Giovan Battista Piranesi, Frammenti della Forma Urbis Severiana, 1756

Mi trovo in un film di fantascienza e non so come ci sono finita dentro.
Fra l’altro, Roma non è la Los Angeles di Blade Runner, non solo non piove, ma là in alto il sole addirittura splende.
Mi deve essere successa una cosa tipo Alice quando cade nel buco, non mi ricordo mai se invece era la tana del coniglio, o come la protagonista di 1Q84, che passa da un mondo all’altro e l’altro si riconosce perché ha due lune.
Ma pure lì c’è un atto, un inizio, un segno: Aomane abbandona il taxi, imbottigliato nel traffico, sul quale si trova e si dirige verso la grande insegna pubblicitaria della Esso.
Glielo ha consigliato il tassista stesso: lì c’è una scala per scendere al livello inferiore.

A me nessuno ha consigliato niente, mi ritrovo in un film di fantascienza e non so come ci sono finita dentro.
Di uscirne, proprio non se ne parla.

Dopo alcuni mesi, torno di giorno nel centro di Roma.
Finora mi è capitato di andarci a cena, ma le città, come è noto, di notte hanno un altro volto.
Mi è capitato anche di rimanere ai margini: sono cioè andata regolarmente all’edicola di via Veneto a comprare le mie riviste estere, ma ci sono sempre andata in macchina, dunque in una situazione protetta.
Ho esitato a lungo.
Mi sono chiesta se fosse indispensabile andare.
Avevo delle cose in sospeso e altre cose da fare.
La più interessante delle quali era andarmi a prendere le scarpe nuove della marca che indosso regolarmente, avevo un buono in evidenza sul calendario.
Insomma, non puoi non andare in centro se ti aspetta in regalo un paio di scarpe.

Altoparlanti collocati in posti diversi ripetono incessantemente il medesimo messaggio, le regole sono semplici e ossessive, la città è come se si fosse spopolata, la folla che ricordavo si è fatta rada, in metropolitana alle undici del mattino non c’è quasi nessuno, dappertutto cartelli, questo sedile è inutilizzabile, dove è finita l’atmosfera da carro bestiame che qui c’è sempre.
Ho un elenco di commissioni e mi sono fatta un piano.
Non trovo le scarpe, ovvero la signorina mi telefona dopo cinque minuti dacché sono uscita e mi dice che ha avuto un’idea, si fa mandare un 37 blu dal negozio di Bologna.
Mi piace il blu?
Certo. Ne ho un altro paio che porto volentieri.
Il mio sogno è avere un guardaroba con indumenti tutti uguali, così sai sempre che cosa indossare.
A me le donne che non sanno mai che cosa mettersi mi sfiniscono.

Dappertutto si capisce che i conti non tornano.
Non trovo i nuovi colori della Moleskine nella grande cartoleria a via della Croce; dal fornaio mi fanno il mio solito paninetto ma la sera mi accorgo che niente più è come era fino a marzo, rosette pallide pallide, la pizza è quasi immangiabile, hanno cambiato fornitore e forno?

In Accademia alcuni colleghi stanno aspettando che si liberino dei tavoli al bar all’angolo, sono evidentemente felici di ritrovarsi.
Gallina che non becca ha già beccato, no, non mi fermo perché ho già mangiato il paninetto.

In un percorso di guerra di frecce a terra, guanti, mascherine, liquidi disinfettanti, telefono consegnato e messo in una busta di plastica, penna passata con l’alcol, temperatura rilevata e dichiarazioni scritte, vado a votare per il direttore.
Il collega al seggio dice voto per la direttrice e penso adesso mi arrabbio e strappo la scheda prima di infilarla nell’urna, poi mi ricordo che gli uomini sono molto sensibili a queste faccende del genere, sono i primi a stare attenti a usare le parole.
Se stessero attenti anche ad altro, sarebbe bellissimo.

Ho deciso di andare a piedi a via Veneto e poi da lì alla Stazione Termini: voglio le mie riviste; voglio una Moleskine nuova e non la voglio prendere in internet perché non si capiscono i colori.
Da quando la Moleskine ha abbandonato il tutto nero, sono cominciati i problemi: non ti ricompri il taccuino rosa; quello bianco, che pure ho avuto, mi ha fatto prima comunione per tutti i mesi di utilizzo; quello rosso, Natale oltre il tempo massimo.
Il Verde mirto è brutto.
L’arancione, non ci penso per niente.
Quella che sto utilizzando è Blu barriera corallina.

Ora voglio un’agenda turchina come la fata di Pinocchio, a Termini ce l’hanno senz’altro perché lì hanno sempre tutto.

La cosa più impressionante è l’autobus, che decido di prendere per attraversare Villa Borghese, sono le tre del pomeriggio e fa troppo caldo per una passeggiata nel verde.
L’autista è barricato nel suo posto, protetto da cordoli, la cabina tappezzata da manifesti con due mani con le manette, non ho mai visto Roma così, la città accomodante e un po’ cialtrona si è trasformata nel set di un film di fantascienza, il sentimento è quello di Londra, dove c’è il bobby col manganello pronto a usarlo, il sentimento è quello degli USA, dove c’è il cartello con il martelletto del giudice e la scritta It’s the Law.
Via Veneto è deserta, pochissime persone ai tavoli di un paio di bar, gli alberghi chiusi, i negozi con ancora roba estiva, siamo a metà settembre, uno sforzo dovreste farlo.
Mi chiedo come sto in quella situazione, sto a disagio, la città mi piace perché è il luogo di ogni possibilità e di ogni incontro, se la città diventa disabitata, non c’è più gusto.
La signora Gabriella all’edicola mi racconta tutti i guai di famiglia, per segnalare quanti sono tira su da sotto la cassa il cestino della carta, che è pieno.
Mi ha messo da parte tre riviste.
Penso che questa settimana non dovrò prendere la macchina per andare a via Veneto, mi salta un rituale, mi prende un lieve senso di disorientamento, mi dico che forse a Termini mi sentirò meglio, la stazione è sempre un luogo di folla, lo è anche a Ferragosto, lo è il primo giorno dell’anno.

Non lo è oggi.
Pure qui, poca gente, due pullman di una ditta che mi ricorda qualcosa fanno un’ampia manovra nel vuoto.
Segni a terra, frecce, cartelli, pure qui un percorso di guerra.
Trovo l’agenda turchina, la signorina è gentilissima, addirittura mi dice che me ne prende una dal cassetto, quella in esposizione l’hanno toccata in tanti.
Quella in esposizione è avvolta nella plastica.
Stamattina ho visto un ragazzo che usciva dal tabaccaio con due pacchetti di sigarette in mano che innaffiava con l’amuchina.
Dunque, secondo me l’agenda presa dal cassetto è altro.
Mi diceva la mia estetista che c’è un sacco di gente che ha paura.
Paura di che.
Del contagio.
Sono esausta, mi dà fastidio la mascherina, fra l’altro mi ha rovinato tutto il trucco e si è sporcata di fondotinta e di rossetto, e allora perché ti trucchi, perché mi piace truccarmi e perché vado in centro.

Non ne posso più.

Imbocco il percorso per raggiungere la metropolitana, alla fine il varco è sbarrato da tre controllori e l’ingresso sta da un’altra parte.
Allora perché non mettete un cartello duecento metri prima.
Allora ho sbagliato tutto.
Sul mio allora ho sbagliato tutto mi soccorre uno dei tre ed esce finalmente fuori l’anima romana.
Si mette a ridere, vuole consolarmi, mi dice su, a tutto c’è rimedio.
È un uomo che guarda le donne, è evidente.
Avendo qualche difficoltà con il volto, guarda un’altra parte del corpo.
Me ne accorgo mentre mi avvio e mi giro per ringraziarlo.

Il percorso di ingresso alla metro mi riporta indietro di anni, quando la Stazione Termini era ancora quella vecchia e io rientravo col treno tardi, fra risse di ubriachi a suon di bottiglie rotte.
A proposito di sanificazione, l’odore di orinatoio è acre e passa attraverso tutti i filtri.
Anche qui, uno sforzo dovreste farlo.
La metro è semivuota, riesco addirittura a sedermi.
Penso che la giornata è stata faticosissima, che i movimenti sono limitati e gli slanci ostacolati, lo penso anche se a me il confinamento ha fatto poco o niente, sono una solitaria, non ho sentito la mancanza di chi non frequento.
L’uscita a Furio Camillo mi sembra un paradiso ritrovato, riabbraccio il mio quartiere come se fossi mancata per tanto tempo, passo un momento al supermercato, devo prendere un paio di cose.
Fuori, vicino ai carrelli, Angelo si sta fumando una sigaretta.
Ci siamo avvicinati quando lui mi ha fatto arrivare le mie scatole di pomodoro predilette.
Lo ritrovo con riconoscenza, parliamo un po’, gli dico che sono spossata, mi chiede che cosa ho fatto.

Gli rispondo che ho fatto quello che fanno le signore perbene quando hanno voglia di distrarsi: sono andata in centro.