Atena malinconica, 470 a. C.

Incubo Numero Zero. Sono di quelli che dormono in (quasi) totale isolamento sensoriale.
Persiane e tende oscurantine chiuse; soffitto della camera da letto insonorizzato; tappi di cera nelle orecchie, qualche volta.
E telefono acceso. Come quasi tutti.
Perché altrimenti non suona la sveglia, contrariamente ai cellulari precedenti, che si svegliavano pure loro così come svegliavano gli altri e che evidentemente erano smart in qualche modo anch’essi.
Tanto lo smartphone, almeno il mio, è un po’ come un animale, anche se non saprei dire quale, che si rimette in vita solo quando lo tocchi, nel senso che è come se a notte fonda riposasse e poi, appena sfiorato, scatenasse il finimondo: il paese dei campanelli.
Stamattina mi sono svegliata e ho visto sul display che erano le cinque e tre minuti. E mi sono detta speriamo di riaddormentarci.
E sono andata a fare una lezione e per arrivare c’era un viale e in Saletta c’era già gente, ma nessuno aveva preparato.
Allora ho aperto io stessa lo schermo per la proiezione e ho anche infilato il tubo di sostegno nel treppiedi e ho visto che aveva perso una vite.
L’ho aperto comunque.
Poi però mi sono accorta con orrore che avevo dimenticato di portare il computer.

Ma quale computer, io non ho il portatile, come facevo a portare il computer grande.
E allora ho dimenticato il proiettore. Ecco, sì, ho dimenticato il proiettore.
E ho detto e adesso come faccio e tutti stavano lì e aspettavano che io iniziassi e io ho cominciato a frugare nella mia borsa, che era stranamente disordinata, io la vuoto, la spazzolo e la risistemo spesso e ho trovato nella tasca interna una pennetta e l’ho aperta.

La mia pennetta

Vedi, ho la pennetta con su le immagini.
Sì, ma senza proiettore, che ci faccio.
Allora ho detto si fa così, prendo la macchina, vado e torno con il proiettore, se avete la pazienza di aspettarmi.
E in tanti mi hanno detto d’accordo, ma qualcuno si è irritato e io ho guardato l’orologio e si faceva tardi e un signore orrendo e grasso ha cominciato a dirmi che quello che era successo non andava bene e io gli ho risposto, ma insomma, può succedere.

No, non deve succedere.

Mi sono svegliata in uno stato di angoscia alle sette e venti, ho capito che avevo sognato e che non mettevo piede in un’aula da due mesi e mezzo e che però anni e anni di aule di infiniti tipi, generi, ubicazioni e presenze non te li togli di dosso in un attimo.
O meglio, pensi di esserteli tolti di dosso ma loro, come fanno pure i morti, casomai in sogno, meglio, in incubo: ritornano.

Ditelo con i fiori. La sveglia suona fra le 2:45 e le 3:30. Bisogna essere fra i primi compratori a Rungis, dove ha sede il più grande mercato del mondo di prodotti freschi: compresi i fiori.

Pierre, foto Géraldine Dormoy

L’uomo arriva sul posto alle 4:15. Il ritorno comporta fra i 45 minuti e l’ora e mezza di viaggio. Giusto in tempo per aprire puntualmente il negozio a Parigi alle 10:30.
Lui lavora fra le 18 e le 20 ore al giorno, dal lunedì alla domenica.
Ed è contento perché lavora per sé.
Dopo non poco tempo passato nelle risorse  umane, a trentadue anni, Pierre Banchereau ha l’impressione di «aver fatto il giro del suo impiego».
Insomma, si è stancato.
È attratto da diversi mestieri, poi sono i fiori a prendere il sopravvento. Si presenta dal suo fioraio, ancora lavora tutta la settimana con addosso l’abito e in un’atmosfera di rappresentazione, che non gli piace più, dunque ha tempo solo il sabato e la domenica di vedere se ci sono altre strade da percorrere.
Pulisce, vuota i bidoni della spazzatura, fa le cose più semplici e umili.
Osserva.
Il fioraio lo incoraggia, ha gusto nel mettere insieme i fiori.
Comincia una formazione in una scuola pubblica, poi attacca con gli stage, poi si presenta come apprendista da altri fiorai.
È aiutato da una struttura che segue i giovani imprenditori organizzando corsi di gestione, contabilità, management.
Si mette a cercare un posto.
Ha già delle idee e delle simpatie.
Posa i suoi bagagli in una via che sta a metà fra la Pigalle festaiola e il quartiere degli intellettuali.

Il negozio di fiori di Pierre

Sono andata a vedere il suo negozio, ma era agosto e lui stava in vacanza, la strada era charmante, tutta in salita, si capiva che in tempi normali in essa scorreva una vita attiva e piena di promesse.
La carriera va a rotta di collo, da cosa nasce cosa, da commissione nasce commissione, dice che dal suo negozio non si esce mai due volte con il medesimo bouquet.
Parla di arte, gli piace la pittura fiamminga del XVII secolo, il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa lo ispira con tutte le descrizioni vegetali che contiene (per non parlare di quanto il romanzo sia ispirante per i colori, per gli odori, per l’evocazione continua di luoghi e di sensazioni).
Si occupa di arredamento d’interni, da lui è possibile trovare vasi antichi e contemporanei.

Pranzo per la stampa, Palais de Tokyo, Paris

Vi faccio vedere una tavola con i fiocchi, stavolta è proprio il caso di dirlo, da lui allestita.
Ricordavo un’intervista di alcuni anni fa di una blogger che seguo. Mi sono messa a cercarla mentre preparavo una lezione perché mi serviva una bella immagine di un bouquet e niente di quello che trovavo mi soddisfaceva.
Ho stampato tutto e ho messo i fogli nella mia cartella rossa con i progetti usciti dal confinamento.
E sui fogli ho preso un appunto. Esso riguardava i miei studenti, in particolare quelli che avevo incontrato via Skype mentre si cercava una soluzione per le lezioni on line.
Più che un appunto, uno sfogo.
Quello che avrebbe dovuto lanciare la riunione e si è scordato, dalla mattina al pomeriggio si era scordato e gli ho dovuto fare due telefonate.
Quella che stava seduta tutta accartocciata davanti al computer.
Quello che si rollava una canna.
Non so che cosa faranno nella vita.
Fatti loro.
Però la mia impressione è che molto difficilmente quello che vorranno dire lo diranno con i fiori.

Goccia a goccia. Il tecnico era stato chiaro.
È l’ultima volta.
Poi bisogna cambiare tutto.
D’accordo, vediamo se riesco a tirare avanti un altro po’.
Forse era il mese di novembre dello scorso anno.
Il rubinetto della cucina ha ricominciato a perdere durante il confinamento.
Perdeva sempre più acqua.
Perdeva acqua e cercavo di convincermi che era come avere una graziosa fontanella chiocchiolante in casa.
Avevo il numero del tecnico.
Come sarebbe il tecnico.
Perché voi non avete il tecnico dei rubinetti? Io ce l’ho.
È qualcosa di più e di diverso da un idraulico, è proprio l’esperto dei rubinetti di quell’azienda.
Il tecnico aveva il telefono sempre staccato.
Ho scritto all’azienda, che sta in Piemonte.
Mi hanno risposto gentilmente dicendomi che era tutto chiuso.
Ma dai.
Ho chiesto se potevo intanto acquistare il gruppo, mi sarei anticipata di una settimana sulla riapertura.
Mi hanno risposto con un elenco di rivenditori romani.
Ma dai.
Sai che ci faccio con il rivenditore, a me serve il tecnico.
Quando c’è stata la riapertura, ho chiamato subito.
Il tecnico ha la strana caratteristica che hanno alcune persone: al telefono è freddo e scostante; di persona è caldo e allettevole.

Annibale Carracci, Pan e Diana, 1607

Di cognome fa Biancalana, mi sembra bellissimo, mi ricorda l’affresco di Annibale a Palazzo Farnese in cui Pan offre a Diana un panno degno del suo candore.
Per un attimo ho pensato di dirglielo, poi ho cambiato idea.
Buon per me, sai in che tunnel mi sarei infilata.
E Irina continuava a ripetermi guarda come perde il rubinetto, quanto paghi di acqua.
E che ne so.
Ci penserò quando dovrò pagarla.
Il tecnico, che al telefono è pure pessimista, mi ha detto chiamo in azienda e vedo se ce l’hanno.
Ma come non ce l’hanno, è una loro serie storica, superclassica, in produzione dal 1926.
Ogni volta che parlo di rubinetti, io incrocio gli indici uno sopra l’altro, quello è il tipo di rubinetto che prediligo, non venitemi a parlare di monocomando o di miscelatore, io mica abito a Cape Canaveral, a casa mia i rubinetti sembrano tali, con i comandi a croce, come faccio vedere con gli indici incrociati quando ne parlo.

La scatola del mio rubinetto

In azienda avevano il rubinetto.
Come era ovvio.
Solo che lo abbiamo aspettato esattamente i sette giorni di cui io avrei voluto anticiparmi.
Niente da fare.
Dunque, venerdì scorso, e c’era pure Irina, arriva il tecnico e arriva pure con lui l’idraulico.
Praticamente: un assembramento.
Si mettono a lavorare, io ogni tanto mi affaccio in cucina, abbiamo vuotato tutto il sottolavello, nel giro di un’ora e trenta, il tempo che impiega il fioraio per tornare da Rungis a Parigi, la sostituzione è fatta.
Chiedo dove sta il rubinetto vecchio.
Nella scatola.
Vuole tenerlo?
Ma figuriamoci, volevo solo ringraziarlo.
Faccio una fotografia alla scatola, gradisco la metafora che il contenitore del nuovo si porti via il vecchio.
Stacco un assegno, consegno del contante.
Irina mi dice adesso stai fuori di tanti euro.
Sì, però ho il rubinetto nuovo e non ho più la fontana chiocchiolante che mi ha ossessionata durante il confinamento.
Vuoi mettere.

Liscio come seta (ma pure come olio va bene). Non ho alcuna ossessione sul corpo.
Almeno mi sembra.

J.-A.-D. Ingres, La sorgente, 1820-56

Per esempio, non ho alcuna fissazione sui peli.
Sono una scura, mediterranea, quindi non posso assomigliare a una statuina di porcellana.
Ma non sono nemmeno una scimmia.
Se fossi una scimmia, farei qualcosa per trasformarmi in donna.
Non permetto a nessuno di avvicinarsi alle mie sopracciglia con una pinzetta in mano. Sono fra quelli convinti che ognuno nasca con le sopracciglia e con il naso che più si adattano al suo volto.
Anche se sono del tutto favorevole a qualunque intervento di medicina estetica, ma questo è un discorso lungo e complesso, che qui e là ho già accennato e che richiede, e giustamente, un suo spazio di elezione.
Lo stesso per gli uomini. Non mi piacciono i lupi, che tanto si riconoscono bene, hanno il dorso delle mani villoso e i riccioli che escono dalla camicia aperta.
Comunque gli uomini-lupo sono visibili e vistosi e io mi limito a tenermi lontana da loro.
Ma non mi piacciono nemmeno gli uomini glabri, spennati come i polli in vaschetta al supermercato, se uno è maschio, mica mi dispiace se me ne accorgo, fosse pure dai peli.
Tanto per cominciare.
Ma non sto nemmeno a raccontare la gioia fisica, il senso di pienezza e di realizzazione, l’impressione che il corpo risorgesse e uscisse fuori dalla corazza nella quale era stato costretto durante il confinamento, proprio come un pulcino nel guscio, quando due giorni fa ho ritrovato la mia estetista, che aveva avuto la gentilezza di tenermi subito uno spazio e l’ho ritrovata sul serio, in guanti, visiera e mascherina e lei mi ha depilato le ascelle con la cera.
E sono uscita dalla beauty room liscia come olio e come seta, rifinita e a posto.
Praticamente, una statuina di porcellana.