Fernand Khnopff, Du Silence, 1890

Qualche regola per il lavoro: prendere la parola solo quando si ha qualcosa da dire; la pratica quotidiana come alternativa alla nozione di progetto;…la forza  significativa del frammento

Franck Scurti, artista (da un ritaglio che ho conservato nella mia agenda. Le frasi trascritte sono state da me evidenziate tempo fa e le evidenzierei anche oggi)

Da un account Instagram di sessuologia, francese, quindi cartesiano, disinibito e disinvolto: «Esistono altre leggende che permetterebbero di misurare la taglia facendo paragoni con altre parti del corpo: la distanza fra la base del mignolo e il pollice, 2/3 dell’avambraccio, la misura del piede! Nessuna di queste dicerie è valida. Esiste un solo parametro di misura: è il giro vita dell’addome. Più il basso ventre prende posto, più si avrà l’impressione di un pene di piccola taglia, semplicemente perché una parte di esso è sepolta».
Nel film Kadosh di Amos Gitai, lui, un ebreo ultra-ortodosso, si alza la mattina e mentre borbotta quelle che credo siano preghiere e si barda con quelli che credo siano amuleti rituali, dice, testuali parole: «Sii benedetto, Dio, per non avermi fatto nascere donna».
Io, che non sono ultra in niente e che forse proprio per questo la mattina non ho mai voglia di alzarmi, ho però sempre un pensiero analogo che mi passa per la mente: «Sii benedetto, Dio, per non avermi fatto nascere uomo».
Fosse solo per quella che si chiama sindrome dello spogliatoio.
Io su una cosa del genere diventerei matta, peggio delle donne, che stanno sempre a giudicare i propri seni in rapporto ai seni delle altre donne e che non sono mai contente dei seni che hanno.
Comunque, questi hanno perso un’occasione gigantesca: quella di non usare la frase «si avrà l’impressione di». Diceria per diceria, avrebbero potuto scrivere: «Più il basso ventre prende posto, più il pene è di piccola taglia».
Tutti gli uomini a dieta, basta ingozzarsi, tutti a giocare a calcetto la sera del mercoledì come fa il ragazzo della cassa al supermercato, che poi mi racconta per filo e per segno la partita.
Tutti gli uomini in forma, ad affidare la loro sostanza ad altro che non sia la pancia.

Te lo chiedono in maniera diretta, anche via telefono o WhatsApp, nemmeno ci girano intorno.
Ho fatto o farò il vaccino.
Domanda che considero quanto mai intima e alla quale, dunque, non rispondo.
Fossero fatti miei, una volta ogni tanto.

Difficile comprendere il paradosso. Quando ho detto a Irina che nella lavatrice nuova si mettono solo panni puliti, non è che abbia capito del tutto.
Ho tradotto che gli stracci delle pulizie andavano tutti lavati a mano.
Dice che lo fa anche lei a casa sua.
Però, nella lavatrice, i panni sporchi lei ce li mette.

Un mese di luglio in cui stavo in commissione di maturità fuori Roma, perdevo tutti i giorni l’autobus che portava dalla stazione di Latina Scalo a Latina perché il mio treno partiva sempre in ritardo e l’autobus non lo aspettava.
Questa cosa mi faceva diventare matta.
Quando domandai al capostazione perché il treno non partiva mai puntuale, quello mi rispose che aveva troppi treni da far partire e che non poteva stare appresso a tutti.
Stamattina in banca, previo appuntamento, mi hanno risposto come il capostazione.
Non si riesce a parlare con loro al telefono perché hanno troppe telefonate e non leggono le mail perché ne ricevono troppe.
Ho detto vorrei la mia carta di credito, ce l’avete voi.
Ci si sono messi in tre, perché l’addetto alle carte di credito non c’era.
Hanno tirato fuori da un cassetto un mucchio di buste e hanno cominciato a guardarle.
Le guardava pure quello che apre la porta e ne guardava una sì e tre no.
Ho aspettato più di un’ora.
Mi hanno detto «Non si trova», mi hanno consigliato di bloccarla perché così me ne danno una nuova.
Ma come faccio a bloccare una carta di credito che avete voi.
Le buste non erano in ordine alfabetico.
L’ordine alfabetico appartiene a un mondo superiore, razionale, cartesiano come l’account di sessuologia.
Tale e quale al supermercato, dove le buste con i premi, ovvero il denaro, delle tessere punti stavano tutte messe per aria.
Niente.
Sono rientrata e mi ha telefonato quello della banca.
Mi ha detto «L’ho trovata».
Non avevo dubbi.
Ho chiesto se dovevo ricominciare tutta la trafila per l’appuntamento, ma no, mi ha risposto lui, tu bussi alla porta e te la diamo.
In banca ti danno del tu facilmente, come si fa con gli amici intimi.

Agli esami per anni sarebbe bastato guardare il libro per decidere in tre secondi il voto da dare allo studente. L’esame di storia dell’arte si fa sempre con il libro per via delle immagini.
E i libri sono sempre indecenti.
Ma come si fa a studiare su un manuale usato.
Ma non lo vedi, come è conciato, rotto, pieno di disegnetti orrendi, con le orecchie alle pagine.
La caratteristica dei manuali più recenti è quella di essere assistiti.
Come la pedalata o il suicidio.
I manuali sono tutti pieni di neretto, hanno già fatte le scalette che noi ci facevamo da soli, hanno i prerequisiti, sono talmente sintetici che lo studente alla fine sintetizza pure lui e dice tre parole di numero su un artista immenso.
Per anni ho fatto foderare il manuale, a Fashion Design con la carta da modelli perché corrispondeva a un codice del corso, dicevo almeno toccate il libro, siete obbligati ad aprirlo, a rigirarvelo fra le mani.
Uno studente medio non sa come si consulta l’indice, non conosce (manco lui) l’ordine alfabetico, non capisce il senso del corsivo.
Le sottolineature sono una croce a parte.
Tutti sottolineano tutto.
Se tu sottolinei tutto, è come se non avessi sottolineato niente.
L’altra settimana ho preso la scala e ho raggiunto nella libreria del mio studio la sezione libri scolastici.
Cercavo un manuale di storia moderna.
Ho provato a far finta di niente, ma non era il mio.
C’erano appunti a matita, freccette, caselline.
Sottolineature.
La scrittura non era la mia, nessuna delle tecniche di studio mi apparteneva.
Il manuale mi è sembrato bellissimo, senza scalette e con solo pochi corsivi, molto dettagliato, narrato, suscettibile di essere sottoposto a sintesi, con dei rimandi a bordo pagina che scandivano gli argomenti.
Una cosa seria.
Una volta contai in una letteratura tedesca quaranta pagine senza nemmeno un paragrafo.
Non è che così fosse più difficile studiare. Io mi ricordo benissimo tutto il lavoro di appropriazione del libro, gli schemi, le divisioni interne, mi ricordo i pezzetti di carta, che ancora non erano Post-it, con le date, attaccate dappertutto.
Evidentemente incapace di fare due più due, ho impiegato un giorno a mezzo a capire di chi fosse il manuale di storia.
Nel frattempo avevo avuto modo di ammirare la lucidità delle sottolineature, in una valanga di nozioni, notizie, informazioni, commenti critici, tutto ciò che era evidenziato era stato scelto limpidamente, seguendo un filo logico, niente di importante era stato trascurato, i concetti erano stati colpiti come bersagli, esattamente al centro.
I miei complimenti.
Dopo tre giorni che stavo lavorando sul manuale, una sera alcolica ho fatto una foto alla pagina iniziale del Congresso di Vienna, l’ho allegata a un WhatsApp e il messaggio diceva: «È tua questa roba, vero?».
Io che non esito mai, avevo esitato.
Comunque, era andata.
Quando tiri su la pietra, non sai mai che ci trovi sotto.

Fernand Khnopff, Memories, 1889

Se a questo punto della mia vita qualcuno mi chiedesse in una mia scala di valori rispetto a uomo, dove metto l’intelligenza, risponderei senza quasi pormi il problema più o meno all’ultimo posto.
Poi, però, ogni volta che in un uomo sfioro e sento l’intelligenza, concetto non dello tutto semplice da definire e sul quale dovremo tornare, è vero che, su dai, e come fai a non sentirti investito da un’ondata di luce, da un torrente che ti travolge, da una finestra che si spalanca come per un colpo violento di vento.

Come fai a non avere nostalgia.