Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622, part.

La sua testa è oro puro
Un mare d’onde come  corvi neri i suoi capelli

Il Cantico dei Cantici

Gli uomini sono proprio bravi.
Infatti da sempre raccontano il mondo attraverso il loro immaginario.
Per esempio, hanno inventato il fascino delle tempie grigie.
E, secondo il medesimo criterio e con abilità analoga, hanno diffuso la diceria secondo la quale la perdita dei capelli è segno di virilità.
Non mi sembra che esistano statistiche al riguardo, e poi come fai, mica puoi provarli tutti per vedere se è vero.

(Però una nuca con qualcosa che la orna è sempre bella da stringere in certe situazioni di vicinanza).

Rosso. L’altro giorno al supermercato ho incontrato una simpatica coppietta: lui, rosso con gli occhi azzurri; lei, rossa con gli occhialetti e i ricci.
Ho chiesto loro se quando si erano conosciuti avevano pensato cin cin, si sono messi a ridere, abbiamo parlato cinque minuti, con lui che era un rosso autentico e lei, invece, una rossa finta, anche se rossa stava benissimo, aveva la pelle chiara e pure le efelidi.
Però mi interessava sapere se lei si era fatta rossa prima o dopo l’incontro, lei mi ha detto prima, quindi, ho detto io, c’era sotto qualcosa di simile a un disegno, in francese il verbo reconnaître  significa, certamente, riconoscere, ma ha in sé anche il naître, ovvero il nascere.
E quando ti incontri, se c’è un disegno, ti riconosci.
E rinasci.
Come dico sempre, le storie d’amore cominciano con un « ma non ci siamo già visti da qualche parte» e finiscono con un «non ti riconosco più».
(Chissà i due rossi del supermercato continueranno a riconoscersi o se riconosceranno qualcun altro da qualche altra parte).

Biondo. Nel primo episodio del nostro viaggio all’interno dell’universo dei capelli ho fatto cenno a una mostra.
Brune Blonde ha analizzato «la capigliatura femminile nell’arte e nel cinema», mettendo insieme in catalogo, per dirla con Mario Cavaradossi, una «Recondita armonia / Di bellezze diverse» e accostando, come dice il titolo e come fa il pittore nella Tosca, la bruna e la bionda.
Mostra leggera come «una deambulazione erotica e urbana», eppure pienamente soddisfacente per ricchezza e apertura di orizzonti.
Orizzonti nostri, di noi che abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni i capelli delle donne ma che abbiamo bisogno di un’occasione per rifletterci sopra.
Marilyn Monroe disse una volta al suo amico Truman Capote: «Non ci sono bionde vere. Io sono una vera bionda perché sono bionda dentro».
Il biondore si era costituito dall’Antichità come ideale o norma estetica: prima l’Afrodite dei Greci, poi la Vergine Maria, simbolo di purezza, che però coesiste con Eva, la peccatrice e con Maria Maddalena, la cui chioma dorata, sempre sontuosa, «è segno di seduzione e lussuria».

Ma il XX secolo porta con sé una rottura: la diffusione industriale del biondore. Nel 1907 Eugène Schueller, futuro fondatore de L’Oréal, mette a punto le prime tinture per capelli, complice l’invenzione dell’acqua ossigenata del 1818.
Assistiamo praticamente al medesimo procedimento individuato da Walter Benjamin nella riproducibilità dell’opera d’arte, la bionda non emana più l’aura divina che le avevano conferito Petrarca e Tiziano, ma diventa un clone infinito di se stessa.
E l’origine di tutte le bionde moderne si situa a Hollywood, con Jean Harlow, Lana Turner e Veronika Lake.

La decoloratrice di Jean Harlow ricompare dopo trent’anni per intervento di Marilyn Monroe.
Lo racconta Simone Signoret nella sua bella autobiografia La nostalgia non è più quella di un tempo.
Si gira Let’s Make Love, è il 1960, lei è sposata con Yves Montand, Marilyn con Arthur Miller. Ci sarà un breve flirt fra i due attori del film e i coniugi resteranno a guardare.
Ma trascorreranno quattro mesi di buon vicinato, durante i quali le due coppie si frequenteranno.
«Tornava con una vestaglietta di raion blu pervinca con pois bianchi. Struccata, priva delle ciglia finte, scalza, il che la rendeva un pochino tracagnotta, aveva la faccia e l’aspetto della più bella tra le contadine dell’Ile-de-France, come sono state cantate da secoli».
Per venire da una moglie tradita e per essere indirizzate alla rivale, trovo queste parole di grande stile e tenerezza.
Marilyn aveva una punta di capelli sulla fronte che odiava.
Essa era restia alla decolorazione e spesso nelle riprese era nascosta da una ciocca che ricadeva come casualmente sull’occhio.
Ma, dicevamo, la decoloratrice.
La «vecchissima signora» veniva da San Diego, prendeva un aereo pagato da Marilyn, all’aeroporto di Los Angeles saliva sulla macchina offerta da Marilyn e raggiungeva Marilyn nella cucinotta del bungalow numero 21.
Questo avveniva tutte le settimane, di sabato.
E cominciava il rituale della decolorazione, sulla testa di Marilyn e su quella di Simone, che si faceva decolorare pure lei.
La vecchia signora tirava fuori dalla sua sporta le sue vecchie bottiglie di acqua ossigenata, «da tempo superate dalla tecnica moderna» e, con un «bastoncino che aveva in punta un batuffolo di cotone ritorto impregnato del prezioso liquido», imbiondiva le due donne.

Marilyn

Imbiondiva e raccontava «di vestiti di mussola, di volpi bianche, di scarpette di lamé, di feste».
Marilyn, superato lo scoglio della punta, si faceva cullare da quelle storie, nelle quali la mitica attrice, morta a ventisei anni in circostanze misteriose (un raffreddore? Le conseguenze di una discutibile vita sessuale?), riviveva.
E ciò perché Marilyn, in quel mito, ci credeva.
Si era infatti procurata l’indirizzo della pensionata, «l’amava e la rispettava», le preparava tramezzini con il caviale, le tendeva una mano, come fanno le persone generose con quelle che sono state dimenticate.
Riportava in vita lei e il mito che lei sosteneva di avere creato.
Dopo il trattamento, Marilyn era biondo platino.
Simone, biondo cenere.
La decoloratrice ripartiva in aereo per San Diego.

Intanto, aveva creato due bionde.

Bruno. Quando, quando ho letto quel pezzo?
Quanti anni avevo? Quattordici, quindici? O ero più grande e mi confondo?
Non mi ricordo, però mi ricordo perfettamente quello che nel pezzo c’era scritto.
Miracoli di internet.
Infatti, stamattina, ho provato a digitare sulla barra di Google le parole che mi si erano rimaste scolpite in mente.
Che cosa avevo pensato, da ragazzina o da ragazza, di quelle parole?
Non è che le avessi capite fino in fondo, di questo sono certa, però il senso lo avevo colto, eccome.
Infatti mi ero ripromessa di farmi una storia di passione analoga, appena possibile.
Anche se le casse di whisky consumate per colmare una sete incolmabile mi impensierivano.
Non sono poi così cambiata: le casse di whisky continuano a impensierirmi.
Quanto alla sete, poi.
Sai quanta ne ho sperimentata io stessa. In tutti i sensi.

Elizabeth Taylor e Richard Burton hanno avuto in due undici coniugi.
Sono stati sposati per dieci anni, dal 1964 al 1976, con però in mezzo un breve divorzio nel 1974.
Un breve divorzio, fa quasi ridere.
Non sapevo che lui avesse tenuto un diario.
E, soprattutto, che lui scrivesse così bene.
Si tratta di settecento pagine, alle quali aveva attinto, l’ho capito solo oggi, l’articolo che mi era rimasto scolpito in mente.

Liz e Richard

Lui definisce lei timida e spiritosa, un’attrice brillante, bella al di là dei sogni della pornografia, arrogante e capricciosa, clemente e amabile, la chiama Dulcis Imperatrix, dice che lei tollera le sue ubriacature.
«Lei è un dolore nello stomaco quando sono lontano da lei».
Lui scrive sul balcone con indosso solo un paio di mutande, dice di essere costantemente eccitato da lei, dice di poter tenere a stento le mani lontane da lei.
E, la nota più bella, lei è «his eternal one night stand…is a receiver, a perpetual returner of the ball».
Da ragazzina non avevo letto l’intero pezzo, nemmeno sapevo che esistesse.
Però già avevo capito tutto.

Ma veniamo all’argomento di oggi.
Loro si incontrano in California, lui è gallese e figlio di un minatore, va da questa gente che sta intorno a una piscina e che beve, di domenica mattina, Bloody Mary, altri cocktail e birre gelate.
Di domenica mattina.
In molti lo festeggiano.
Non la ragazza seduta dall’altra parte della piscina, gli occhi su un libro.
Li solleva brevemente, lo guarda e torna a leggere.
Lei è straordinariamente bella.
Lui ha l’impressione che lei, non trovando in lui niente di interessante, si metta a guardare il muro che c’è dietro di lui.
Lui sorride. Lei risponde al sorriso brevemente, con un piccolo cenno di amicizia. Lui dice che un nuovo cubetto di ghiaccio si è formato da solo nel suo Scotch-on-the-rocks.
Lei è una donna remota e inaccessibile, non parla con nessuno, non guarda nessuno.
Lei è «carestia, fuoco, distruzione e peste, lei è la Dark Lady dei Sonetti di Shakespeare…lei è un segreto avvolto (wrapped, pure incartato mi piaceva) in un enigma dentro un mistero».
E poi, questa era la frase che ricordavo alla perfezione: «Her breasts were apocalyptic, they would topple empires down before they withered. Indeed, her body was a miracle of construction and the work of an engineer of genius. It needed nothing but itself. It was true art…».
Provo a tradurre: «I suoi seni erano apocalittici, avrebbero abbattuto imperi prima di avvizzire. In effetti, il suo corpo era un miracolo di costruzione e di lavoro di un ingegnere di genio. Aveva bisogno solo di se stesso. Era vera arte…».

Non mi importa se sia stato l’effetto dello Scotch-on-the-rocks, so che da un sacco di anni questa frase mi ronza nella mente.
Quale, quale donna non vorrebbe sentirsi dire da un uomo una cosa del genere, quale.

Segue tutta la descrizione di un avvicinamento, da me in passato ignorata.
Però sorge poi la frase finale, quella che pure mi è rimasta in mente e che ci sta così bene oggi con il nostro argomento: «Dark. Dark. Dark. Dark. She probably…shaves».
«Scura. Scura. Scura. Scura. Lei probabilmente si rade».

Da ragazzina, o da ragazza, capivo poco o niente di questa frase, però intuivo che, diciamo così, nei capelli scuri di lei si annidavano imperi, capitani, promesse, bevute memorabili, poesie, doppi matrimoni, scrittura, cinema, sesso, leggenda.

Blu. Poche storie. Se devo scegliere una, e una sola, donna di un fumetto, scelgo lei.

Enki Bilal, La Donna Trappola

Ho letto l’albo che la racconta un milione di volte, ce l’ho sempre a portata di mano, sono anche andata a cercare alcuni alberghi nei quali lei, maniaca del room service, vive.
In uno, a Berlino, ho anche dormito, mica potevo perdere l’occasione di percorrere le sue tracce.
Creatura nata dalla mente di Enki Bilal, evolve in episodi successivi e abita anche un film, Immortal ad Vitam, che ho anch’esso ampiamente frequentato, anche di recente, la settimana scorsa, con il gusto di infilarmici dentro per l’ennesima volta.
Si chiama Jill Bioskop e il suo cognome in slavo, lui è di Belgrado, significa cinema.
Perché lei sta qui oggi? Per via dei suoi capelli blu.
Blu come le unghie, i capezzoli e le lacrime che piange.
Come vive Jill Bioskop, la Donna Trappola?
(Vive).
Ha una corrispondenza dal futuro, frequenta uomini che le arrivano dal passato, cena al ristorante dell’hotel con addosso un abituccio sexy, beve Champagne Mumm, che riconosco dall’etichetta, abita un mondo devastato da guerre insensate, il suo universo è quello di Blade Runner, metropoli stravolte, incontri casuali, abbandoni, solitudine.

Bianco. Negli uomini i capelli, e i peli della barba, bianchi fanno autorevolezza.
Nelle donne, sperando che non abbiano la barba, direi che l’autorevolezza può pure non starci.
Altri sono i terreni di indagine al femminile.
Comunque ogni donna si comporta come crede e ci sono signore sofisticatissime che esibiscono tagli di capelli spericolati seppure senza colore.
Ma stasera e per chiudere a me interessa il bianco del marmo dei capelli che Gian Lorenzo Bernini scolpisce a ventidue anni.
E i capelli sono, per definizione, seppure trattati con tutte le cere che ci stanno sulla faccia della terra, morbidi.
E lui morbidi li rende.
Quelli del dio Apollo, che rincorre la ninfa che vuole sfuggire al suo abbraccio, quelli della ninfa, che si sta trasformando in albero di alloro per sottrarsi al dio magnifico.
Forse lei ha capito male o lo ha scambiato per un altro.
Comunque, al di là delle considerazioni sul mito, resta lo stupore davanti a tanto, mirabolante talento.
Per questa mia serie dedicata ai capelli mi è venuto in mente di rivolgermi, in apertura e per illustrare l’argomento, alla scultura.
Mi piaceva l’idea della sfida, della traduzione di una materia così duttile e cedevole in una roccia che dei capelli è l’opposto.
Roccia però che, se messa nelle mani di uno scultore di così smagliante e insuperabile virtuosismo, diventa altro: ciocche che si agitano al vento nella foga della corsa e nella necessità del desiderio e di sottrarsi a esso, chiome che si sfuggono e che pure si somigliano, complemento indispensabile all’azione.
Dramma, erotismo, mito, passione.
Narrazione.
Racconto.
Arte.