Dotata di denti, detti rebbi, spesso aguzzi, dunque, atti ad infilzare; indispensabile in cucina; di forme, volendo, accattivanti, la forchetta non può che essere femmina.
Ed è tale in tutte le lingue che hanno un genere e che pure ogni tanto sono strambe.
Stavolta non ci sono dubbi.
Storicamente la forchetta appare con calma, ben più tardi del coltello e del cucchiaio, cosa che non mi convince del tutto, essendo essa presente quotidianamente anche sotto altre forme. Ci sono infatti forchette, forcine, forcelle, siamo sempre lì, un po’ dappertutto: presso gli archibugieri, per appoggiare l’arma; negli orologi, in comunicazione con il bilanciere;  in anatomia umana, sullo sterno e nella vulva; negli animali, uccelli e cavalli, per questi ultimi, nello zoccolo; in musica; nella dama e negli scacchi.
Insomma, un mondo biforcuto, triforcuto.
Quadriforcuto, quando parliamo della forchetta da tavola.


Si racconta che fu il re di Francia Enrico III a vedere l’uso di questa posata a Venezia e si dice che ne fosse deliziosamente sorpreso.
Lo capisco.

Lilli e il Vagabondo

Personalmente continuo anch’io a sorprendermi deliziosamente quando vedo mangiare e quando mangio gli spaghetti. Tutti gli italiani sanno che a questo scopo si usa solamente la forchetta, mai il cucchiaio, e che gli spaghetti non si tagliano. Certo è che se Lilli e il Vagabondo avessero avuto a disposizione una posata a testa per la loro cena romantica, la loro liaison non sarebbe cominciata.
Ma gli umani sono severamente diffidati dal fare altrettanto e suggerisco loro di trovare altri sistemi per gli approcci amorosi.

Introdotta la forchetta in Francia, non restò che adeguarla alle diverse portate.

Forchette

Se non vi preoccupate troppo, vi mostro uno schema che può essere utile.
A studiarselo, capiamo che le forchette indispensabili sono la numero 1 (molto simile alla 3) e la 7: cena, o pranzo, e dessert. Poi, volendo, potete aggiungere alla vostra tavola la forchetta da pesce, la numero 2.
Il disegno che vi propongo è molto articolato e  ci direbbe di cambiare posata per l’insalata (numero 6) e anche per le fragole (numero 11).
Comunque, fate voi, ognuno allestisce il suo posto a tavola a seconda di come considera il suo pasto: minimale, regale, quotidiano, situazione, quest’ultima, che secondo me non esclude proprio niente, essendo il cibo di tutti i giorni il più importante, visto che è quello che più ci tiene legati ai riti dell’esistenza.
(A casa mia, sempre tre forchette a testa. E, a cena, calici e lume di candela. Non costa quasi niente ed è subito festa).

Poseidone o Nettuno

Trovo molto simpatico che la forchetta numero 10, qui indicata per i frutti di mare, sia uguale al tridente di Poseidone: e mi sembra anche corretto.

Se invece, dopo essere andati per mare, vogliamo andare per terra, ovvero a vedere che cosa mangia Plutone con il suo bidente, a stare al nostro vademecum ci accorgiamo che il cibo a lui destinato è composto solo di lumache.
Una dieta un po’ monotona, per il Signore degli Inferi, comunque impegnato in vicende matrimoniali che non devono essergli costate poca fatica e che quindi avrebbero meritato un’alimentazione più variata.

Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1622

Vi mostro il dio ritratto da un giovanissimo Gian Lorenzo Bernini, per niente preoccupato del tour de force del gruppo scultoreo e capace di trasformare in carne il marmo, basta guardare la presa furibonda del dio sulla coscia della ragazza. Trascuriamo, però e al momento, questi dettagli, anche la lacrima sul viso di lei e l’orrendo Cerbero a tre teste e occupiamoci del suo strumento, il bidente, abbandonato a terra.
Avendo lui entrambe le mani occupate a fare altro.

Escludendo la possibilità di frequentare gli dei, che ai nostri giorni scarseggiano, vediamo come ce la caviamo con gli artisti, altra categoria di uomini da trattare con delicatezza.
Conoscendoli, dico sempre di praticarli con moderazione. Non è che penso a Monet, che ha fatto il ritratto alla moglie Camille sul letto di morte più interessato al cambiamento di colore del volto di lei che alla perdita; e nemmeno a Whistler, la cui amante, la signora Abbott, «una sera svenne per la lunga fatica della posa. Il pittore la lasciò svenuta. Di quel viso spossato, di quella figura riversa fece una punta secca».
Questo è il mio galateo anni ’50, la mia bibbia, che comunque sconsiglia anche i musicisti: «Chopin, sotto l’incubo che la Sand fosse annegata, durante un uragano scoppiato mentre ella era fuori per una escursione, compose il sesto preludio, detto della goccia invece di andare a cercarla o almeno mandare qualcuno in suo soccorso».
(L’elenco degli uomini da evitare è lungo, ma casomai ne parliamo un’altra volta).
Ma torniamo agli artisti e alle forchette.
Detta chiaramente, tenete sotto chiave o gli uni, o le altre. Guardate infatti che cosa succede quando si incontrano.
Bruno Munari è un artista atipico. Curioso, sottile, capace di spaziare (di schizzare) da tutte le parti, quando scoprì la fotocopiatrice, si divertì da matti a fotocopiare la propria faccia mettendola sulla lastra trasparente. Dite la verità, è quello che avreste voluto fare tutti.
Nato nel 1907, ha lavorato in campi diversi e si è occupato, con risultati meravigliosi, del processo creativo. Uno così non poteva non arrivare alle Forchette parlanti (1958).

Manipolando le nostre posate di oggi, piegandole, deformandole, togliendo loro la funzione per la quale erano state pensate, le dota di espressione e di una vita di cui, se non ci fosse stato lui, mai avremmo sospettato l’esistenza.
Vi metto un video nel quale il designer (l’artista) racconta come sono nate le sue Forchette, in modo tale che, se volete, pure voi fate parlare i vostri utensili. Ma, soprattutto, perché possiate ammirare con me la grazia giocosa, l’ironia, la leggerezza e la limpida intelligenza di una delle menti semplicemente più belle del nostro Novecento.  


Facciamo un patto fra noi: prendiamo come parola d’ordine una frase che Munari dice, per esempio «bisogna anche ogni tanto fare qualcosa di liberatorio» e, come suggerisce lui, invadiamo altri campi, facciamo ginnastica mentale.
Uno dei doni più grandi che ci fanno gli artisti: ci insegnano come si sta al mondo.

Bruno Munari, Forchette parlanti, 1958

Sulla scia di Munari e con analoga, sorridente levità, un altro artista, Gaetano Gravina, che mi onora della sua amicizia, alla mia richiesta di disegnarmi un logo per un ramo della mia attività in cui proponevo una lezione e una cena sul medesimo tema e che, su suo suggerimento, si chiamava Sapori d’arte, mi ha fatto omaggio di queste sue invenzioni.

Non so voi, ma io da un pezzo non riesco a guardare una forchetta senza pensare all’uno e all’altro.

Ora voglio mostrarvi le mie forchette predilette, che ho fotografato, proprio come i coltelli che mi stanno a cuore, sul vecchio tavolo di marmo della mia cucina.

Le mie forchette predilette

La più bella per me è quella con la libellula, che vi ho messo in primo piano: essa esce sia a pranzo che a cena, mai a colazione, perché, come sapete, c’è anche il déjeuner à la fourchette, del quale ora vi parlo e per il quale metto in tavola la forchetta che sta sotto alle altre, che è più piccola e più semplice, quasi una forchettina.
L’orario dei pasti è uno degli aspetti più sostanziali del vivere civile, voi pensate solo agli italiani del Nord, che pranzano in orari ritenuti da quelli del Sud impraticabili.


Alessandro Barbero è uno storico torinese, di cultura e sapienza mostruose. Evidentemente, studia questo e studia quello, ha messo insieme una quantità tale di notizie sulle differenti abitudini prandiali che ha pensato bene di scriverci un libretto. Ne è nata un’operina erudita, densa di citazioni, di aneddoti, di personaggi e di racconti.
Il déjeuner à la fourchette nasce quando il dîner/dinner/pranzo, cioè il pasto principale della giornata (anche se non per tutti) si comincia a prendere sempre più tardi. La conseguenza è la comparsa della colazione alla forchetta, il cui orario si situa a metà mattinata e non più al risveglio.
Poi succede che scompare la cena (souper, supper), però questo è un altro discorso.
Io, che pure sono un’abitudinaria, quest’anno le abitudini le ho un po’ cambiate e mi capita sempre più spesso di limitare a due i pasti della giornata, il primo dei quali è un vero déjeuner à la fourchette, anche con uova, prosciutto e formaggio.
Per esso entra in campo la posata che vi ho detto.
Anche queste forchette sono lavate a mano. Hanno la loro storia e non intendo accelerarne la conclusione.

Nella foto non c’è il forchettone d’acciaio che utilizzo per girare gli spaghetti durante la cottura. Non che non sia degno di comparire, anzi, è un elemento indispensabile della mia cucina, però ve lo potete immaginare tutti facilmente e casomai ne avete anche voi uno identico.

E per finire, un paio di locuzioni che, di nuovo, riguardano gli uomini.
Diffido potentemente di quelli che non sono una buona forchetta, insomma, un sano appetito a tavola mi sembra il giusto preludio per tutto il resto, fosse pure una vivace conversazione.
E non mi piacciono quelli che parlano in punta di forchetta. Così come non mi piacciono quelli che usano un linguaggio povero e sciatto.
Ancora una volta la strada giusta sta nel mezzo, nell’interstizio che bisogna andare a cercarsi. E, guarda un po’, oggi lo troviamo grazie a questo nostro ragionare sulla forchetta. Che, come detto, è femmina e che quindi serve anche a questo: cercare strade non scontate, risolvere le forze contrarie, tenere fermo quello che è sfuggente.
E se lo fa infilzando, non prendetevela con me.
Le donne certe volte ti trafiggono, il cuore e pure la mente.

E proprio non mi sembra che in proposito ci sia da lamentarsi.