Frecce Tricolori in volo su Roma il 25 aprile 2020

Irina/Irene. La ragazza ha trent’anni. È molto bionda e ha gli occhi azzurro chiaro, troppo chiaro perché siano espressivi.
Sono gli occhi scuri a essere pozzi senza fondo di sentimenti.
Ma lei è espressiva perché è vivace.
Mi chiede di continuo se secondo me lei è cicciottella.
Come con tutti i cicciottelli che te lo domandano, uno non sa mai come rispondere.
E se poi si risentono.
Allora una volta, un martedì, le ho detto ragioniamo insieme.
Tu sei alta diciotto centimetri meno di me e pesi quanto me.
Io non sono denutrita.
Quindi, tu sei cicciottella.
Potresti cambiare un po’ la dieta, non è che ti devi sacrificare, devi solo evitare di mangiare la lasagna tutti i giorni.
Quando è tornata il venerdì, le ho fatto il caffè e lei si è seduta in cucina sul mio sgabello.
Le ho chiesto se voleva mangiare qualcosa, mi ha detto no, sono piena.
«Che cosa hai mangiato ieri sera?».
«Lasagna».

Buongiorno. Oggi al filo diretto con gli ascoltatori della rassegna stampa ha chiamato una signora di Venezia. Sembra che si siano accorti che le grandi navi che lambiscono Santa Maria della Salute sono uno scempio.
E che la città potrebbe ancora essere piena di residenti, è una città vivibile, per esempio non c’è traffico.
La città potrebbe essere piena di residenti e non di bed & breakfast.
Poi ha chiamato una signora di Firenze, dove le grandi navi non arrivano, ma solo perché non ci arriva il mare. Fosse per loro, ci arriverebbero volentieri.
Anche quella signora lì ha detto che pure a Firenze ci sono troppi bed & breakfast e che il turismo negli ultimi tempi si era fatto aggressivo.
Ho chiuso sia con Venezia che con Firenze da qualche tempo, come si fa con quelli morti malamente, preferisco ricordarmele come erano.
La signora dalla quale compro i prodotti per la casa mi ha telefonato e mi ha spiegato per filo e per segno quanto denaro aveva perso a causa di un viaggio in Cile, che avrebbe dovuto fare con il marito in questi giorni.
Il viaggio era stato cancellato e lei non riusciva a rassegnarsi.
Dopo dieci minuti buoni al telefono mi ha detto che forse non era il Cile, la destinazione.
E che forse la destinazione era Cuba.
Un caso frequente di destinazioni intercambiabili.
Comunque, se qualcuno comincia a dire sul serio che nelle belle città d’arte ci sono pochi residenti e troppi bed & breakfast, forse significa che la gente si sta svegliando.
E apre gli occhi.
Buongiorno.

Fico! L’altro giorno ho fatto due file in due supermercati, una la mattina, l’altra, il pomeriggio. Semplicemente, pensavo di avere ancora un pacco di farina aperto: mi ero messa in testa di fare a cena le alici fritte.
Ma la farina non c’era.
E c’era la voglia di alici fritte.

Le mie alici fritte

Allora sono andata alla Conad non lontano da casa mia, un posto triste, un po’ sporco, preceduto da un cortiletto dove affacciano balconi dai quali ogni tanto cade qualcosa, una pantofola di spugna lavata, una molletta dei panni.
Si è affacciato il fornaio e gli ho chiesto se c’era la farina. Tu capisci, questa è una fila da un’ora e mezza, per favore, guarda.
La farina c’era.
Mentre aspettavo mi è andato lo sguardo su un giardinetto interrato che sta sulla destra, oltre un muretto.

Fico

E c’era un albero pieno di frutti, un fico autentico.
Mai visto prima.
E ti credo, vado sempre e solo in quel supermercato in emergenza, quando sono di fretta, filo di corsa dentro e poi fuori, come potevo vedere gli alberi che stanno di sotto.
I frutti saranno maturi fra non molto. E sono a portata di mano.
Ho fatto notare l’albero a una ragazza che stava davanti a me, che mi ha detto guarda pure quello vicino, è un nespolo.
Abbiamo deciso, io e lei, che col caldo avremmo fatto la spesa al supermercato un po’ dentro e un po’ fuori.
La frutta, quella, fuori.
Le alici, la sera, sono venute buonissime, anche se un po’ pasticciate. Vi ho messo una foto. Non pensavo che ci volessero tante uova per ripassarle.
Non sapevo che fosse un lavoro così certosino friggerle.
Quante cose vedo che non vedevo e imparo che non sapevo, con il confinamento.

La mala educación. Non entro in un’aula dallo scorso 2 marzo.
Da uno a dieci, quanto mi manca questa esperienza: zero.
Gli studenti, sempre allungati sulle sedie, lo scorso anno un pugliese piccoletto stava tutto sdraiato e a un certo punto ho visto che aveva pure infilato un piede nella staffa del tavolo.
Le femmine si sistemano i capelli, prima la coda, poi la cipolla, poi sciolgono la cipolla, ripassano dalla coda e infine tolgono l’elastico. Qualcuna controlla anche se ci sono doppie punte.
Di continuo.
Non so se questo significhi «ravviarsi i capelli», gesto quanto mai femminile. Finché non diventa un tic.
Non è mai questione di telefoni, quella che guarda di più il telefono durante la lezione sono io.
Gli adulti, mi sembra che si lamentino per cose inesistenti. E commentano di continuo: effetto televisione.
Certe volte, certe discussioni perché qualcuno si lamenta dei commenti.
Ho già riferito che una persona si è lamentata del filo del proiettore.
Ho già detto che con la storia dell’arte telematica posso silenziare i microfoni.
Quelli altrui.
Così l’unico microfono che rimane aperto è il mio.

Le corna del cervo. Come quel personaggio di un romanzo di Simenon, ho molte vestaglie. Tutte belle e tutte comprate in un certo periodo della mia vita, quando era possibile comprare vestaglie belle e adatte a tutte le stagioni e a tutti i momenti. Una di queste vestaglie mi è sempre stata antipatica. Non so perché l’ho comprata, forse mi piaceva il colore.
È una maglia doppia di cotone, di quelle molto fluide, deve essere per questo che mi sta antipatica: è come se non avesse struttura.
Però durante questo periodo la sto indossando moltissimo: saut-de-lit; corriere che citofona mentre mi sto asciugando i capelli; «disposizione e preparazione (igienica e psicologica) dell’andare a letto».
Prima mi piacevano di più altre vestaglie.

Il cervo e il leone

Come il cervo della favola di Esopo, che si guarda continuamente nell’acqua della fonte ammirando le sue maestose corna e schernendo le sue zampe ossute e un giorno vicino al laghetto ci trova un leone che sta per balzargli addosso e scappa solo per l’agilità delle zampe ma rimane impigliato nei rami di un albero per via delle corna; così anch’io in questi giorni guardo con simpatia la vestaglia antipatica.
Perché è l’unica che va in lavatrice: lavaggio freddo, delicato, centrifuga leggera, la stendo pure al sole e la sera è pronta.
Niente a che vedere con tutte le altre: delicate, da portare in lavanderia dal signor Michele, mica nella lavanderia qui sotto.
Ma quale delle mie due lavanderie, poco importa.
Le lavanderie sono tutte chiuse, quindi, non fa differenza.

Abusi. Lo Scienziato-Umanista che seguo quotidianamente e che, come riescono a fare talvolta alcuni letterati grandissimi e molto spesso i filosofi, tocca tutti gli argomenti, casomai sotto metafora, casomai senza nemmeno accorgersene, in uno dei suoi post recenti ha fatto cenno alle difficoltà implicite nella crisi e nell’adattamento. Lo sta dicendo da tempi non sospetti: «prima verranno i medici, poi i tecnologi (ingegneri, matematici, etc.), poi gli economisti ed infine psicologi e sociologi».
Lui allude anche ad altre figure, si intuisce di persone che possono dare una mano in una quarantena (ma anche dopo di essa) che «in sé purtroppo presenta delle sfide psicologiche e sociali non indifferenti».
Mi ha molto colpito, nel medesimo paragrafo del post, l’allusione agli abusi: «abuso domestico, abuso di sostanze».
Lucido, con gli occhi bene aperti sul mondo.
Ce lo avevo in mente da tempo e l’ho messo in calendario: voglio fare qualche lezione su droga e alcol.
È ovvio che, a questo punto, i miei argomenti saranno affrontati alla luce di quello che sarà successo durante il confinamento.

I lieti calici. Via internet i cartoni di vino che prima arrivavano in tre giorni ormai ne impiegano venti. Non solo, accanto a tante, troppe bottiglie compare la scritta Esaurito.
Ieri anche uno Sherry Fernando de Castilla che mi era venuta voglia di bere perché stavo studiando Zurbarán e lui ha lavorato a Jerez e a Jerez fanno lo sherry.

Francisco Zurbarán, La Vergine Bambina assopita, Jerez de la Frontera, 1630

E le botti dove lo sherry è maturato, con un sistema per cui  esse non sono mai vuotate del tutto, danno la possibilità, o forse, che è lo stesso, l’illusione «di poter avere nel tuo bicchiere una goccia, o poche molecole, di vino che ha decine o centinaia di anni».
(A me l’idea di poter bere dal medesimo calice del grandissimo artista spagnolo  è capace, da sola, di ubriacarmi)
Da un pezzo ho fatto il giro delle enoteche del mio quartiere. Più o meno e per motivi diversi, le ho esaurite tutte.
Proprio come le palestre.
Ora ne ho trovata un’altra, un po’ avanti sulla Tuscolana. Ci devo andare in macchina.
E in macchina ci sono andata, facendo subito amicizia con il titolare.
E rientrando sono passata per il Mandrione, che è una strada che mi piace tantissimo, con l’acquedotto romano e le casette ed era una giornata calda e ho aperto tutti i finestrini e mi ha invasa un odore di erba fresca misto a fiori di campo.
E fra la primavera infiltrata e le bottiglie che avevo sistemato, tutte belle ordinate perché non cadessero, sul sedile posteriore, ho pensato ma a me che mi fa, il confinamento.
Non so se sto abusando di alcol o di altro, so che la notte dormo e sogno, che sono piena di idee, che questo stile di vita, a me che sono solitaria, autonoma e ben organizzata, più o meno mi sta bene.

L’Italia che resiste. (Al nuovo). Sono pronta a fare un elenco dei fatti relativi alla resistenza di persone che vedo e sento rispetto al nuovo.
A cominciare dal direttore giovane del supermercato, al quale pure ho detto, dopo averlo detto al collega anziano che si è quasi scandalizzato, che dovrebbero organizzarsi con un sistema per evitare le file, app, prenotazioni, quello che vi pare e che mi ha guardato con gli occhi nerissimi da sopra la mascherina scuotendo la testa.
Perché no.
Perché non si può.
No, perché non siete capaci di aggiornamento, perché non è vero che fra un mese non ci saranno più file, perché vedrete che con il caldo qualcuno in fila comincerà a sentirsi male.
Perché siete in posti nevralgici e non siete capaci di starci.
Lui mi ha detto che, se voglio, posso farmi portare la spesa a casa.
Non ci penso per niente.
E mentre parlavamo ho visto che lui, che ha sempre i capelli tagliati cortissimi, ora ha i capelli un po’ lunghi.
(A me certe cose, negli uomini, mi fanno tenerezza).
Poi ci sono quelli che copiano la password di accesso alla lezione su un pezzo di carta e poi la trascrivono nella finestrella facendo, inevitabilmente, degli errori e se tu dici loro di fare copia e incolla, ti rispondono che loro si trovano bene così.
Quelli che confondono mail e messaggio Whatsapp. Non ho ricevuto niente. Ma se ti ho mandato una mail. Ma io ho guardato su WhatsApp.
Quelli che aprono la posta una volta alla settimana e non si ricordano mai come si fa.
Quelli con il computer rotto. Da mesi.
Tanto a che serve.
Infatti.
Solo che qui si sta giocando una partita che forse è quella definitiva. O fai uno sforzo per accedere al fascino, che io sento fortissimo, di questo schermo e di questa tastiera che ingombrano la mia scrivania e che sono il mio primo atto la mattina e l’ultimo della sera, accendi e spegni; oppure l’isolamento sarà totale.
E sarà isolamento vero.

Sull’aria. Qualche mese fa, ma a me sembra ieri, mi ero messa a ragionare sulla relazione che abbiamo tutti, donne e uomini, con chi si occupa di ciò che attiene alla nostra casa.
Trovate l’articolo cui voglio fare riferimento qui.
E oggi ritorno sulla Contessa e su Susanna che nelle Nozze di Figaro di Mozart/Da Ponte organizzano la riscossa contro il Conte, colpevole di infedeltà e di altro.
Pensavo in questi giorni che se ti immergi nelle Nozze di Figaro, non ti basta un confinamento per godertele tutte.
E che quando ho pubblicato quell’altro articolo mai avrei pensato a tutti i significati che avrebbe assunto l’aria della Contessa e di Susanna, che ha dato il titolo all’articolo di oggi, quando entra in scena nel film Le ali della libertà.

L’altro giorno ho visto una foto delle Frecce Tricolori che solcavano il cielo di Roma il 25 aprile.
Una Roma deserta.
Me le sono perse, così come me le perdo sempre il 2 giugno: forse perché loro sono veloci, forse per dove sta la mia casa (via Clelia).
Ma mi sono rimaste nel cuore per il sentimento di libertà che la loro foto mi ha trasmesso.
Ecco perché stanno in apertura.
Ecco perché, nella mia canzonetta sull’aria, ci vorrebbe stare un po’ tutto.