Foto del mio viaggio di studio a Parigi, agosto 2019

Manger = mangiare. Se fossi un cibo, sarei un oeuf mollet, ovvero un uovo che non è à la coque, troppo infantile, proprio non ci tengo, ma che non è nemmeno sodo, stadio finale dell’alimento, non più reversibile.
L’oeuf mollet si fa così: per prima cosa bisogna portare l’uovo a temperatura ambiente; poi si mette un pentolino con dell’acqua sul fuoco; l’acqua deve essere bella salata, aiuterà a sgusciare l’uovo; si aspetta che l’acqua frema, con le bolle; a quel punto si appoggia delicatamente l’uovo su una schiumarola e lo si tuffa nell’acqua, sul fondo del tegame; si punta il timer a 6 minuti spaccati; quando il timer suona, si prende l’uovo con la schiumarola e lo si mette in una ciotola con acqua fredda preparata all’uopo.
Dopo poco si potrà sgusciare l’uovo agevolmente e lo si potrà mettere su un tagliere. Aprendolo in due per la lunghezza, rivelerà il suo segreto: compatto fuori, cremoso dentro.
Sono un po’ così, una dura dal cuore tenero.
E pure l’acqua salata mi sta bene, visto che non amo il dolce e che sono una piagnona.
Come sappiamo, le lacrime sono salate, lo dice pure una canzone.
Se c’è chi non è d’accordo con la mia presentazione, può sempre farmelo sapere e proporre altro.

Se qualcuno vi dice che a Parigi si mangia male, siete autorizzati a insinuare che abbia commesso qualche errore nella ricerca della sua tavola. A Parigi, con un po’ di accortezza, si mangia benissimo, basta vedere la quantità di brasserie con l’ardoise, che sarebbe la lavagna con scritto su col gesso il menu del giorno, che c’è in giro.
Se ricordate, anche il Café des Deux Moulins di Amélie, che esiste veramente ed è proprio come lo vedete nel film, proponeva dei piatti preparati dalla patronne, Suzanne.

Suzanne

Dolcemente claudicante, lei era stata danzatrice equestre al circo Médrano e aveva vissuto una romantica storia d’amore con il trapezista vedette, che le aveva giocato un brutto tiro, togliendole la rete e provocando l’incidente nel quale ha perso tre centimetri di gamba e chiuso la carriera.

Dunque, dicevamo, a Parigi non è difficile mangiare bene.
Quest’anno ho voluto fare l’esperienza del bouillon.
Stiamo parlando del brodo, ma anche dei ristoranti che lo servono.
Nati nel XVIII secolo, in quello successivo erano 250, posti a buon mercato, gioiosi, popolari, che scomparvero poco a poco nel Novecento.
Vicino al mio albergo è sopravvissuto il Bouillon Pigalle.
Ve lo presento.

Bouillon Pigalle

Può ospitare 300 persone ed è stato finemente riportato agli antichi fasti.
Esso è un magnifico esempio della décoration dei caffè parigini negli anni ’50 del secolo scorso.
Che ho mangiato?
Oeufs à la mayo  € 1,90; hareng pommes à l’huile € 4,50; frites € 2,50. Ovvero, uova alla maionese; aringa con patate all’olio; patatine fritte.
Vi ho messo anche i prezzi, così li potete riferire a chi vi dice che ha mangiato male e speso molto.
E il vino? Il quarto di Côtes du Rhône AOC, ovvero Appellation d’origine contrôlée, costa € 3,30; il mezzo, € 6,60; la bottiglia classica, € 9,90.
Lo stesso il Sauvignon IGP (l’equivalente della nostra Indicazione geografica protetta).

Bottiglia (vuota) del Sauvignon

Eccetera.
Simone de Beauvoir, che ha insegnato tanto tempo in province desolanti, sosteneva che in quelle situazioni bisogna procurarsi una querencia, ovvero un posto nel quale ci si sente al riparo da tutto, essendo la parola presa in prestito dal linguaggio della tauromachia.

È quello che io faccio sempre quando sono fuori casa.
E funziona, pure se sono in una metropoli che amo.
Non si finisce mai di sentirsi esposti.
Dunque, in questo mio viaggio di studio, il Bouillon Pigalle è diventato la mia querencia.

E non sto nemmeno a citare la quantità di ristoranti, ristorantini, pop up bistrot, posto effimero o spot foodista e via elencando che c’è dappertutto, il concetto è quello del très branché, dunque, molto, molto nell’aria del tempo, spesso con alla testa un giovane chef pieno di talento, che vuole farsi strada e farsi conoscere.
Allora, facciamo un pezzo di strada con lui e andiamo a conoscerlo.
Abbiamo tutto il tempo, rientrando, di intristirci su una ristorazione locale deludente.
Parlo per me, per la mia città, per come vivo io.
Insomma, parlo dal mio punto di vista, quello, però, per me più importante.

A Parigi si può fare anche l’esperienza della grande table, ovvero di uno di quei ristoranti in cui prenoti un tavolo sei mesi prima e paghi una cena per due con uno stipendio.
Poco male, se non lo avete ancora fatto, siete sempre in tempo, è la città giusta e non ve ne pentirete.
Il denaro va e viene, i ricordi di cene eccezionali rimangono, tutti e intatti.

Boire = bere. Se fossi un vino, non si scappa, sarei un rosé. Sono nata in primavera, stagione in cui si comincia a pensare di bere altrimenti, e il rosa ce l’ho nel nome, quindi, ci siamo.
E la Francia ha magnifici vini rosé, soprattutto in Provenza.
Questo tanto per completare la presentazione.

Nella prima parte del mio racconto della mia vacanza di studio di quest’anno, ho detto che in Francia il vino è una religione e che gli astemi sono dei reietti, aggiungo, spesso con problemi di contatti sociali.
Questo deriva da una sapienza enoica che conta un paio di secoli, dunque che è entrata a far parte della cultura, anche di quella popolare.
E questo significa che dove vai, bevi bene e che i supermercati hanno reparti dedicati al vino che sono una meraviglia, dove impari un sacco di geografia e dove vorresti provare tutto.
Per il vino, io sono di una adattabilità totale.
Non ho mai dormito in una tenda e do segni di fastidio se sto stretta, se sto scomoda, se non mi piace un posto, soffro di nostalgia di casa e di solito non vedo l’ora di tornare.
Dico sempre che, se fossi nella vita così adattabile come lo sono per i vitigni, sarei la persona più felice che c’è sulla faccia della terra.
Ma tant’è.
Voglio, comunque, provare tutti i vini di Francia, mi ci applico da anni, probabilmente non farò mai in tempo, però sono armata di buonissime intenzioni e pure stavolta, nel corso del mio viaggio di studio, ci ho dato dentro.

Faire les magasins = fare acquisti. Sono la donna più sobria che io conosca. Mi vesto sempre allo stesso modo, in una stagione mi bastano due paia di scarpe, mi affeziono a tutti gli indumenti che ho e di essi mi libero solo quando cadono a pezzi.
Non capisco quelle donne che hanno sempre bisogno di ulteriori calzature; che hanno sempre voglia di una maglia diversa; che non sanno mai che cosa mettersi; che devono variare borsa tutti i giorni; che cambiano parrucchiere ogni due mesi e non sono mai contente del taglio.

Praticamente non capisco le donne.

Dopo aver insegnato Storia della moda per otto anni, ho compreso che non era per me, che l’instabilità saturnina delle vittime mi infastidiva, che tutto assomigliava a un circo, che consideravo il 90% degli abiti ridicoli e importabili, che il gioco infinito di citazioni e rimandi mi tediava.
L’ho piantata lì e sono tornata a occuparmi solo della mia bella Storia dell’arte.
Però quando sono a Parigi vado per negozi.
E ci mancherebbe.
Una delle prima cose che ho fatto è stata andare a comprarmi di persona i cosmetici che di solito acquisto in internet. Mi sono presentata e ho detto buongiorno, sono la vostra cliente italiana e sono così contenta di essere qui da voi. Ogni volta che succede è una festa, quelle ragazze deliziose mi riempiono di attenzioni e di creme da provare. E io provo tutto.
Se devo essere addict, ci metto davanti la parola beauty, ecco, in questo sono aggiornatissima e non conosco limiti né confini e sono ben contenta di comprarmi l’ennesimo siero invece del golfetto.
La mattina dopo sono andata a vedere la nuova collezione di blue jeans della mia marca prediletta, svedese, a Palais Royal. 

Sono entrata dicendo vorrei provare una 29 vita alta skinny e sono uscita con una 29 vita alta cropped, me li ha proposti la vendeuse orientale,  mi piacevano e avevano i bottoni, che cercavo da anni.
Sono uscita dal negozio tutta contenta e me ne sono andata al Louvre con la mia bella busta rosa, preoccupatissima quando l’ho lasciata in guardaroba, visto che si trattava di cassette chiuse con un codice ma con il vetro trasparente, non sarà che qui a qualcuno viene in mente mediante effrazione di sfilarmi il mio nuovo, trendissimo acquisto?
Non ho messo i miei nuovi blue jeans in valigia, me li sono portati in cabina in aereo e li ho sorvegliati incessantemente.
Appena scende un po’ la temperatura, li inauguro.
Perché non li ho inaugurati subito?
Perché avevo addosso quelli che mi sono comprata lo scorso anno e non avevo alcuna intenzione di interrompere una relazione così privata e intima, casomai, se riesco a staccarmi e ad alternarli, sono a posto da qui al prossimo decennio.

Gli altri acquisti vanno nella categoria degli indispensabili.
Il tè, calze e biancheria, un gran bel cavatappi che loro chiamano, come è nella sua sintesi, sommelier, che è quello che ci vuole per battezzare adeguatamente una bottiglia.

Ho detto che sono una donna sobria e lo confermo.
Ma con alcune eccezioni veniali, che pratico in viaggio e che mi liberano per tutto l’anno da tutta una serie di incombenze mentali da cui non voglio essere importunata.

Sono andata a fare un viaggio di studio, che diamine, e non vi ho ancora raccontato quasi niente dello scopo principale della mia destinazione: vedere, capire, imparare, ammirare, respirare arte.

Con un po’ di pazienza, nella terza parte di questa mio piccolo trittico estivo, vi dico tutto.