Il fondotinta. Mi trucco da quando avevo dodici anni.
Ero fisicamente arrivata alla forma adulta che ho adesso, quindi, ci stava.
Correttore e fondotinta.
E ciò nonostante tutti gli sforzi, spesso poco gentili, fatti da mio padre per dissuadermi.
Ora, non è che mio padre pensasse che ero troppo giovane.
Mio padre non pensava.
Semplicemente, si capiva che lui riteneva che le donne dovessero essere modeste.
Anche intellettualmente.
(Stai fresco).
Superata la fase adolescenziale del fondotinta Gemey della Standa, reparto profumeria, approdai a cose più personalizzate, fino ad arrivare a quello che sarebbe stato per anni il mio prodotto.
Il solo fatto di essere giunta all’agognata marca giapponese, mi dava il senso di un traguardo.
Quando i giapponesi ebbero l’idea geniale di cambiare linea, iniziò una delle fasi più oscure della mia esistenza.
All’epoca facevo lezioni di English conversation con un tipetto americano, dal quale mi feci aiutare a scrivere una lettera di fuoco all’azienda.
Che stava a Tokyo e che non mi ricordo come raggiunsi, forse erano i primi anni di internet.
Il contenuto della mia rimostranza si basava sul fatto che la new formula del loro prodotto era una schifezza (Treccani = cosa brutta e mal riuscita), il fondotinta era trasparente, era come se non ci fosse, inoltre avevano cambiato il magnifico tubo rigorosissimo (era in stick) facendolo diventare un coso nacré con una forma svasata che appena vista già mi stava antipatica.
La lettera sortì il suo effetto e, mentre io già ero arrivata al terzo fondotinta di prova di altra marca, mi chiamò una milanese da Milano per capire che cosa mi avevano fatto di tanto cattivo.

Lei provò a dirmi che il fondotinta nella sua new formula era «così versatile».
Le chiesi se diceva sul serio.
Tentò di convincermi in tutti i modi che avevano apportato dei miglioramenti.
Le feci notare che, così com’era, quel fondotinta andava benissimo e che non c’era niente da migliorare.
Lei avanzò l’ipotesi che non sapessi usarlo.
Ma se uso il fondotinta da quando avevo dodici anni.
Risolvemmo con un atto dinamico da parte sua: mi fissò un appuntamento alla Rinascente di piazza Fiume con il loro make up artist più bravo, inviato a Roma per presentare la new formula.

Si chiamava Salvatore e aveva una valigetta di dimensioni spettacolari.
Ci salutammo e lui mi chiese la gentilezza di attendere che avesse sistemato tutta la sua attrezzatura.
Nessun problema, vado a farmi un giro, fra quanto ritorno?
«Quarantacinque minuti».
Quando si dice, una persona seria.
Parlammo, molto. La new formula non piaceva nemmeno a lui, era trasparente e pure il tubo era brutto.
Mi propose una versione compatta da dosare con la spugnetta, mi spiegò trucchi e trucchetti per filo e per segno, mi chiese se poteva farmi gli occhi di un colore che non era il mio, gli risposi faccia pure, tanto stasera mi strucco, sono venuta per il fondotinta, possiamo ben divertirci con gli ombretti.
Sopravvissi tre mesi con il fondotinta proposto, una volta mi ricordo che mi specchiai con una luce radente e vidi che la tenuta era pessima, arrivai a uno scatolone in guardaroba con dentro una ventina di confezioni di fondotinta, nessuna delle quali mi piaceva.
Risolsi a Parigi, in un salon della marca, con un make up artist di livello stratosferico, capì tutto, mi propose una versione fluida ma cremosa e mi spiegò come usarla.
Scelse il colore utilizzando una serie di controlli.
Avete presente quando ti fanno vedere com’è un fondotinta tirandolo col dito sul dorso della mano?
Ecco a voi un dilettante.

Il mio fondotinta è rimasto quello.
Sono (diventata) una no tanning, quindi non cambio il colore nemmeno in estate.

Se la Shiseido mi fa un altro scherzo come quello che mi ha fatto, mi compro la fabbrica e li licenzio tutti.

Il detersivo. Fra me e il Cif è una storia lunga. Lo incontrai andando a fare la jeune fille au pair in Francia e fu la cosa più eccitante di quel soggiorno noiosissimo.
Chiarisco che stavo in Savoia, non a Parigi, altrimenti figuriamoci se non mi eccitavo.
Mi mollarono due bambini, cinque anni e nove mesi, e un flacone di detersivo.
Con il senno di poi, vi dico che quei due bambini sono stati i migliori che abbia avuto fra i piedi in vita mia, non mi piacciono i bambini e detestavo fare la baby sitter, però stavo all’università, non è che potessi aspirare a cose troppo diverse.
Comunque ancora mi chiedo come si possano lasciare due ragazzini così piccoli ai nonni (erano cuginetti) e a una jeune fille che non spiaccicava una sola parola di francese (mi sarei iscritta al mio corso serale, quello sì, eccitante, in autunno) e che in quella grande casa di campagna si sentiva più reclusa della monaca di Monza, senza manco un Egidio a tiro per trastullarsi nelle interminabili serate estive.
Non vi sto a dire le volte che ho pensato di liberarmene.
Sto parlando dei nonni e della Savoia.
E dei bambini, ovvio.
Mi ero portata da leggere e un lavoro all’uncinetto: volevo farmi un costumino da bagno, celeste, per far risaltare l’abbronzatura, e piccolo piccolo, da sfoggiare quando, di ritorno, sarei andata in Sicilia con la mia amica del cuore a vedere i templi.
Al ritorno, io e la mia amica andammo in Sicilia, vedemmo i templi, ci divertimmo ovviando a tutta la noia (pure lei aveva passato mezza estate a guardare bambini), andammo a ballare tutte le sere e ricevemmo almeno un paio di dozzine di proposte di matrimonio.
Noi eravamo allegre e ben assortite e i maschi siciliani, si sa, sono galanti.
Il mio costumino, celeste e piccolo piccolo, si rivelò una trappola perché al primo bagno in mare quasi si sciolse e divenne uno straccio.
Un po’ i lavori femminili non fanno al caso mio, un po’, come si è visto, l’uncinetto non è affidabile.
Ma stavamo parlando del Cif. Che in Italia non sapevano nemmeno che cosa fosse.
Quando arrivò pure da noi, mi sentii finalmente cittadina del mondo.
La relazione fra me e il detersivo continuò per anni, fino a quando quelli dell’Unilever non decisero di mettere sul mercato la new formula.
Apriti cielo.
Reagii come quella che ero: una donna tradita.
Quella volta la lettera, grondante contumelie, la scrissi in italiano e senza bisogno di sostegno.
Che cosa si erano fatti venire in mente.
Era cambiato tutto, la crema si disfaceva come una maionese impazzita, usciva liquida, poi a groppi, il flacone non era ergonomico e cadeva di mano.
Mi avevano infranto un mito.
Almeno, volevo una spiegazione.
Un tipo del marketing (ah, il marketing) mi telefonò e mi disse che la loro intenzione era stata di migliorare (pure loro) la forma del flacone, di renderla più elegante, per farla guardare piacevolmente appoggiata sul bordo della vasca.
Un detersivo.
Ma fatemi il piacere.
Comunque, pure a lui il flacone new formula era caduto di mano, laddove quello originario in mano si teneva benissimo.
Quanto alla consistenza della crema, avrebbero fatto controlli.
Mi mandarono un ometto incaricato di ritirare il mio flacone. Lui suonò alla mia porta, chinò il capo come se si fosse tolto il cappello appoggiandolo sul cuore, mi disse «Signora, sono qui a ritirare il suo flacone di Cif».
Glielo consegnai con l’aria solenne della Madre che nei dipinti consegna il Sacro Bambino al sacerdote del Tempio per la circoncisione, in bilico fra il fiducioso e il perplesso.
Mi ricordo le risate la sera su quella faccenda del Cif.
Con tutto che in cuor mio non ridevo per niente, dato il posto che occupava il mio detersivo nella mia esistenza.
La faccio breve e vi dico che solo grazie al mio intervento il Cif, pur non tornando ai fasti iniziali, è diventato nuovamente cremoso, con una confezione che personalmente trovo un po’ frivola, ma che comunque non cade di mano.
Ogni volta che afferro un flacone di detersivo per dare una passata ai servizi igienici in bagno nell’intervallo fra le passate di Irina/Irene, sarà l’odore, sarà la memoria, sarà la soddisfazione di aver riportato a ragionare una multinazionale, un sorriso affiora alle mie labbra.

Fra me e il Cif, il rapporto ha ripreso a funzionare a meraviglia.
Meglio, però, la confezione da 500 ml di quella da 750.
Che è troppo pesante e cade facilmente di mano.

Lo shampoo. Ho tantissimi capelli. Che sono pure spessi.
Se non fossero tali, il mio parrucchiere non riuscirebbe a farmi i tagli dementi da scolpire con la cera che mi fa sempre.
Ovvio, che li curo.
Altrimenti non li tengo.
Maschera, cheratina ogni tre mesi, impacchi.
E shampoo.
Avevo finalmente trovato quello che faceva per me: uovo e rum.
Supernutriente.
(Non sto a raccontare quello che tentai una volta: mi lavai i capelli direttamente con due rossi d’uovo, lo avevo letto in un libro di ricette naturali.
Probabilmente sbagliai la temperatura dell’acqua e impiegai una settimana buona a togliermi quella frittata dalla testa).
Ho perdonato al mio shampoo il passaggio da un flacone farmaceutico in vetro a un cilindro di metallo.
Anche se mi piaceva di più quando stava in bottiglia.
Ma non gli ho perdonato la new formula.
Semplicemente, non potevo perdonargliela.
Non era più lui.
Da uovo e rum era diventato jojoba.
Ma che diavolo è, questa jojoba e, soprattutto, perché l’hanno messa nel mio shampoo.
I tempi sono cambiati e il marketing (ah, il marketing) non è più quello di un tempo.
Dunque, non ho nemmeno provato a protestare con l’azienda.
E ho intrapreso tutto un percorso (questa frase mi sa tanto di quelle cose spirituali che aborro, sapete, quelle crisi che approdano sempre alla meditazione davanti alla fiamma della candela e al soggiorno yoga, tutte donne, tutte vegetariane, tutte che cercano di dimenticare un uomo ma figurati se lo ammettono, fosse pure solo con se stesse), dicevo che ho intrapreso un percorso alla scoperta di nuovi shampoo.
Prendo molti dei miei cosmetici su un sito francese, gestito benissimo da queste fantastiche ragazze che vado a trovare quando sono a Parigi (ah, Parigi. Non so se mi faccia sospirare più il marketing o la capitale di Francia) perché hanno anche aperto dei bellissimi negozi, minimali, elegantissimi, pieni di consigli e di competenza.
Grazie a loro scopro un altro shampoo che, raccontato, sembra perfetto per i miei capelli.
E lo è.
Ma posso, dico io, infilarmi nel trip dello shampoo preso in internet da loro, nemmeno sto a citare i costi, a me che me ne importa, io sto sempre senza soldi, a vedere queste faccende di cosmetici capisco pure perché, posso io, dicevo, dover fare un ordine che deve ammontare a una certa cifra per poter avere la mia fornitura di shampoo.
E perché, non puoi comprartene dieci flaconi e stare a posto per un po’.
E come no, allora non mi sono spiegata: dieci flaconi di shampoo; e il siero per la pelle; e l’olio da mettere la notte; e lo scrub al cocco; e l’unguento egiziano magico per le labbra; e i tubi e i flaconi di balsamo e di latte detergente perché, una volta che hai provato quelli loro, non torni più indietro manco se rischi la rovina finanziaria; e il rossetto; e il lucido; e il contorno occhi, ottimi i due ultimi che ho provato, uno, una cosa quasi medicale, l’altro una cosa sfiziosissima, un gel con la biglia per il massaggio, tengo tutto in frigo insieme al vino e alla busta dell’insalata.
Ma non eri un’intellettuale, tutta presa dai sentimenti e dall’anima.
Chi, io?
E come no.
Poi, però.
E, comunque, il dentro e il fuori dialogano di continuo.
E a me la buona conversazione piace molto.

Per farla breve, ancora.
Ho provato lo shampoo alla jojoba.
Alla prima passata fa poca schiuma, «ne deve mettere pochissimo!», però, alla seconda, ci si può stare.
Anche se vorrei tanto la schiuma da subito.
E se rimpiango il rum con l’uovo, che ne so, mi sembravano così energizzanti, e di energia abbiamo sempre bisogno.
Comunque, la frittata preferisco averla nel piatto che fra i capelli.
E con lo shampoo riesco ad arrangiarmi.

La lezione. Qui la faccio breve da subito.
Qui è l’unico luogo dove funziona la new formula.
Qui c’era bisogno di innovazione, ma il solo pensarlo faceva paura.
Fare come dicono quelli del marketing?
Che ne so, però, forse bisognerebbe dar loro retta.
(Ah, il marketing).
Ma perché quelli del marketing non si occupano delle lezioni.
Eppure spesso le fanno pure loro.
Secondo me quelli del marketing non si occupano delle lezioni perché le lezioni non sono un territorio economicamente rilevante.
(Anche se c’è chi sostiene che nel marketing ci sia pure poesia, oltre all’economia).
Però, io che sto sempre così in bilico fra e fra, e manco sto a definire che significa, penso di aver trovato (incontrato) la mia new formula.
Lezioni raccorciate: 40 minuti di orologio.
Puntualità: meglio che in Svizzera.
Ritmo: serrato.
Contenuti: pirotecnici (ce la sto mettendo tutta).

Non è radio: ci sono le immagini.
Non è televisione: non c’è volgarità, non ci sono primi piani, io non ho una telecamera, io compaio, casomai, solo in foto, non ci sono lustrini.

È altro.

È la possibilità, il tentativo, l’esperimento, l’esperienza di fare lezioni d’arte on line in modo rigoroso ma non asciutto, è il calore dei saluti iniziali e finali, è il mettere insieme 40 minuti in quattro giorni di lavoro e parecchi anni di applicazione, dedizione e pazienza.
E passione.

È ciò che sto sperimentando e che cerco di perfezionare, è la nuova possibilità offerta, a me e a chi mi segue, è la fantasia, è l’arte alta che si incontra con il quotidiano, è il quotidiano che si illumina attraverso l’arte.

È la prima volta in vita mia che la new formula mi piace e che mi corrisponde in pieno.
Sarà che stavolta, lo so e lo sento, la new formula è quella buona, fresca, svelta, innovativa, funzionante e funzionale, capace di spazzare via tutto quello che c’è stato prima.

Altro che fondotinta.
Altro che detersivo in crema.

Altro che shampoo.