niente di interessante, ora, dicevo, sarei quasi pronta per il grande passo.
Ora vi spiego.
Ho rivisto in questi giorni un film a episodi, si intitola Tokyo!, anche con il punto esclamativo, e racconta la singolarità della capitale nipponica vista da tre registi di nazionalità diverse.
L’ultimo, il sud-coreano Bong Joon-ho, firma un piccolo capolavoro nel quale indaga la vita degli ‘hikikomori’, quei reclusi volontari dal mondo che trascorrono il loro tempo in una situazione di intenzionale isolamento.
Non ricordavo che il film fosse così drammatico, la città è scossa continuamente da terremoti e, soprattutto, è una città deserta, mille miglia lontana dalla metropoli che abbiamo in mente, uscita un po’ da un videogioco, un po’ da un manga.
(Quando un amico mi raccontò dell’esistenza degli hikikomori, pensai che fossero i miei fratellini più giovani – sono quasi tutti ragazzi – con i quali avevo parecchio da spartire).
Il cerchio si spezza quando il protagonista guarda finalmente in faccia la giovane donna che il sabato sera gli consegna una pizza.
Anche lei sta per chiudersi in casa, è graziosissima, indossa una giarrettiera e, soprattutto, ha tatuati sulla pelle dei pulsanti, ciascuno con un nome e una funzione.
Durante un’ulteriore scossa sismica e in un estremo desiderio di esistenza, lui premerà love.
E lei lo guarderà in modo diverso.

 

 

Comunque io non sono (non ancora) così radicale, esco regolarmente, sembro anche socievole e aperta, poi è vero che preferisco sempre casa mia: dove non piove mai, la temperatura è sempre quella mia prediletta (24°), il cambio degli asciugamani nella stanza da bagno è quello di un hotel a cinque stelle, ho tutti i film che voglio vedere, tutti i libri che voglio leggere e dove ho il mondo, in una parola, a portata di mano.
Rimanendo, io, fuori dal mondo.
Questo per dire che, se faccio una lezione sul sapore della casa, so di che parlo.
Accanto all’infinità di accezioni e di sfumature che si raccolgono intorno a una parola così semplice e così importante al medesimo tempo, mi interessano le locuzioni che tutti usiamo senza nemmeno farci caso: andare al bar sotto casa; stare a casa; tornare a casa; stare di casa in un posto; non sa dove stia di casa l’educazione; mettere su casa; donna di casa; riportare la pelle a casa; la squadra domenica prossima gioca in casa; tanti saluti a casa; è tutta casa; fare gli onori di casa; casa editrice; le 64 case della scacchiera, bianche e nere; casa del diavolo; casa di bambola; casa da gioco; casa di tolleranzacasa lunare; casa di cura; Casa bianca.
C’è da entrare dentro l’argomento e da non riuscire più a uscirne, come gli hikikomori da casa loro.
Devo vedere di sbrogliarmela.
Nell’universo senza confini degli artisti, che di case si sono occupati continuamente, mi viene in mente di scegliere:
1. La squisita forma rinascimentale della Farnesina, qui a Roma, un posto che amo molto.
Progettata da Baldassarre Peruzzi per il banchiere senese Agostino Chigi come villa per riposarsi dopo le fatiche del banco che aveva in centro, ha in sé il segno del passaggio di Raffaello e dei suoi allievi, con il momento più alto di tutti, quello dell’oroscopo fortunato del padrone di casa dipinto in una sala al piano terra, pieno di storie e storiette, dei, eroi, segni zodiacali che devi andarti a decifrare, insomma, uno dei luoghi più incantevoli e meno frequentati della mia città, a Trastevere ma in una situazione di aristocratico distacco.

2. Tutta la serie della Femme-Maison di Louise Bourgeois, ovvero il suo riflettere su come una donna appartenga alla casa e viceversa, al punto da fare con essa una cosa sola. Realizzato negli anni ’40 del secolo scorso e poi ripreso a distanza di tempo, l’insieme di opere, declinate con più tecniche,  ben illustra il mordace spirito della grande artista, sempre concentrata sulle sue vicende personali e di famiglia, che diventano facilmente anche nostre, lasciandoci appropriare di un destino eccezionale del quale ci sentiamo di fare parte.

3. La neoplatonica Farnsworth House di Mies van der Rohe, progettata fra il 1945 e il 1950 per la nefrologa Edith Farnsworth, costruita con materiali neutri, acciaio laccato bianco e travertino romano, immersa in un ampio terreno boscoso di quattro ettari situato sul Fox River, non lontano da Chicago, una ‘moderna espressione del sublime’.
Leggera, trasparente, attraversata dalla natura, costò al grande architetto tedesco non pochi guai: proteste per i vetri appannati d’inverno e il caldo e gli insetti d’estate. Inoltre, si rovinano i rapporti fra committente e maestro e Mies, che pure parlava poco, ebbe a dire che lei si aspettava  ‘anche l’architetto insieme alla casa’.
Come, del resto, darle torto, uno degli uomini più affascinanti e prepotenti del suo tempo, convinto che i clienti fossero dei bambini ai quali bisognava imporre un’idea di abitare così come si impone un’idea di educazione.

4. E, a proposito di uomini prepotenti e fascinosi, sceglierei senza esitazioni anche la casa per le vacanze costruita per sé, anche se regalata, si fa per dire, alla moglie, dall’altro architetto immenso del secolo scorso, un pioniere, un accentratore, un esploratore solitario, un martire, un monaco.
Un folle.
Quando Le Corbusier nel 1951 decide di farsi la casa al mare, per la precisione in Costa Azzurra, a Cap Martin, progetta il suo Cabanon, 16 mq, dentro c’è, però, tutto ed è pure facile da pulire. Lo disegna in 45 minuti e ci trascorre tutti gli anni la sua estate, anzi, muore durante una nuotata al largo, per una crisi cardiaca, proprio nel suo mare.
Di fronte alle ville che ostentano ricchezza, il Cabanon sta ancora lì, diventato monumento nazionale, prova visibile e tangibile che i più grandi sono capace di pensarla diversamente rispetto al concetto di casa diffuso dappertutto, anzi, di pensarla nell’unico modo possibile: la nostra casa siamo noi ed essa è il nostro autoritratto.