LETTERA DA UNA PROFESSORESSA

L’aula non è nemmeno del tutto male.
In vita mia ho avuto aule terribili, lunghe e strette, per cui oltre la quinta fila di studenti era tutto un magma informe, non capivi se dormivano, si drogavano, certo è improbabile che stessero a sentire; larghe e corte, con le ali laterali completamente fuori controllo, ce li avevi praticamente dietro le spalle.
Aule dove non si sentiva niente. Una di queste veniva usata anche per i consigli, erano mattine paradossali, non capivi mai quello che dicevano dal tavolo in fondo.
A pensarci bene, in tutta la mia carriera a contatto con la storia dell’arte, dall’una o dall’altra parte, non ho mai visto un’aula adeguata.
Anche quando ho fatto l’università io, in quello stanzone sobrio e rigoroso c’erano solo tre file di sedie con un tavolino sul quale potevi scrivere e una lucetta che si poteva accendere. Tutto il resto era ti arrangi, e si arrangiavano tutti, portandosi lumini dell’intensità di quelli del camposanto e un supporto rigido sul quale appoggiarsi per prendere appunti.
Gli altri.
Perché io arrivavo sempre con un’ora di anticipo, le lezioni di storia dell’arte erano diventate il centro della mia vita.
E mi prendevo quello che consideravo ormai il mio posto. Mi sistemavo a uno dei tavoli completi di dotazione luminosa, quello era diventato il mio mondo.

Qui il problema sono i tavoli, tutti da disegno, quindi enormi, ingombranti, ci si potrebbe mangiare seduti in otto, si mangiano loro tutto lo spazio, non ci sono le sedie, non ci sono gli sgabelli sufficienti.

Sulla cattedra troneggia un Apple super sleek, appena acceso c’è una catena di montagne innevate, chissà perché questi desktop sono sempre così impersonali, chi se ne importa del paesaggio, piazziamoci una bella opera d’arte. Ma si vede da subito che la risoluzione è brillantissima, lo voglio pure io, quando esco vado a comprarmelo.
Ma forse ho spese più urgenti.
Faccio una breve introduzione, fuori il giorno ormai è andato, la cosa che preferisco dell’aula è la finestra, che non saprò mai su che via affaccia perché per via dell’incastro dei tavoli non riuscirò mai a raggiungerla; ma è grande e inquadra l’angolo del palazzo contiguo, con una facciata che, con il calare del buio, assume toni di un rosso pompeiano che da solo incendia il tramonto; e l’altro lato, dove sono arrampicate delle finestre che fanno un po’ bohème e un po’ appartamento in centro da due milioni e mezzo di euro.
Non ci sono tende.
A me le tende piacciono molto ma in questa situazione starebbero male. C’è una finestra più grande e due finestrelle piccoline, oggi tutte le luci sono accese, chissà chi ci abita, forse uno di quegli inetti televisivi che poi vogliono la casa in centro.
Quanto guadagna uno di loro.
Quanto guadagna un professore.
Comunque a me casa mia sta benissimo. E poi ho pure le tende.

Non troviamo il telecomando del proiettore.
La bidella dice che è sparito stamattina, forse se l’è portato via un collega per sbaglio.
Uno degli studenti si fa venire una botta di genio, esce e rientra con lo spazzolone per lavare i pavimenti. Per cui, in quella situazione (parzialmente) Cape Canaveral, riusciamo ad accendere il dispositivo, che sta in alto, pigiando il tasto con il manico dello scopettone.
Da subito ribattezzato «il telecomando».

Attacco.
C’è tutto un gruppo di maschi che è arrivato in ritardo e che si è ammassato in fondo. Con il risultato che maschi e femmine sembrano olio che galleggia sull’acqua.
Non mi piacciono i corsi con un solo genere: solo maschi fa spogliatoio di squadra di calcio. Solo femmine, pollaio.
Ma oggi non riesco a risolvere l’impiccio, avanti non c’è più spazio.
E poi, attacco.
Figuriamoci se c’è un microfono. In televisione quegli inetti hanno quei cosetti potentissimi e quasi invisibili. Io, come al solito, ho solo le mie due corde vocali, che speriamo reggano tutto l’inverno.
Attacco come faccio da un paio di anni, sempre.
Mando Rembrandt, La lezione di anatomia, e Rubens, l’Autoritratto con Isabella.

Rembrandt, La lezione di anatomia, 1632

Mi servono entrambi per motivi diversi. Per prima cosa mi fanno esotico, ma l’esotico che piace a me, non quello della spiaggia con le palme. Poi mi servono per far capire quanto una foto di gruppo (in questo caso è un ritratto) possa essere movimentata e magnificamente  disposta se a comporla c’è un grande regista. Le foto di gruppo hanno un codice espressivo, pensiamo a come si fanno ritrarre le squadre di calcio, in piedi i giocatori che stanno dietro, accucciati con in mezzo il pallone, pure lui protagonista, quelli davanti.  Se tu lasci i calciatori senza indicazione alcuna, quelli sembrano tutti dei baccalà, rigidi e, finché non li hai ben battuti, immangiabili.
Rubens mi serve perché qui fa un ritratto di coppia. Ben diverso da quelle foto insulse che si vedono su Facebook, lui e lei, certe volte lui e lui, altre, lei e lei, anche con indicazioni erotiche.
Ma guardate qui come si fa. Anzi, avanti, voglio da ciascuno di voi una parola, una sola, che esprima il sentimento che c’è in questo dipinto.

Il ghiaccio si rompe lentamente, finalmente esce fuori «complicità», poi «eleganza », io chioso «orgoglio della propria situazione», guardiamo le mani, anzi, prendetevi, prendiamoci tutti per mano, tocchiamo, ciascuno di noi, la mano dell’altro, sentite il contatto, sentite l’intimità, sentite il calore, mettiti una mano sulla coscienza, dammi una mano.
Uno dei ragazzi ride: ma quanto deve essere scomodo quel colletto.

Sir Peter Paulus Rubens, Autoritratto con Isabella, 1610

La lezione ormai ha preso il largo e naviga in mare aperto.
Gli studenti ridono a una battuta, ne fanno loro, se si comincia a ridere insieme, è fatta.

Ripeto le mie regole, non ci si stira individualmente, ci si stira tutti insieme a metà lezione, quando è possibile anche emettere urla belluine, seppure brevemente.
Non ci si sventola, non solo perché è il 21 novembre e allora a luglio che facciamo, ma perché sventolarsi è inelegante, fa caldo, si lamentano, non me ne importa niente, imparate a vestirvi a strati, in aula potete togliervi una maglia, e poi non riesco a fare lezione a gente che si sventola, o che si mangia le unghie, o che rotea la testa sul collo, mi sembra di stare nel reparto alienati del manicomio, e poi imparate a sopportare il caldo, ho avuto un direttore donna che si sventolava tirandosi su la gonna e agitandosela davanti alla faccia, rimanevo esterrefatta, sventolarsi fa subito vaiassa, devo ricordarmi che non sto più a Napoli e che sarà il caso di tradurre quello che là andava liscio e arrivava in porto.
Voglio vedervi scrivere, voglio vedervi usare tutto il corpo perché la relazione fra penna, o matita, e foglio di carta è ben diversa da quella che abbiamo con la tastiera.
Voglio che prendiate appunti.
Mi rendo conto della bestialità della mia richiesta, in aula è tutto buio, riescono a scrivere solo i ragazzi della prima fila, che usano la luce dello schermo.
Devo organizzarmi e cominciare a portare io qualche lucetta.

Rembrandt e Rubens mi servono anche a prendere il polso della conoscenza che hanno gli studenti della storia dell’arte.
Come al solito, un disastro.
Non so dove attaccarmi (non fate battute deficienti), da qualche parte devo attaccarmi perché la mia è una disciplina che vive e respira di tutto il resto, provo col cinema, niente, Nouvelle Vague mai sentita nominare, racconto quel pezzo bellissimo de Le notti della luna piena di Rohmer, un film che ogni giovane donna dovrebbe inserire nel suo bagaglio esistenziale, in cui Octave racconta che, quando insegnava fuori Parigi, tutte le sere prendeva il treno per rientrare. Rientrava e si chiudeva in casa a sentire la radio.
Perché gli bastava pensare di avere a portata di mano tutta quella città, tutti quei ristoranti, quelle feste, quelle belle donne, quegli spettacoli.
Rientrava e si chiudeva in casa a sentire la radio.
(Praticamente quello che faccio io).
Voglio che sia chiaro il senso della grande città e delle potenzialità che racchiude per un ragazzo di vent’anni.
Diciannove, mi rintuzza Matteo in prima fila.
Che oggi, lo vedo benissimo, fa uno sforzo sovrumano per non mangiarsi le unghie.
Devo impararmi i nomi: Daniele, Roberta, Madalina, Eleonora, Nicole, Vittorio. Ho un nigeriano; una cinesina; una iraniana; una rumena.

United Colors.

Paul Gauguin, La visione dopo il sermone, 1888

Mando Gauguin. Lo riconoscono.
Voglio il titolo.
Pasticciano. Giacobbe, l’angelo, il sermone.
Quasi ci siamo.
La visione dopo il sermone (o La lotta di Giacobbe con l’angelo).
Parto dalla Bretagna, Francia, in alto a sinistra (ma lo sanno, dov’è la Francia?), racconto del gusto di diventare selvaggi, del rumore degli zoccoli, delle cuffie e dei grembiuli delle contadine.
Passo da Giacobbe, ma perché sta lì che lotta con l’angelo, è un personaggio biblico, dovete conoscere la Bibbia altrimenti non capite niente dei soggetti religiosi, e poi Il Cantico dei Cantici è il testo più erotico che mai sia stato scritto e sta dentro la Bibbia.
Giacobbe è spesso raffigurato in arte. Qui è ritratto quando, in viaggio, ha fatto passare il guado di un fiume a tutta la famiglia, compresi i carri e le bestie, ma lui resta sulla riva e, a un certo punto, comincia la lotta con un uomo misterioso. La lotta dura fino all’alba.
L’incontro è onirico, devo far passare l’idea che Giacobbe possa aver combattuto con se stesso, si dice è più forte di me, no? Si dice quando vogliamo sostenere che non siamo del tutto responsabili delle nostre azioni perché dentro di noi c’è un altro.
Funziona.
Primo grado: sto in aula, anima e corpo, e faccio lezione.
Aula = spazio sacro.
Lezione = tempo sacro.
Qui ci siamo solo noi, possiamo dire e fare tutto quello che vogliamo, Gauguin sostiene «il diritto di tutto osare».
Secondo grado. È saltato, rimandato, l’aperitivo da Buccone, quindi devo comprarmi il pane.
Terzo grado. Che bottiglie ho in frigorifero?
Qual era la situazione della mia cantinetta ieri sera.
Coraggio, guardate. Guardate, sta tutto lì.
Raddrizzo le bretelle a un ragazzo in fondo che dice che il dipinto è astratto.
Ma come fa a essere astratto, c’è pure la vacca.
Ne approfitto e colloco la nascita dell’astrattismo, Kandisnskji sta cronologicamente più avanti.
Ma, in un certo senso.
Di che colore è il prato.
Rosso.
Appunto.
È il colore del sentimento del prato.
Non dobbiamo stare a copiare dalla natura. L’arte è astrazione, anche se in un altro senso.
Ed ora facciamo un bel salto.

Mando David Shringley, dico, adesso aiutatemi a tradurre.
Ce la facciamo con un po’ di aiuto di tutti, comprese un paio di note sulla metropolitana inglese.
Quest’opera, che si esprime attraverso un manifesto collocato in una stazione del Tube, è fatta di niente. O meglio, di un’idea e di una citazione.
C’è la foto di un prato verde, una foto che ci sembra normale. Però a terra l’artista ha sistemato un cartello con su scritto «IMAGINE THE GREEN IS RED».
Ora, se tu hai visto e studiato Gauguin e il suo prato diventato rosso per un sentimento, capisci.
Altrimenti non capisci niente di quello che stai vedendo.
Qui l’artista ti invita a immaginare che il prato sia rosso.

Cindy Sherman, Untitled Film Still #21

Mando un selfie di una ragazza qualunque.
Mando Cindy Sherman, una che si faceva gli autoritratti fotografici in tempi non sospetti, fra gli anni ’70 e ’80.
Ormai la nostra barchetta naviga morbida e svelta in acque aperte, tutti intervengono, qui lei si è ritratta come una provinciale un po’ preoccupata che arriva nella grande città.
Benissimo.
Voglio che trattiate bene i libri, voglio che foderiate il manuale, metteteci sopra quello che volete, la carta da pacchi, il cellophane dei fiori. Questo atto vi obbliga a toccare il libro, a rigirarvelo fra le mani, ad aprirlo, guardate come è fatto un libro, c’è l’indice, ci sono i capitoli, guai a voi se vi trovo con i libri completamente sottolineati, sottolineare tutto equivale a non sottolineare niente.

Mi sembra che nessuno abbia tenuto lo sguardo fisso sul telefono.
Io ho dato ogni tanto un’occhiata al mio, che ho messo sul banco al quale mi appoggio, non riesco a muovermi quanto vorrei per via dell’incastro dei tavoli, mi piacerebbe molto fare avanti e indietro per l’aula e andare a vedere che cosa fanno i maschi in fondo.
Facciamo un patto per lo smartphone, usiamolo nel modo giusto.
Se dovete ricaricarlo, siamo in uno spazio comune, non è che dobbiate chiedere il permesso, ma fare un cenno di scuse, sì, a casa di un amico chiedereste «Posso?».
Se dovete uscire, ugualmente, vi chiedo di accennare un sorriso, siete tutti adulti ma non voglio un viavai continuo nell’aula.
Ammesso che si possa, incastrati come siamo nei tavoli.
A Napoli pensavo sempre certo che se c’è un’emergenza Vesuvio e dobbiamo scappare per via di un’eruzione come quella del 79 d. C., siamo tutti fatti, sepolti sotto una coltre di lapilli e cenere perché non riusciamo a districarci nelle aule.
Qui devo ricordarmi che stiamo a Roma e, per quanto appiccicati al Tevere, con tutti quei muraglioni è difficile che esondi.
Mi sono appuntata mentalmente gli argomenti che voglio affrontare.
Esco e me li scrivo.
Prendo una nota delle cose che voglio fare con questi ragazzi.

Dico è finita la lezione, dico firmate facendo passare il registro, dico ma se venite a lezione solo per firmare non voglio vedervi, a me delle firme non importa niente e non mi costringerete voi a occuparmene.
Infatti mi sono pure dimenticata di strisciare il mio badge, devo scusarmi con il Direttore e ricordarmi anche di questo.

Sospiriamo tutti insieme per la soddisfazione di aver ormeggiato la nostra barchetta.
Chiedo più energia, voglio sentire la soddisfazione della lezione conclusa.
Nuovo sospiro.
Dico che la storia dell’arte è una meraviglia e che senza di essa non c’è vita, senza la storia dell’arte, non c’è Accademia. C’è solo noia.

Non so se li ho convinti ma tornerò sull’argomento.

Abbiamo raccolto il denaro dei biglietti per l’Anteprima Giovani del Rigoletto all’Opera la settimana prossima.
Stasera faccio il bonifico al teatro e poi ci mettiamo d’accordo sull’appuntamento e il resto.

Fuori, nel buio ormai fitto della sera, le luci delle finestre del palazzo contiguo brillano. Hopper ci ha insegnato a occuparci delle vite degli altri senza essere invadenti, vorrei parlarne la prossima volta.
Siamo al secondo piano ma quello dell’Accademia è un palazzo antico, quindi siamo in alto.

Dico spegnete il proiettore e Vittorio impugna sicuro lo scopettone.
A noi, ormai, chi ci ferma.
Certo non sarà un telecomando a imbrogliarci sul sentiero della conoscenza e dell’arte.

Controlliamo con una delle mie deliziose ragazze che l’aula sia in ordine. Ringraziamo la bidella per lo scopettone e la cura dell’ambiente.
Prima ho guardato tutti i libri che Roberta si era appena comprata e che aveva messo nello zaino. Tutte cose bellissime, romanzi e saggi pieni di speranza e di progetti.

Scendiamo e nel Ferro di Cavallo la sera romana di novembre, umidissima di pioggia e gonfia di odori d’autunno, ci accoglie e ci protegge.

6 Comments

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  1. Condivido tutto…
    Che felicità

  2. …ma, soprattutto, che felicità conoscerti. Grazie, Sabina, di tutto: grazie

  3. Rino Squillante

    23 novembre 2018 — 0:35

    Ho sempre pensato all’arte come un enorme condominio, stanze, ripostigli, appartamenti aperti di rado, vicini scontrosi o gentili.
    Dietro ogni porta una storia, e ogni piano una stagione.
    Poi esci e diventa un libro.
    Ciao Rosella, un bacio.

  4. Vittorio e lo scopettone

    24 novembre 2018 — 23:24

    Grazie infinite per la pazienza che ha con noi e per questo racconto meraviglioso della nostra prima lezione di storia dell’arte contemporanea all’Accademia. Cercavo un professore che avesse passione e un metodo giovane, allegro, semplice, intrigante di insegnare e credo proprio di averlo trovato! 😀

    • Vittorio carissimo, per prima cosa grazie di essermi venuto a trovare sul mio blog. Poi, grazie ancora per la botta di genio dello spazzolone, come fanno le streghe con la scopa, noi cavalcheremo quello, e voleremo in alto. Sono anch’io molto felice del nostro incontro, un docente riesce a fare ben poco se non ha come interlocutori gli studenti giusti. Con i miei migliori auguri per i tuoi rinnovati progetti di studio e un arrivederci ai nostri importanti, prossimi, variegati appuntamenti

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