Una volta, da ragazza, feci una termografia, che, si capisce, è un esame diagnostico che si basa su qualcosa di caldo che emette il corpo.
A un certo punto il tecnico, giovane, mi chiede: «Ma, signorina, è vero che lei ha sempre freddo?».
E io comincio a preoccuparmi, questo come mi conosce, penso muoio, e non mi sono nemmeno laureata, questo mi dice che io sono una malata terminale e manco mi dà la possibilità di mettere un punto a tutti gli studi che ho fatto da quando avevo sei anni a oggi.
Dunque, soprattutto a causa di quell’enorme monte ore dedicato ai libri invece che, mettiamo, a un divertimento diverso, io gli chiedo: «Sì, è vero. Ma lei, che cosa ne sa?».
«Niente – mi fa lui – ma la macchina sta lavorando ai limiti delle sue possibilità».
Insomma, io ho sempre freddo perché ho la temperatura corporea alta, quindi sento molto la differenza con l’esterno.
Ma che simpatici. Lui e la macchina.
Insomma, uscii di lì, mi ricordo che era uno studio dalle parti di Corso Vittorio qui a Roma, cercando di orientarmi.
Fosse tutto lì il motivo per cui io, storicamente, stavo sempre malata, sempre con la febbricola da tisica, 37,2 fisso, anche al mattino, certo che me ne ero accorta, ci avevano fatto anche un film, altrimenti chiamato Betty Blu, insomma, proviamo a capire: muoio o no?
Se sto qui, morta non sono.
E, su consiglio di un medico smaliziato, a un certo punto ho trovato la cura, ho, cioè, buttato il termometro.
Di colpo, guarii, divenni sana. Altro che Lourdes. Ognuno ha i suoi miracoli. 
Dunque, personalmente, io ho la febbre solo se sale verso i 38°, per il resto, gli indici intermedi non li considero: alterazioni di temperatura, insomma, andiamo, mica vorrete da me una stabilità di sentimenti?

Sono figlia di una piemontese definita ‘calda’ (e mi chiedo sempre se il termine non abbia in sé qualcosa di  spregiativo), da qualche suo (e mio) parente.
Personalmente, sono una meridionale, e, da come si evince dall’inizio di questo articolo, ho pure qualche peculiarità per certi versi ingombrante: per esempio, sto bene a 24° e tremo di freddo ai 20, soffro il caldo come tutti, ma non do in escandescenze, anche perché lo considero volgare.
Come diceva Pitigrilli, la donna umida e calda; l’uomo, secco e freddo.
Bella scoperta. Forse che, diversamente, potrebbe funzionare?
(Vado a memoria, ma domani, anzi, stasera, attacco a rileggere il suo romanzo, che tempo fa mi piacque molto e mi aprì un’infinità di orizzonti).

Voi pensate solo alla temperatura sbagliata per il vino, il bianco tiepido, il rosso calduccio perché non si mette in frigo ma nella stanza c’è l’inferno.
Pensate al fritto misto che ha riposato troppo.
All’arrosto che ha sostato in eccesso nella casseruola.
Alla verdura che deve essere servita a temperatura ambiente e che invece esce giusto dalla padella.
Al miscelatore della doccia in albergo: quello che si lava per secondo, di botto, vede davanti a sé dispiegarsi tutti i colori dell’altro, e non è detto che li gradisca, casomai si scotta a ficcarsi sotto un’acqua a più di 38°, oppure gli viene in mente di avere a che fare con una persona tiepida, fosse solo perché si occupa dell’igiene personale a 37,2°.
La mia febbricola, insomma.
Una robetta, infatti, mi era sembrato.
Ah, la temperatura.
La fisica ci dice che essa regola «gli scambi spontanei di calore fra corpi».
E abbiamo parlato di scambi; e di spontaneità; e di calore.
E di corpi.
In meteorologia pensate alla sua importanza. Addirittura, è definita «costante» o «incostante».
Nella fisiologia, la temperatura è quello che abbiamo visto: normale, febbrile, alta.
Ma essa attiene anche all’operazione del temprare l’acciaio e la tempra stessa che esso riceve.
Temperare significa moderare, laddove dare la tempra, ovvero e per esempio, temperare l’acciaio,  il vetro,  significa rendere forte, insomma, tutt’altro.
Compreso il carattere. 
Per non parlare dell’atto quotidiano e frequente del temperare la matita, cosa che io faccio spessissimo, infuriandomi per la scarsa qualità, non so mai se della lama del temperamatite o della matita in sé.
Bella metafora della vita, no? Non si sa mai di chi è la colpa.
In questi giorni ho cercato in internet un condizionatore, dispositivo che non amo, perché mi fa sempre stare a disagio: sul treno devo coprirmi, al supermercato capisco che serva per i latticini e le verdure; ci sono dei cinema dove non ho più messo piede da che ho rischiato di prendermi una polmonite.
(E faccio notare che le persone che più apprezzano il grande freddo sono quelle che non scaldano le loro case d’inverno, che ti invitano a cena proponendoti la congestione e che se tu osi dire qualcosa, fanno finta di controllare il termostato, e ti mentono, e ti dicono ma strano, che tu abbia freddo, adesso mangi e ti scaldi, qui segna 17°, insomma, un bel calduccio).

Cercavo un condizionatore di dimensioni minime e senza tubo di scarico né impianti fissi. Da quello che ho visto, ho capito che è meglio un bel ventilatore, di quelli stile Casablanca, casomai meno cinematografico e archiviabile ai primi freddi.
Ah, il freddo.

Come una volta ebbi a sentire da una persona che aveva capito tutto, il mondo si divide semplice semplice: fra chi ha caldo e chi ha freddo.

Basta pensarci in questi giorni di temperatura, chiamiamola così, sensibile.