Il numero è perfetto.
Non sono sette, quantità che mi getta in uno stato di depressione dal quale non riesco più a riprendermi; non sono trecento, dunque, ingestibili.
Una volta, a Napoli,  ho contato trecentotrenta firme sul foglio.
L’ho preso, il foglio, e sono andata dal Direttore, l’ho messo sulla sua scrivania, ho detto «Così, tanto per sapere, come faccio. Casomai, che ne so, un microfono».
Eh, quante ne vuoi.
Un anno portava il microfono e l’altoparlante un ragazzo che suonava in un gruppo, se lo caricava tutte le volte che c’era lezione, alle fine facemmo un gran bel corso.
In questo semestre i miei studenti del corso di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Roma sono una trentina.
Dunque, decido di fare lezione come piace a me.
Con la loro presenza e con il loro apporto.
Vediamo insieme  che succede quando un insegnante non si siede in cattedra.

Ma la cattedra rimane il mio posto: territorialità sacrosanta.
Dunque ieri ho detto alla studentessa che ci si era seduta prima del mio arrivo non si fa, torna a sederti al tuo tavolo.
Sulla cattedra però non ci sto io ma il mio luogotenente, che si occupa del computer, del videoproiettore e delle ricerche in internet.
Io sto in piedi.
Di base, la lezione che sta sulla mia pennetta, poi, però.

Dico togliete gli zaini da per terra perché io mi muovo e, se li lasciate lì, li considero una trappola.
Dico non parlate fra voi, parlate con me e con i compagni, ma ordinatamente, senza togliervi la parola uno con l’altro ma facendo un cenno qualunque per segnalare che avete qualcosa da dire.

Non vi stirate, ci stiriamo tutti insieme a metà lezione.
Non guardate WhatsApp, appena uno guarda WhatsApp prendo platealmente il mio telefono e dico fammi vedere se c’è qualcuno che mi cerca che mi interessa più di voi.
Non c’è mai nessuno più importante di loro, questo lo dico a voce alta e scandendo le parole.

Dico lo spazio dell’aula è sacro, dentro ci facciamo quello che ci pare.
Dico siamo una comunità, funzioniamo come tale.

Stentano a reagire. Quando chiedo perché, vi sto facendo una domanda, mi rispondono che non sono abituati a essere coinvolti nella lezione, che la norma per loro è che il professore sta in cattedra e parla per suo conto.
No, scusate, in che senso, nel senso che non si preoccupa di capire se voi seguite oppure no?
Sì, in quel senso.
E pure nel senso che i professori non sanno stimolarci.
(Qui sembrano sempre pupetti disappetenti ai quali la mamma offre il biscottino, la merendina, la spremutina, dicendo «Ti prego, tesoruccio, mangia, fallo per me», e il pupetto, appena può, le sputa tutto in faccia, alla mamma: biscottino, merendina, spremutina).

Ma io vi sto coinvolgendo, non posso non preoccuparmi di voi, se invito a cena una persona e ho cucinato, mi preoccupo che il pasto sia di suo gradimento.
Se parlo con un amico, sto attenta a non annoiarlo. Se lo annoio, cambio marcia, discorso, tono.
Cambio amico.

Non sanno niente.
Mando Un funerale a Ornans, Courbet, 1850.

Gustave Courbet, Un funerale a Ornans, 1850

Dico che Ornans è il paese natale di Courbet.
Una signorina l’ha visto l’estate scorsa, è andata a Parigi e al Musée d’Orsay.
Bene, bene.

Le chiedo di dire ai compagni quanto è grande. La tela fa sei metri e sessanta di larghezza per tre metri e quindici di altezza.
Lei guarda la parete e dice «È pure più grande».
Dunque, si capisce che è un’opera importante, diciamo meglio, impegnativa, ci sono opere gigantesche che valgono poco o niente.
Courbet, mai.
Courbet è una meraviglia.
Cerco di fare luce con l’editto di Saint Cloud, a noi a scuola ci torturavano con il veto posto da Napoleone alle sepolture dentro le mura. Poi, è vero che a Parigi gli appartamenti affacciano su meravigliosi cimiteri dove io vado a passeggiare appena posso.
Poi, però, averceli sotto al balcone.
Due degli studenti sono appena usciti dal classico.
Dico Foscolo, dico Dei sepolcri.
Dico All’ombra dei cipressi e dentro l’urne.
Niente.
Dico, ohi, ragazzi, ma la tomba a chi serve, al morto?
Certo che no.
Allora serve al vivo.
Tutti d’accordo.
E Foscolo che dice a proposito della tomba.
Boh, va’ a sapere.
Ma non lo avete fatto a scuola.
Sì, ma è passato un sacco di tempo (più o meno un anno).
Allora, se non si ricordano mai quello che studiano, bisogna farli studiare diversamente.

Foscolo dice A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti.
Che significa.
Boh.
Significa che la tomba della persona di spirito forte e grande aiuta chi è vivo, si chiama emulazione, si chiama ricordo.
Si chiama una delle cose più importanti della letteratura italiana, e che diamine.
Serafici, mi credono sulla parola, pure se non sono convinti.

Io su Foscolo piangevo.
Se loro manco si ricordano il senso dei Sepolcri, dobbiamo parlarne.

Ci stiriamo. Tre, due, uno. È anche consentito roteare la testa, gridare, emettere suoni animali.

Vietato, sempre, dire tipo. Chiedo dieci centesimi a volta. E chiedo dieci centesimi per ogni OK.
Di questo passo divento ricca.

Dico Realismo.
Chiedo che significa. «Una cosa cruda».
Allora cerchiamo ancora Courbet, L’origine du monde.

Gustave Courbet, L’origine du monde, 1866

E sono molto, molto chiara.
Questo è un dipinto che mostro di rado a lezione: non perché è erotico, bensì perché è privato. Ovvero, oggi lo vediamo in un museo pubblico, però per tanti anni è rimasto nascosto.
Giustamente.
Dietro c’è un committente, un diplomatico turco. E Courbet ha dipinto per lui una serie di cose erotiche, di cui questa è la più esplicita.

È stato di proprietà di Jacques Lacan, uno psicoanalista. I figli l’hanno ceduto allo Stato per pagare le tasse di successione.
Dico che Lacan lo teneva celato da una tenda verde, così, quando la domestica andava a pulirgli casa, non lo vedeva.
Dico che uno psicoanalista è tipo uno psicologo, solo, più matto.
Dieci centesimi, pure la professoressa.

Si tratta di un ritratto di una donna della quale non sono mostrati né il volto né gli arti.
Lei è un paesaggio.
D’accordo, è una vagina, ossia un sesso femminile.
Allora vi chiedo una parola per definire l’opera. Potete pure passare, come si fa a domino.
Prendo gli studenti uno per uno, li interpello, li convoco.
Tre di loro, un ragazzo e due ragazze, passano.
Dico che non voglio urtare la sensibilità di nessuno, che sono professore e donna, quindi mi sento di poter parlare di quest’opera.
È cruda?
No.
Allora, com’è. Trionfa il senso del naturale, del resto Elsa Morante ne La Storia, chiama natura il posto del corpo dove sta il sesso.
(Ammesso che il sesso stia solo da una parte).
Un’ondata di commozione sommerge l’aula.
Ah, allora vi sentite coinvolti.
Uno dei ragazzi parla di appetito.
Io aggiungo poesia.
Chiedo se è osceno.
No.
Cito l’etimologia, mai confermata ma suggestiva, di osceno come ciò che deve restare fuori dalla scena.
Dico che è un’immagine intima e che intimo è un superlativo di dentro.
Più dentro di una vagina forse non si può.
Racconto che ho chiesto al mio ginecologo com’è la vagina.
«Una meraviglia della natura», mi ha risposto.
Se lo dice lui.
Do la mano a un ragazzo e a una ragazza, come se ci salutassimo.
Dico guardate la meraviglia del corpo, noi ci stringiamo la mano, mettiamo in moto muscoli, tendini e pelle e in un gesto così passa una valanga di sentimenti.

Figuriamoci i sentimenti che passano in una vagina.

Mando L’autoritratto con il cane nero, ancora Courbet.

Gustave Courbet, Autoritratto col cane nero, 1844

Che faccia ha, lui?
Consapevole di sé.
Se la tira.
Eh, sì.

Allora adesso vediamo il sito di un grande museo. Cerchiamo il Louvre.
Avevo dato un compito a casa, leggete la scheda della Libertà che guida il popolo di Delacroix.

Eugène Delacroix, La Libertà che guida il popolo, 1830

Il sito non ha la versione italiana, ci sono tante lingue orientali, ma l’italiano, no.
Perché.
Perché l’italiano al mondo lo parliamo solo noi, quindi abbiamo poco peso.
Dobbiamo protestare con la Direzione del Louvre.

Il Louvre

Una delle ragazze ha tradotto dall’inglese la scheda e me la fa vedere stampata.
Dico che ha fatto un grosso lavoro, che lo può inserire nella sua Cartella del Contemporaneo, un oggetto tridimensionale nel quale mettere da parte la documentazione che non sta sul manuale.
Provo a indicare come si legge un testo, o un sito, scritto in una lingua straniera: è inutile cercare tutte le parole, non andiamo mai avanti, proviamo a capire che dice, poi mano a mano integriamo.

Tutti hanno studiato almeno una lingua straniera per almeno otto anni.
Se non sono in grado di leggere al volo un testo, vuol dire che non funziona l’insegnamento.
Se io faccio una dieta che dura otto anni e non perdo nemmeno un chilo, mi allarmo.
Veramente mi allarmo dopo solo un paio di mesi.
Con la lingua straniera nella scuola italiana, no.

Gli studenti stanno lì, si sentono trascurati e non imparano niente.
Si annoiano.
Buttano l’adolescenza e tutta la prima giovinezza.

Il sito del Musée d’Orsay ha la versione italiana.
Andiamo insieme a vederla.

Musée d’Orsay

La vediamo.
La sostanza è che loro avrebbero bisogno di un precettore, qualcuno che li seguisse passo passo, impedendo loro di perdersi.
Durante l’estate non si sono occupati di arte.
Considerano l’arte come una cosa solo di studio, non la fanno entrare nella vita.
Se l’arte non ti entra nella vita, noi che la insegniamo abbiamo sbagliato tutto.

Se hanno viaggiato, non ricordano niente perché hanno viaggiato da piccoli.
Oddio, da piccoli.
Loro sostengono che erano piccoli anche a diciotto anni, cosa che li ha esonerati, quando stavano ad Amsterdam, dalla visione dei musei.
E che hai fatto, ad Amsterdam? Niente van Gogh, niente Rembrandt?
Poi ve lo dico, che hanno fatto, ad Amsterdam.

Vado avanti ancora con altre cose.
A fine lezione ci facciamo una foto storica.
Perché storica. Perché riguarda la nostra storia.
In un’aula vicina vado a cercare qualcuno che ce la scatti.

I miei studenti: Accademia di Belle Arti di Roma, primo semestre, Storia dell’arte contemporanea

Si offre una ragazza, che è pure brava, insieme schieriamo tutti per bene.
E, mi raccomando, sorridete e fate la faccia intelligente.

Ci riusciamo.
Sospiriamo tutti insieme: tre, due, uno, è fatta.
Esplodiamo in un applauso liberatorio.

I ragazzi non se ne vanno di corsa, rimangono un po’ lì a chiacchierare.
Uno di loro, appena entrato nel corso, mi dice che è la prima volta che un professore è capace di tenere la sua attenzione accesa per più di tre minuti.
Tre minuti.
Come si fa in tre minuti a fare scuola.

Cari Colleghi, vogliamo parlarne?
Il primo passo sarebbe chiedere al Direttore di fornire a tutti i docenti dell’Accademia la tazza che ho messo in apertura.
Bene o male, tutti siamo professori d’arte, artisti, teorici, tecnici.
Ci darebbe forza, e coraggio.
Gli americani, almeno in questo, nel produrre gadget, mica sono scemi.

Poi dovremmo provare a guardare davvero le cose come stanno: la noia; la mancanza di cura; il vuoto totale della memoria;  l’impossibilità di apprendere una lingua straniera in modo utile; l’inutilità dei viaggi nei luoghi d’arte prima dell’età adulta.

Esco mezza morta ma abbastanza soddisfatta.
Se li cerco, mi rispondono.
Se li afferro, li tengo.

Comunque, sono ragazzi irresistibili, simpatici, intellettualmente disponibili, giocosi e giocherelloni.

Sono, e che diamine, i miei studenti.