Produzione My Dear Vagina, 2020

Le giunture delle tue cosce / Una mano d’artista le torniva / La tua vulva è un curvo alambicco / Di odoroso liquore non è mai secca / Nelle tue inguini una manata di grano / Ha un contorno di rose

(Il Cantico dei Cantici, traduzione di Guido Ceronetti)

Questa vicenda ha almeno due momenti di stupore, entrambi aventi a che fare con la consultazione di un dizionario.
Il primo è legato a quando sono andata a vedere che cosa significava galore.
Galore  come la Bond Girl di Goldfinger, che di nome fa Pussy.
Ovvero, da anni questa signora si presentava al mondo con un nome degno di una ballerina del Crazy Horse, anzi, diciamo pure che fra Rita Renoir, Bertha von Paraboumm e Rosa Fumetto, lei era capace di distinguersi.
Essendo pussy il sesso femminile, la chatte, la gattina e potendosi tradurre galore con a iosa, a bizzeffe, in abbondanza, a tutta birra.
I miei complimenti.

007 & Pussy Galore, Goldfinger, 1964

L’altro momento di stupore è stato quando mi sono resa conto che in francese vagin, ovvero, vagina, è di genere maschile.
Come sia possibile che il termine più femminile del vocabolario sia di genere maschile, mi sfugge.
Ma in tedesco il sole è die Sonne, femminile; e la luna der Mond, maschile.
Quindi, allo stupore non c’è mai fine.
Con la luna, poi, lunatica come pochi altri corpi celesti e con un ciclo di ventotto giorni.

Ma procediamo con ordine.

Da un pezzo volevo occuparmi della rappresentazione del sesso femminile.
Mettevo insieme idee e materiali.
Poi, è arrivato il momento e ho confezionato un Sorbetto dal gusto tutto speciale.
Avendo impiegato per confezionarlo quattro giorni (e parecchi anni di studio che ho alle spalle), mi fa piacere tornare sull’argomento e pubblicare sul mio blog il risultato delle mie riflessioni.

Allora, il linguaggio.
O è infantile, intollerabile superati i dieci anni e mezzo (ogni volta che una farfallina vola nell’aria della conversazione, comincio a guardarmi intorno per vedere se trovo un estintore per neutralizzare la persona con la quale sto parlando), oppure va bene per una caserma.
Altre vie di mezzo non ne conosco, a parte, naturalmente, il medico, il cui ruolo è preciso e circoscritto.
E lui sa esprimersi (o, almeno, dovrebbe saperlo fare).
Inoltre. Un gomito è un gomito, una caviglia è una caviglia, non ci sono termini alternativi per designare queste parti del corpo.
Laddove invece fioriscono esuberanti definizioni colloquiali o dialettali che riguardano i sessi, entrambi.
A proposito di quello che abbiamo detto parlando del genere, è interessante che in Sicilia tutto sia scambiato, dunque abbiamo la minchia e lo sticchio, rispettivamente l’organo sessuale maschile e quello femminile.
Medesima cosa accade a Bari, con la ciola e il piccione.
E qui taglio corto, visto che Giuseppe Gioachino Belli ha già detto tutto lui, rispettivamente nel sonetto 130,  Er Padre de li Santi, e nel 131, La Madre de le Sante.
Trovate tutto facilmente, quindi non mi dilungo.

Mi piace invece ripassare dalla bellissima sequenza delle donne nude che la storia dell’arte ci offre a piene mani, essendo il nudo uno dei temi più ricorrenti in ogni epoca.
Ed è evidente che c’è un legame e un progetto.

Sto dicendo che si tratta sempre di immagini idealizzate, mai realistiche, tutte protette dal pudore.
Pudica è la Venere Capitolina, una delle tante copie esistenti che denotano il successo del modello. Lei, dunque, si copre.
Schermata è la Venere, peraltro carnalissima, di Tiziano.
Addirittura ritratta in un gesto di riparo, la Olympia di Manet che, lo ricordo, è comunque un’immagine che è stata considerata offensiva, vuoi per il realismo, vuoi per il nome (le prostitute si chiamavano frequentemente Olympia), vuoi per la gattina, appunta, la chatte, che le fa compagnia.
Da tutto questo e visto che ci siamo mossi attraverso i secoli, si capisce che ci sono campi delimitati e che la rappresentazione del sesso, di entrambi i sessi, sto dicendo, nell’arte ufficiale attiene al simbolico e all’astratto.

E in contemporanea c’era l’erotico e, andando oltre, il pornografico, che sono diversi campi di azione.
E qui dipende dall’artista, per cui, per esempio, Giulio Romano, assistente capo di Raffaello, realizza disegni espliciti, che sono incisi da Marcantonio Raimondi. Quest’ultimo finisce in galera, lui si salva solo perché scappa a Mantova, dove avrà una seconda carriera di grande successo presso i Gonzaga.

Giulio Romano e Marcantonio Raimondi, sec. XVI

Ma stiamo in una situazione circoscritta, un po’ come quando c’erano i cinema a luci rossi e al noleggio le cassette malandrine stavano oltre una tenda.
Adesso il porno è apparentemente scomparso, apparentemente perché domina dappertutto con intenti surrettizi, uno va in internet, sul sito dedicato e ha a disposizione tutto quello che cerca, anche di più, qualche volta.
La facilità di accesso e la modalità privata hanno dato al porno la possibilità di infiltrarsi in ogni aspetto della nostra esistenza, dalla depilazione alle abitudini relazionali. Sarebbe interessante ricostruire tale contaminazione, però non stiamo parlando di questo e comunque è un tema che mi interessa meno.

Dunque, vado avanti.

Francesco Hayez, Scena di atelier, 1825

Amo molto Hayez, mi piace tutto e in ogni suo risvolto.
E quando fu, mi affrettai a comprare la sua raccolta erotica, disponibile in un’edizione bianca ed essenziale, completa di cofanetto.
Non mi interessa tutto quello che è stato imbastito intorno ai diciannove disegni, «eseguiti con un tratto continuo su carta velina» e mai avrei usato il termine di audacia, né la definizione senza pudori.
Mi viene in mente che la produzione erotica non andrebbe commentata e che ogni parola sembra superflua (forse è per questo che l’Histoire d’O e Il delta di Venere sono così noiosi).
Nella raccolta, bellissima,  colpisce la complicità fra i due, ma colpiscono anche alcuni dettagli. Il tratto è scarno, l’ambiente definito rapidamente, eppure si notano le pantofole indossate da lui e da lei, le calze di lei, la camicia da pittore di lui.
Hayez, artista sommo, deve essere stato anche un amante generoso, dedicato, attento.
Lei è Carolina Zucchi, sua modella e i disegni erano di sua proprietà.
Ancora una volta, una produzione privata, giunta a noi attraverso eredità e dispersioni diverse.

E arriva, tanto atteso, Gustave Courbet, il realista.

Gustave Courbet, L’origine du monde, 1866

Infatti lui dipinge un sesso di donna in primo piano, mostrato senza alcun tipo di censura.
Ma pure qui ci sono delle cose da dire.
La prima delle quali riguarda le immagini disponibili del dipinto.
Inguardabili. Quella che utilizzo viene dal Musée d’Orsay, dove l’opera è esposta dal 1995, ed è talmente lontana dall’originale per piattezza e scarsa definizione, che mi veniva in mente che l’avessero fatto apposta.
Il dipinto, davanti al quale io non ho mai visto la folla che c’è sempre davanti a van Gogh e a Gauguin, tutti a scattare con i loro telefoni, è bellissimo.
È realizzato con una tecnica raffinata e si ha la precisa impressione che l’artista abbia letto quel corpo di donna, meglio, quella parte di esso, come un paesaggio. Dal monte di Venere lo sguardo si sposta alla fenditura vaginale e lì il parallelo con la terra di origine di Courbet, la Franche-Comté, si fa evidente.
Grotte, anfratti e sorgenti, da quelle parti scorre la Loue, si aprono davanti ai nostri occhi. Conservando peraltro il loro mistero.
Arriva la distesa innevata del lenzuolo bianco, la tenerezza di un capezzolo.
Courbet è uno immenso.
«Ce fut comme le bruit d’une trombe qui aurait passé sur la salle d’exposition en secouant et en fracassant les vitres».
Traduco il commento, perfetto, di un critico di poco posteriore, che aveva visto giusto e che aveva il senso dello spettacolo: «Fu come il rumore di una tromba che fosse passato sulla sala della mostra scuotendo e fracassando i vetri».
E anche questo dipinto è spettacolare, la carne palpita, i peli fremono, si sente l’abbandono e si sente il desiderio.
Ma, e questa è la seconda cosa da dire, dopo la difficoltà di trovare una riproduzione decente, quest’opera non era stata realizzata per essere vista. Meglio, era stata fatta per la visione privata del committente, un diplomatico e amatore turco, che la teneva sotto un velo protettore.
La sua eco era arrivata solo attraverso qualche indiscrezione di chi era stato ammesso al suo cospetto.
E nella magnifica mostra di Courbet organizzata nel 2007 al Grand Palais a Parigi, L’origine du monde stava all’interno di un invaso protetto, anticipato dall’esposizione di cartoline erotiche.
Si entrava dentro ed era come entrare in un tempio.
Come era giusto che fosse.
Il dipinto è stato proprietà dello psicoanalista Jacques Lacan, che evidentemente apprezzava l’emozione complessa eppure così semplice che si prova davanti a un ritratto fatto per sottrazione: mancano quasi tutte le altre parti del corpo.
Come se là, e solo là, si rintanasse l’essenza di una donna.

Affiorano, in questa sequenza di corpi, anzi di una parte di un corpo, alcune relazioni leggendarie, per esempio quella di Picasso e di Dora Maar.
Lei, fotografa di indiscusso talento, lo incontra verso la fine del 1935.
Rimarranno insieme una decina di anni, dopo i quali lei si ritirerà in una sorta di luogo protetto dal mondo, lasciandolo, il mondo, a novant’anni.
«Dopo Picasso, solo Dio».
Un bel guaio.
Ogni volta che ci penso, mi ricordo quanto la frase «rifarsi una vita» susciti in me un sentimento di ilarità.
Infatti, certe volte non solo non è possibile, ma si ride al solo pensiero. Pure se si ride verde.

Picasso non è un colorista e non è un artista lirico.
Eppure accanto a Dora Maar ci accorgiamo di una sua predisposizione nuova, una relazione amorosa non dovrebbe forse aprirti sempre e comunque nuovi orizzonti?
Lascio stare la produzione erotica di lui, fitta, densa, esuberante.
In certi casi, se vista in pubblico, imbarazzante.
E arrivo a quello che secondo me è un nudo di altezza espressiva vertiginosa, di fronte al quale, se riusciamo a sganciarci dalle nostre categorie mentali di bellezza e di armonia che appannano vista e visuale, saliamo anche noi a vertici di contemplazione del corpo non frequenti.

Picasso, Nu couché étoilé, 1936

Ce lo dice la scheda del catalogo del Pompidou, che abbiamo di fronte un grande nudo sdraiato sormontato da un cielo stellato.
Lo capiamo da soli, che siamo davanti al racconto di un’epifania amorosa.
Stupisce l’elenco dei colori, precisamente elaborato: sono un po’ stridenti, un verde vivo, dei gialli limone e tiglio, il viola del tappeto ad arabeschi, la massa bianca del letto, il cielo nero sopra, il corpo reso con una gamma di grigi che lasciano trasparire tracce e posizioni precedenti.

(Giallo tiglio, il giallo delle foglie dell’albero di questo nome. Quanto sono ben fatti i siti dei musei francesi).

Il disordine anatomico di Picasso ha una sua logica: qui gli occhi vi dicono dove sta il volto; i peli sotto l’ascella sinistra vi guidano al braccio e ai seni; il ventre si riconosce dalle pieghe e dall’ombelico; le ginocchia, dalla loro sporgenza; i piedi, dal numero, corretto, delle dita.

La vagina è una fenditura, turgida, aperta, centrale e presente.

Il corpo è disteso attraverso lo spazio, le braccia sono aperte, la testa,  riversa. Esso galleggia «come su una nuvola», ed è notte, ce lo dice il cielo stellato sopra la stanza che non ha più il soffitto.
Il dipinto dice l’estasi e l’abbandono.
Esso dice la celebrazione di un incontro amoroso.

Diversamente da noi, i giapponesi onorano il sesso, e tutto quello che ci sta dentro, quasi con sfrontatezza.
I dipinti e le stampe erotiche giapponesi si chiamano shunga  = immagini della primavera.

Katsushika Hokusai, Il sogno della moglie del pescatore, 1814

Nella stampa che vi propongo, Hokusai raggiunge i vertici dell’immaginazione e del sogno.
Lei è come affogata in un mare nel quale incontra due polpi, uno grande, dall’espressione solerte.
L’altro, più piccolo, sembra un valletto, che si occupa, nel corpo di lei, di un altro intrattenimento.
Dopo il mito della geisha, una sorprendente compensazione al femminile.
Incredibile, anzi, credibilissimo, come un artista sia capace a infilarsi nella testa, nel corpo e nei sogni di una donna.
Altrimenti che artista sarebbe.

Come ogni tanto titolano le riviste francesi che compro: Où sont les femmes?
Una loro canzone del 1977.
Ma, insomma, dove sono le donne?
Eccole.
Sto dicendo, ecco le donne che parlano di sé e che festeggiano se stesse, in un’ode all’amore del corpo, accettato ed esaltato attraverso delle «mises en scènes créatives», ovvero, delle messe in scena creative.
Ieri ho detto che My Dear Vagina è un collettivo femminile.
Intuisco però che forse dietro il collettivo c’è una persona sola.
E trovo questa cosa bellissima.
Come diceva Jeanne Moreau in un film: «Sono troppo numerosa per un uomo solo».
E poi anch’io faccio tutto da sola.
Certo, con un sostegno molto ben organizzato e presente del tecnico, del grafico, di chi mi cava dagli impicci di internet quando mi ci ficco dentro.
Ma dov’è l’intelligenza collettiva?
E io che ne so.
A me questa sembra un’epoca di autonomia e di individualismo.
Lo pensavo pure prima, poi la contingenza epidemiologica ha fatto il resto.

Dunque, un collettivo, o una persona sola, che celebra il sesso femminile, e sto parlando della vagina, non del genere, in un florilegio di immagini, monotematiche, d’accordo, ma qui sta il bello.
Che spesso, e lo dico da donna, raggiungono vertici poetici sorprendenti, vanno a scovare fessure e ingressi là dove mica avevamo capito che stavano, vedono nella crosta del pane e in quella della strada, in una lettura vertiginosa di una scala, in un frutto, in un tatuaggio, in un fiore, in un segno grafico e in una montagna, vedono, dicevo, in tutto questo,  un encomio, un panegirico, un salmo a una parte segreta e privata del corpo di una donna.
Insomma, un cantico.

Proprio come quello della citazione che vi ho messo in apertura.
Che, e non mi sembra un caso, è un cantico dei cantici, cioè il canto che riassume tutti gli altri, che tutti li risolve, li sintetizza e li divora, ovvero: che tutti quanti li fa suoi.