Il Fantasma dell’Opera

«Ecco, è per via del palco…».
«Che palco?»
«Quello del fantasma!»>
«Il fantasma ha un palco?»

Gaston Leroux, Il Fantasma dell’Opera

Mi trucco.
Base. Primer. Correttore. Fondotinta. Cipria (trasparente). Ancora correttore.
Mi faccio di occhi: matita marrone. Ombretto chiaro. Ombretto marrone. Sfumo tutto con i pennelli.
Mascara.
Riga nera di kajal.
Mi rifaccio la bocca: plumper, rossetto e lucido.

Indosso la mascherina.
Non ci siamo.
Il trucco si appiccica, i laccetti si imbrogliano con gli orecchini, mi si appannano gli occhiali.
Qui dobbiamo trovare una soluzione.
Se dobbiamo vivere mascherati, una via di uscita dovrà pur esserci.
Per il maquillage e per il resto.

Ogni volta che ci si occupa di arte veneta e, meglio, veneziana del Settecento, bisogna chiarire alcuni fatti.
Per esempio che Venezia è riuscita per secoli a far credere di essere nata, tale e quale a Venere, dalla schiuma del mare.
Che ormai, però, è agli sgoccioli, il patriziato è anchilosato, «la Dominante scade politicamente economicamente demograficamente» e continua a proiettare di sé un’immagine sempre più «aleatoria e arbitraria».
La Dominante: Venezia si definisce da sola, anche in questo modo, coltiva il suo mito, trasforma il suo tramonto, ancora una volta, in spettacolo.
Quando viene ceduta all’Austria da Napoleone con il trattato di Campoformio, siamo alla fine del secolo.
Quella città così inconsueta che ha canali, campi, campielli e corti che le altre città non hanno, perché le altre città hanno strade, vie e piazze, che, lo diceva già Cassiodoro nel VI secolo, è un mondo strano, con barene, che sono poi dei terreni, che sono soggette alle maree, case che sembrano nidi di uccelli palustri, imbarcazioni legate fuori da quelle case al posto del cavallo, che usa il sale come moneta e che vive di pesca, ebbene, quella città, fra le tante sue stravaganze, ha anche quella di vivere più o meno perennemente in maschera.

Noi abbiamo già parlato di maschere, di noia e di spleen qui.
Tutto questo vi dice qualcosa?
Certo, la noia e lo spleen.
Però, poi, pure la maschera. Non pensavamo che noi l’avremmo dovuta indossare quotidianamente.
A Venezia le donne portavano la moretta, detta anche muta, che era una copertura del viso ovale, dunque, comoda per gli orecchini, che si teneva a posto grazie a un bottone.
E dove si metteva il bottone?
In bocca.

Pietro Longhi, Il rinoceronte, 1751

Nel senso che, per indossare la moretta, una donna doveva stringere il bottone fra i denti.
Per questo la maschera si chiamava anche muta.
Ve lo dico da donna che vive di parole: mai fu inventata una punizione più simile al contrappasso per il genere femminile.
Il dipinto di Pietro Longhi, un vero cronista della sua epoca, che vi mostro ci mostra a sua volta una dama ridotta al silenzio.

Gli uomini, ah gli uomini, avevano invece il diritto alla bautta, maschera magnifica, composta da un mantelletto nero di seta, velluto o merletto, con un cappuccio che lasciava libero il viso. L’apertura si copriva con una mascherina, detta volto, di seta, velluto o cartone, bianca o nera.
La mascherina era molto prominente al naso e lasciava libera la bocca.
Più o meno. Perché, con la sua forma, alterava la voce.
Volto nascosto, voce alterata.
Vi viene in mente qualcosa? Nel senso: vi vengono in mente delle possibilità esistenziali che, a viso aperto, non abbiamo?
A me, molte.

Canaletto, Ricevimento dell’Ambasciatore Imperiale a Palazzo Ducale, 1729

Canaletto dipinge il Ricevimento dell’Ambasciatore imperiale a Palazzo Ducale, praticamente un trionfo di maschere.
Io una volta ci ho passato un pomeriggio sopra, con la lente di ingrandimento, per vedermele tutte.
Peccato non essere, casomai insieme, davanti al dipinto, che è a Milano e che è grande, dunque, fa vedere le maschere agevolmente.
Vi vengo incontro con Francesco Guardi, il mio prediletto fra i veneziani, che nel suo Ridotto a Palazzo Dandolo mette insieme un sacco di cose: l’aristocrazia, il lusso, il teatro, il gioco d’azzardo e le maschere.

Francesco Guardi, Il Ridotto, 1793

Bello e suggestivo come è bello e suggestivo Guardi, estremo, sfilacciato, moderno, talmente moderno da sfiorare con il pennello la pittura impressionista.

Ma abbiamo esordito con Il Fantasma dell’Opera.
Che è un romanzo, che mi portai in vacanza in montagna anni fa.
Io in montagna mi sono sempre annoiata ferocemente, come sempre, più o meno, mi annoio in vacanza.
Mi portavo sempre dei libri da leggere e mi accorgo a distanza di tempo che spesso i libri non c’entravano niente con le Dolomiti.
Nel senso che le Dolomiti mi annoiavano e che non vedevo l’ora di ritornare a Roma a farmi i fatti miei.
Quindi, anticipavo con delle letture il gusto del ritorno.
Comunque quell’anno, che è segnato a matita sul libro perché io mi segno sempre le date, ricordo che quel libro, comunque esile e, a dirla tutta, niente di che, mi salvò la vacanza.
Che ne so, mi sembrava di stare all’opera, a me l’opera piace molto, mi sembrava di non stare in vacanza.
La storia è quella di Erik, nato in un piccolo paese non lontano da Rouen.
Luogo, in Francia, magico.

Claude Monet, La cattedrale di Rouen, pieno sole, 1893

Esso ha relazioni con Flaubert, che ambienta da quelle parti Madame Bovary; con Monet, che dipinge la cattedrale più e più volte; con Simone de Beauvoir, che ci insegna.
Devo ammettere che ho trascorso vacanze in Francia alla ricerca di luoghi, fra i quali Rouen, senza annoiarmi.
Anzi.
Credo che mi annoi la montagna e non la vacanza.
Erik è architetto, è deforme e, dopo molte avventure e nonostante la deformità, costruisce a Parigi il Teatro dell’Opera.
Erik ha messo nel teatro botole e passaggi segreti e per venti anni ha abitato nei sotterranei.
(Venti anni. E noi qui a smaniare per qualche settimana).
Poi si innamora di Christine, un soprano di venti anni (pure lei).
E la vuole per sé.
E chi non vorrebbe per sé la persona di cui è innamorato.
Erik indossa una maschera che copre la sua deformità.
Erik vuole Christine anche se lui è deforme e lei è bella.
La maschera gli dà forza e gli dà coraggio.

Finirà con il sacrificio di lui. Però ci sarà un film e poi ci sarà un musical, dal quale sarà tratto un altro film.
Io non vado più al cinema perché mi danno fastidio le persone che parlano.
Però, quella volta, mi ricordo benissimo, al Metropolitan, a Roma, a via del Corso, stavo seduta vicino a uno che conosceva a memoria tutte le canzoni del musical e che le cantava insieme agli attori.

Dopo pochi secondi, il sentimento di irritazione iniziale si trasformò in ammirazione.
Un po’ come quell’altra volta, quando in una cinema vicino a casa mia quando casa mia era via Arezzo, andai a vedere Wall Street e dietro a me c’era un trader che sapeva tutto quello che succede in borsa e che mi spiegò per filo e per segno quello che succedeva sullo schermo.

Incontri.
Il cinema ne propone tanti.

Per non parlare di quanti incontri propone il teatro, soprattutto quello dell’opera.

L. Cénac, V. Hanotel, Guida pratica all’uso di quelle che non hanno mai niente da mettersi

E dunque, il mio manuale dedicato a quelle che non hanno mai niente da mettersi, che io leggo e percorro ma che non è riferito a me per il semplice motivo, visto che io mi metto sempre le medesime cose, che io ho sempre qualcosa da mettermi, ci dice, a proposito dell’Opéra, che il fasto si perde e, con il fasto, si perde anche il sogno.
E il manuale ci dice inoltre che, almeno per l’Opéra, bisogna continuare a vestirsi: grands décolletés, uno smoking femminile, colori chiari che prendono rilievo nella penombra.
«I palchi sono l’ultimo rifugio dell’eleganza…parure scintillanti e fruscio di taffetas fanno dal gioia del fantasma».

E il fantasma indossa una maschera.
Ora, ditemi voi se quest’invito all’avventura non è bellissimo.
Riaperti, quando e chissà, i teatri ma indossate, presto e sicuramente, le maschere, chi ti dice che l’avventura non sia quella che cerchiamo da sempre.

Per quanto mi riguarda, devo solo risolvere il trucco, gli orecchini e gli occhiali che mi si appannano.
Poi, con la maschera, sono pronta.