Non pensavo che fosse difficile.
Semplicemente non pensavo che fosse.
Certo, più di una volta e da un pezzo mi chiedevo che cosa sarebbe stato di tutto il mio archivio di immagini, che oggi definisco sterminato e che ieri chiamavo insufficiente, nel caso mi fosse successo un guaio di salute, che so, se mi fossi trovata nell’impossibilità di usare la voce per la mia professione.
E mi rispondevo e mi dicevo che sarebbe stata una situazione molto triste e difficile ma che, trattandosi, in quel caso, di salute, avrei avuto ben altro per la testa.
Comunque, eccomi davanti al fatto.
E senza avere il problema di dover chiudere a causa di un imbroglio grave.
Semplicemente, si chiude e basta perché si passa ad altro.
Dovrei essere contenta.
Dovrei.
Da un pezzo faccio uscite con lezioni e conferenze mettendo tutte le immagini su una chiavetta che ripongo con cura da una parte, astuccio, tasca della mia borsa.
E come va?
Decentemente, mi pare, non so dirvi di più, casomai chiedete a coloro che mi seguono stando in aula, in sala, o dove altro stanno quelli che mi seguono.
Poi, però, le mie lezioni più belle ho continuato a farle usando le mie diapositive, anche al di là del tempo massimo offerto. Si fa per dire. Sì, perché avevamo fatto un discorso chiaro con il mio fotografo, il quarto della mia storia professionale e, senza far torto a nessuno, il più bravo, che mi aveva posto un limite: quando non ci sarà più pellicola.
Ma la pellicola ha continuato a esserci.
Anzi, c’è stata anche una specie di recrudescenza, per cui (io seguo il cinema) tanti registi si sono rimessi a usarla e a rilasciare interviste, non è che ce l’avessero con il digitale, era che la pellicola offriva tutta una gamma di possibilità, anche fisiche e sociali, il cinema è una cosa che si fa in tanti, no? e la sera rientrare ciascuno nella sua stanza di albergo e visionare un dvd sul computer era una cosa ben diversa dal rito collettivo, anche tecnici, truccatrici, costumiste potevano vedere il risultato del loro lavoro.
Come sappiamo, il digitale ha smaterializzato le immagini.
Forse ha pure indotto un qualche genere tutto suo di solitudine.
Ho anche parlato con i miei colleghi fotografi, pure lì la pellicola andava e veniva, insomma, questa specie di interregno sembrava poter durare in eterno.
Usare le diapositive voleva dire in primo luogo scegliere il materiale e portarlo dal fotografo: libri, riviste, ritagli di giornale, cartoline, brochure, la provenienza del mio repertorio è da sempre variegata. E il solo fatto di maneggiare tutta quella roba, prendere il blocchetto dei post-it, scriverci sopra, in caso, una nota, non tagliare, vedi se riesci a farci entrare tutto, molto importante, due scatti per sicurezza, creava una relazione.
Poi c’era l’attesa, almeno un mese. Gli scatti, lo sviluppo fatto in un laboratorio in centro Italia, il ritorno al mittente.
Poi la telefonata, è tutto pronto, puoi passare.
Seguivano giorni di lavoro, numerazione, etichettatura, scatole su scatole, ore passate al visore.
Quando arrivava il momento di preparare la lezione o la conferenza, si era ormai creata una familiarità tale con l’argomento da aver generato tutta una serie di idee.
Inoltre c’era il contatto fisico.
Inoltre c’era il rumore dei telaietti uno contro l’altro.
Inoltre c’era sempre una specie di magia, una cosa inconsueta, che si presentava immancabilmente e che non sono mai riuscita a spiegarmi: quando dovevo scegliere la direzione da far prendere al discorso, mi mettevo in ascolto. Mi alzavo dalla mia scrivania e mi facevo un giro là dove stavano le diapositive: parecchi scaffali della mia libreria di riferimento, armadio in un’altra stanza, scatole infilate altrove, tre carrellini fra i quali dividevo i diversi impegni professionali.
Io mi mettevo in quello stato d’animo e, puntuale, a un certo punto si scatenava una specie di magnetismo, sapete quando sentite che qualcuno vi sta guardando e i suoi occhi vi bucano la schiena, ecco, a me accadeva regolarmente che una, due scatole di diapositive mi balzassero incontro, proprio come i cipressi di Carducci.
Insomma, se saltavano gli alberi, che notoriamente hanno radici, non si capiva come non dovessero saltare la scatolette tutte piene di arte, l’arte, si sa, è mobile per definizione e essenza.
Le scatolette mi balzavano incontro e mi dicevano facci prendere aria, mettici in mostra, raccontaci.

Mi divertivo a preparare lezioni in questo modo? Moltissimo.
E sono anche sicura di aver fatto per anni lezioni non allineate, poco banali, mi sono occupata di tutto, una quantità parecchio aperta di periodi cronologici, poi il resto, architettura, design, arti applicate, restauro, moda, stoffe, fumetti, cibo, vino, musei, allestimenti, cinema, pubblicità, parecchia roba al femminile, ma a modo mio, ho fatto anche svariate incursioni in Oriente e chissà quante altre cose che adesso non mi vengono in mente.
Non ho mai vissuto una sola lezione come una routine.
Ogni volta ho cercato di fare una cosa diversa e migliore di quella precedente.

E adesso?
Adesso, non voglio pensarci. Già mi sono infilata in un labirinto di inciampi tecnologici, programmi da scaricare, salva l’immagine così, ingrandisci il particolare ma solo se siamo su formati considerevoli.
Una cosa stancantissima.
E poi mi stanca moltissimo anche usare il cervello in un altro modo, non sono nemmeno capace di spiegarmi con chiarezza, è come se nella mia testa si stesse creando un’inversione, prima procedevo dall’argomento all’immagine, adesso viceversa, metodo che non apprezzo quasi per niente perché, di questi tempi, significa non uscirne vivi e rischiare di fare cose scontate e piatte.
Insomma, il mio computer deve continuare a fare quello che gli dico io, non può decidere lui che taglio dare a un argomento.

A parte l’aspetto metodologico, che conto di sciogliere, almeno lo spero, che cosa ci faccio con tutte le mie diapositive?
Me ne libero.
Me ne libero e le butto, perché altrimenti non ha senso.
Le butto e qui mi sono resa conto della portata della faccenda: gigantesca, una cosa che mi sembra superiore alle mie forze.
Ogni scaffale della libreria di riferimento contiene kg 5 di materiale. Ho pesato il primo sacco, ho dovuto rinforzarlo, ho cominciato l’evacuazione dalla parte di archivio che mi stava antipatica: immagini sfocate, da usare in emergenza, scatolette pasticciate dalla fretta, coperchi rotti, etichette poco scientifiche.
Poi. Le scatole delle scarpe. Tutte foderate di carte che mi erano piaciute e con i titoli scritti sulle etichette in rotolo con il pennarello.
Inutile dire che, avendo messo insieme tutta questa roba in anni e anni di professione, lo stile non è unico, i formati variano, è perfino cambiata la scrittura.
Poi le scatole di metallo, con lo spazio per infilarci dentro, tutto bello, il biglietto con l’argomento.
Poi le altre scatole: di cioccolatini che mi hanno regalato; della tipografia; delle confezioni di saponette; dei cosmetici che mi arrivano via internet; ho perfino una superba raccolta di moda anni ’50 che ha trovato alloggio dove prima c’erano i pomodorini del piennolo del Vesuvio: D.O.P.

Come sto? Non sto e non voglio stare perché, se stessi, starei malissimo.
Anzi, non voglio nemmeno parlarne e non capisco perché mi sono messa a scrivere questo articolo. Anche se so che lo sto scrivendo per staccarmi e per ringraziare.
Ho già fatto qualcosa di simile quando ho vuotato casa completamente, fatto abbattere un soppalco, venduto quello che potevo vendere, tenuto solo quello che mi piaceva e che mi serviva.
Ricordo perfettamente che quando vidi la casa tutta ridipinta, pulita, con i muri intatti, decisi che non avrei attaccato più nemmeno un quadrettino e che avrei fatto il possibile per mantenerla sgombra.
Poi è ovvio che la vita e il suo disordine hanno ripreso il sopravvento, però mi è rimasta l’idea che si possa fare spazio.

Quello che sto facendo.
Pensavo di impiegare dieci giorni ma penso che mi ci vorranno un paio di mesi.
Più tolgo, più esce fuori.
Non guardo. Anche se l’altro giorno si è sollevato il coperchio di una scatola mentre stavo al cassonetto (materiali non riciclabili) e ho visto un paio dei miei artisti prediletti (io, gli artisti, li prediligo quasi tutti e quasi di tutti mi innamoro) e ci ho pianto sopra tutta la sera.
Ma non si fa. E non lo faccio.
Butto tutto e non tengo niente e non regalo niente a nessuno perché di tutto sono gelosissima.
Non tengo e non regalo nemmeno le diapositive di vetro bellissime, pesanti, che mi hanno dato parecchia ispirazione e che prendevo tutte le volte che le trovavo in vendita, soprattutto nei musei meno aggiornati.

Ci stiamo aggiornando pure noi, no?
Dunque, aggiorniamoci.
Da un po’ mi viene da ridere quando penso al ciclo di Burri Annottarsi, che, oltre a essere un viaggio sontuoso nel nero, ha con sé anche il senso dell’ironia, tutti si aggiornano e io mi annotto.

Mi dico che forse dovrei chiedere aiuto a un estraneo, a qualcuno che non provi i miei medesimi sentimenti.
Ma preferisco fare in prima persona.

Inoltre mi ritorna continuamente alla memoria una cosa letteraria di cui ho dimenticato la fonte, uno scambio fra due innamorati che si lasciavano, con lui che chiedeva a lei: «Ditemi che cosa volete che faccia delle vostre lettere» e lei che rispondeva: «Bruciatele e vi ci scalderete tutto l’inverno».

Potessi bruciare anch’io le mie diapositive, poco per volta, e utilizzarle per scaldarmi, sbirciando, inevitabilmente, qualcosa ogni tanto, lo farei.
Ma non ho il camino.
E il materiale non riciclabile brucia malamente.

E poi è quasi finito il freddo e dappertutto sento che entra la primavera.