Louis-Michel Van Loo, Denis Diderot, 1767

Al filosofo, ed enciclopedista, il ritratto non piacque e accusò l’amico Van Loo di averlo fatto «ammiccante, sorridente, affettato, con l’aria di una vecchia coquette che fa ancora l’amabile».
A me invece sembra un bel ritratto, realistico, intimo, che ci mette davanti al lavoro quotidiano di questo intellettuale proteiforme. Mi dispiace, però, che lui, qui piuttosto elegante, non abbia addosso la sua vieille robe de chambre, ovvero quella vestaglia  che, ci ricorda l’amata Francesca Rigotti, anche lei filosofo, lui utilizzava per scopi diversi: spolverare i libri, asciugare l’inchiostro, stare vestito e, se serviva, al caldo.
Sappiamo che l’indumento non gli dava alcun fastidio.
Ma, evidentemente, doveva essere molto rovinato se un giorno Madame Geoffrin, donna brillante che animava un salotto molto frequentato dagli enciclopedisti, gli regalò una nuova vestaglia.
Diderot doveva fidarsi della signora, al punto  da sostituire la vecchia giacca da camera con quella nuova.
Non l’avesse mai fatto.
«La nuova giacca, rigida e inamidata, lo fa sembrare impalato come un manichino. Sulla vecchia giacca si vedevano lunghe tracce nere d’inchiostro, segno dei servigi che l’abito gli aveva resi: erano tracce che denunciavano l’attività di scrittore».
Ora, si lamenta lui, sembro un ricco fannullone.
Che l’abito fa il monaco, lo sappiamo tutti.
E tutti abbiamo una relazione sentimentale con gli abiti del nostro guardaroba. Io, personalmente, ho una vestaglia che sta per rendere l’anima e che, proprio per questo suo stato ormai irreversibile, mi ha fatto tornare in mente la storia di Diderot.
Non ci lavoro, ma la indosso la mattina a colazione.
Il fatto è che fra un po’ non la potrò più indossare e chissà se riuscirò a finire la stagione. Già un paio di anni fa, io ero alla stazione con la cartella e il resto, mi chiama al telefono il titolare della mia lavanderia tutto preoccupato e mi dice che la vestaglia che gli avevo portato, esaminata controluce, era lisa in più punti. Certo, lo sapevo, però pensavo che si potesse ancora lavare. E, quella volta, così fu.  Riuscii anche a far restaurare la cintura dalla signora del mio negozio di biancheria.
Certo che ho altre vestaglie, un paio splendide da occasioni diverse, però non riesco a staccarmi da quella mia prediletta. E, soprattutto, non voglio fare come Diderot, che, in un evidente moto di entusiasmo per la novità, si è infilato in un guaio e ha «infranto il sogno dell’unità della persona e della sua attività, dell’uomo e del filosofo».
Insomma, una cosa non da poco.

Nella mia casa ho una stanza interamente dedicata al guardaroba. La dimensioni non sono gigantesche ma esso è, a tutti gli effetti, un ambiente autonomo, l’unico, inoltre, con la carta da parati: inglese, dall’Inghilterra è arrivata, non vi sto a raccontare attraverso quali attese e traversie.
Naturalmente, di quello che ho in guardaroba non indosso quasi niente perché niente mi importa degli abiti.
La mia vita, a un certo punto, ha fatto un detour e per un periodo piuttosto lungo mi sono occupata di acquisti e di negozi, ho anche insegnato Storia della moda per otto anni, durante i quali per forza di cose mi sono tornati alla mente tutti gli indumenti che avevo avuto, indossato e amato in vita mia. Anzi, vi dico pure che il fatto che riaffiorassero alla memoria capi sepolti e che mi comparissero davanti agli occhi in tutti i loro dettagli, un bottone, una chiusura, una sensazione particolare della stoffa sulla pelle, mi è sembrato un segno della buona qualità di quello che stavo facendo.
Poi, sono ritornata alla casella di partenza.
Da ragazza, a ripensarci, avevo un guardaroba molto limitato e indossavo sempre le medesime cose, ricordo un paio di blue jeans comprati a quindici anni e portati allo sfinimento.
Praticamente, quello che sono tornata a fare adesso.

Carolus-Duran, La femme au chien, 1870

Apprezzo molto le donne eleganti, conosco signore che si cambiano tutte le volte che escono, mattina, pomeriggio e sera. Quando Carolus-Duran lusingava con i suoi ritratti le belle dame di Parigi, sappiamo che una donna à la page si cambiava fino a otto volte al giorno. Praticamente una vita impiegata a cambiarsi.

Negli anni ’70, lo dice Valentino, quattro volte erano il minimo.
Io, per me, funziono con un abito per tutte le stagioni, non sono frivola, non sono scissa, so sempre che cosa indossare perché indosso sempre le medesime cose.
Effetto Tenenbaum, insomma.

Richie e Margot Tenenbaum

Già Wes Anderson è un maniaco, sempre. (Certi maniaci sono proprio simpatici).
Usa tavolozze cromatiche, composizioni simmetriche, è attento in modo ossessivo a ogni dettaglio. Qui crea il personaggio proprio attraverso l’abito, che cambia di rado, per cui, come nella commedia dell’arte riconosciamo gli interpreti da quello che indossano, qui riconosciamo, per esempio, Margot dalla pelliccia, dai mocassini e dalla Birkin di Hermès, cioè da un abbigliamento borghese in contrasto con il suo carattere ribelle. Aggiungo che lei si veste così da quando aveva dodici anni (io, da un po’ più tardi). Richie si veste con la panoplia del tennista, visto che campione di tennis è stato. Quindi, fascia alla Borg e polsiere, ma coordinate con un abito cammello di quelli che porta volentieri il regista e maglie Lacoste fatte appositamente. Tutti i figli di questa famiglia sono stati dei bambini prodigio e sono diventati degli adulti falliti. Il loro abito, immutabile, sembra essere l’unico punto di ancoraggio di cui sono in possesso.
In questo senso sono una grande sostenitrice dell’uniforme, che ti salva da tutto e che ti dà il tempo e la libertà di pensare ad altro.
«…un’uniforme, l’abito più attraente che un uomo possa indossare: vi impedisce di peggiorare il vostro aspetto se avete cattivo gusto. E siete liberato da un’altra decisione: quale cravatta scegliere. Le ragazze di fidano di voi». (Marlene, chi altro).
A questo proposito, il fatto che le donne stiano sempre a lamentarsi di non sapere che cosa mettersi e che ciò sia dovuto, secondo qualcuno, alla posizione dei loro organi genitali, interni, quindi, non visibili,  trova in me una sostenitrice entusiasta.
Gli uomini, che, come sappiamo, sono fatti diversamente e che vedono tutto ciò che hanno a disposizione, questo problema non ce l’hanno. Almeno gli uomini sani, perché se pure loro cominciano a farsi contagiare dalla febbre del guardaroba sempre insufficiente, allora bisogna ritornare sull’argomento.
Non mi piacciono gli uomini sciatti, però quelli fatui mi esasperano. Del resto le regole di abbigliamento maschile sono ben più rigorose di quelle femminili e questo almeno da quando, cioè dall’Ottocento, i mariti hanno cominciato a vestirsi tutti di nero e a lasciare alle loro mogli, o a chi per loro, il compito di rappresentarli.
Gente seria, insomma.
Ma del nero abbiamo già parlato, e ampiamente. Se volete ripercorrere queste tracce, in bilico fra arte e sentimento, potete leggere qui.

Indiana Jones

Arancia meccanica

Oggi noi ci occupiamo di altro.
Noi indossiamo quello che siamo.
Questo lo sanno molto bene, per esempio, i costumisti, che costruiscono l’identità attraverso gli abiti.
I vestiti rispondono a più necessità: definizione del personaggio, progressione della narrazione, fedeltà al periodo storico. E spettacolo, naturalmente, visto che, come sappiamo, alcuni abiti diventano iconici e rimangono nella memoria.
Per non parlare del rétro radicale, con donne intelligenti e nell’aria del tempo che parlano con desiderio degli abiti di Scarlett O’Hara e persone che frequentano serate di ballo in costume che  si dedicano alla ricerca della nuova sottogonna con cura professionale.
Filologia o carnevale? Non lo so e non ho la risposta.
Indiana Jones  lo riconosciamo tutti e lo citiamo per la giacca di pelle, il Fedora e la frusta.  I cattivissimi droogs di Arancia meccanica, chiamati in italiano drudi,  sono abbigliati in bianco, nero e copriscroto, proprio come si meritano.

Marie Antoinette

I colori dei costumi di Marie Antoinette hanno ispirato nuovi colori per i dolci della notissima maison francese che ha fornito gli approvvigionamenti.
La replicante Pris di Blade Runner è abbigliata in perfetto stile apocalittico, con le calze stracciate che non tolgono un’oncia alla sua bellezza.

Blade Runner

Portano molto bene la vestaglia gli artisti in camerino e alcune attrici sullo schermo.
Prima fra tutte Marlene Dietrich, che passa con disinvoltura dalla divisa militare a  dressing gown  facilmente confondibili con abiti da sera: la vita come guerra o come festa, continue, l’una e l’altra.  Sorprendentemente assennata, la diva suggerisce a una donna di non seguire la moda; di non comprare vestiti verdi, rossi o di altro colore sgargiante; di mettere in guardaroba il nero, il blu e il grigio;  di non acquistare cinque vestiti al prezzo di uno e nemmeno stoffe di poco prezzo.

Marlene in guerra

Marlene in pace

«Non dire che  non ti puoi permettere un abito di buona stoffa: risparmia e compratelo».
Eccoci servite tutte, niente smania d’acquisto, niente vittime fashion,  niente religione dell’outlet.
Anche se leggo con gusto un’intervista a Violette, diciassette anni, che compra soprattutto di seconda mano e che mette da parte il suo denaro per un capo coup de coeur. Si definisce «molto sentimentale» perché quando trova qualche cosa che le piace è molto felice e dice che quello è un modo per esprimere la sua creatività. Cerca inoltre di fare delle esperienze di abbigliamento perché, nella vita, a che serve annoiarsi?
Mi sono ritagliata l’intervista e ce l’ho sulla scrivania.
Che cosa c’è di bello in essa? Soprattutto il nodo della noia, che esce alla fine ma che è combattuta dall’esordio con la passione per la moda.
E poi sono belli i sentimenti, per cui un abito che ci piace ci rende felici, proprio come un incontro interessante.
E può accadere anche il contrario. La tristezza di dover dire addio a un indumento con il quale abbiamo fatto un pezzo di strada e che ci è stato fedele, è stato messo in valigia e portato in viaggio, ci ha reso un servizio quando ne avevamo bisogno.
Si dice mettersi nei panni.
Alcuni nascono con la camicia e sette camicie si sudano.
Si tira per la giacchetta e si corre dietro alle gonnelle.
Dio manda il freddo secondo i panni. Almeno dovrebbe.
Le metafore tessili della lingua sono infinite:  siamo tesi, tirati, abbottonati, non facciamo una piega, tessiamo lodi e inganni, intrecciamo conversazioni, la nostra vita ha una trama, proprio come un romanzo.

E a me dispiace buttare al secchio la vestaglia vecchia e ogni mattina penso che è l’ultima volta, poi penso a Diderot, che è stato imprudente, e mi dico che forse la vestaglia dura fino a primavera, che forse ce la fa ancora un po’ a resistere, a farmi compagnia.
E a tenermi calda, tutta, compresi i sentimenti.