Camille Claudel, La valse, 1889-1905

La creazione parte da un vuoto. Se uno è troppo pieno, non c’è creazione. Se si immaginano Camille e Rodin lavorare insieme, chi ispira di più l’altro?

Juliette Binoche, intervista ai Cahiers du Cinéma, marzo 2013

Pagare tutto.
Non ricevere mai né uno sconto né un regalo.
Pagare il talento con l’allontanamento dalla famiglia.
Pagare una storia d’amore devastante, che sarebbe potuta pure andare diversamente (ma quante storie d’amore sarebbero potute andare diversamente), con una solitudine senza fine.
Pagare l’arte con il prezzo che di solito si paga per la follia: il manicomio.
E trent’anni di manicomio sono lunghi.
E poi arriva la morte e alla cerimonia funebre non si presenta nessuno e il povero corpo viene sepolto in un fazzoletto di terra destinato ad accogliere gli alienati.
E poi le ossa sono messe nell’ossario comune.
E non rimane traccia di Camille Claudel.
Anche se di Camille Claudel rimane la scultura.
E il ricordo.
Che oggi cerchiamo di ricomporre e organizzare: narrando.

Pietre che escono dal suolo come mostri. Camille Claudel nasce nel 1864 in una piccola località della Picardie, nel nord della Francia. Dalla sua casa si gode una vista a perdita d’occhio sulla regione.

La Hottée du Diable, Picardie

Il paese di Villeneuve-sur-Fère ha 301 abitanti, ma il talento, si sa, fiorisce dove vuole.
Lei ha un fratello più giovane di quattro anni che si chiama Paul, che diventerà uno scrittore, sarà un diplomatico, sarà un cattolico fervente.
Camille e Paul sono degli illuminati, diciamo pure degli esaltati, diciamo pure che Paul probabilmente è più matto di Camille.
Ma vallo a dimostrare in un momento storico in cui le donne della borghesia con le mani possono, al massimo, disegnare o suonare il piano.
Gli uomini, invece.
Comunque quelle pietre che escono dal suolo come mostri dalla vicina Hottée du Diable sono certamente ispiranti: sia per la scrittura che per la scultura.

Camille

«Vado a dormire tutta nuda per far credere a me stessa che voi siate qui». Si incontrano nel 1882. Lei ha diciotto anni, lui quarantadue.

Ma non è nemmeno questo, figuriamoci.

Sono i dieci anni che seguiranno, segnati da un’instabilità continua, da uno scambio spirituale tutto di livello altissimo ma venato di rabbia, di gelosia e di violenza.
Lui si avvia a diventare il più grande scultore della modernità, uno che può stare all’altezza di Michelangelo.

Auguste

Lei è dotata di uno straordinario talento, al punto che le è difficile essere considerata solo «la brillante allieva di Rodin» e che denuncia le ovazioni tutte dirette a questo uomo celebre, che le sono costate «gli occhi della testa», mentre, per lei, non è avanzato «niente di niente».
La loro relazione è ben più sfumata di quanto non racconti una certa letteratura, che si appoggia più sulle impressioni che sui dati storici.
Abbiamo le lettere e da esse si capisce che lui si innamora precocemente di quell’allieva che viene subito messa a fare pezzi difficili come i piedi e le mani di sculture monumentali.
Lei sembra resistere.
Ci sono problemi di denaro, lei è piena di coquetterie e tutto in lei rivela «la sua ossessione dolorosa per il suo lavoro di scultura».
Mentre accade tutto questo, l’influsso reciproco, lo spazio comune, l’evidente comunione delle anime (per non parlare di quella dei corpi) danno vita a una serie di opere incandescenti, nelle quali Eros divampa.
In questa produzione diventa difficile riconoscere lui da lei.

E lei da lui.

Buon per noi.
Anche se per lei il confronto deve essere stato un inferno, con lui che si accende: «Non rimpiango niente…ma la mia anima ha avuto la sua fioritura, tardiva, ahimè. C’è stato bisogno che ti conoscessi e tutto ha preso una via sconosciuta, la mia esistenza opaca è divampata in un fuoco di gioia…in ginocchio, davanti al tuo bel corpo, ti stringo».
E poi si spegne.
Lui non è libero e sceglierà di rimanere con la compagna di sempre, che sposerà poco tempo prima di morire, una di quelle donne semplici e servizievoli, che servono per la casa, per fare un figlio e per tenere in ordine l’atelier durante le assenze del Maestro.
«Monsieur Rodin, vado a dormire tutta nuda per far credere a me stessa che voi siate là, ma, quando mi sveglio, non è più la stessa cosa».
Lui è spaventato dalla violenza di lei, la fugge sebbene la ami.
Ha poca importanza, ma sarà lei la prima ad allontanarsi, sfogando in alcuni disegni caricaturali, espliciti e pungenti, il suo stato d’animo.
Le interpretazioni della conclusione della relazione amorosa fra i due artisti non rendono giustizia piena alla produzione di lei.
Che è capace di sublimare e di salire oltre l’aneddoto personale, come dimostra nella sua opera più nota, L’age mûr, L’età matura.

Camille Claudel, L’age mûr

Il gruppo evoca l’esitazione dell’uomo fra le due donne, quella che lo trascina via e l’altra, che lo implora di rimanere.
Ma evoca anche il Tempo che lo risucchia, è cioè un’allegoria della condizione umana, una meditazione sullo scorrere inarrestabile dei giorni,  rappresentato da personaggi nudi avvolti in drappi volanti, che accentuano il movimento.
Lui, l’uomo adulto, tende ancora una mano verso la giovinezza.
E la giovinezza, che era stata superba e orgogliosa, si è trasformata in una creatura implorante, alla quale viene strappata l’anima.
Quest’ultimo è il commento di Paul Claudel che, pure avendo lasciato la sorella in manicomio per trent’anni e avendole pagato, a tal fine, la retta, evidentemente non era incapace di capirla.

Comunque, qualunque interpretazione si voglia dare all’opera, resta il fatto che una donna ha voluto sfidare la Storia e il Genio.

E che ora ne paga le conseguenze.

«È una questione morale». Le attrici francesi sono sempre deliziosamente intellettuali, fanno discorsi, riflettono sul loro ruolo, avere a che fare con loro vuol dire calarsi in un pozzo di riflessioni e di ragionamenti.
Juliette Binoche considera Bruno Dumont «uno dei rari realizzatori francesi che hanno un cinema».

Bruno e Juliette

Lo cerca, vuole parlargli. Anche se lui non lavora mai con attori professionisti, non gli piace la recitazione.
E la recitazione, paradossalmente, non piace nemmeno all’attrice.
Il film che esce fuori da quell’incontro si intitola Camille Claudel 1915, è del 2012 e trova Camille in manicomio già da un anno e mezzo, mentre aspetta la visita del fratello.
Lei è stata strappata con violenza dall’atelier nel quale lavorava, sono, letteralmente, venuti a prenderla.
Il film non ha niente a che vedere con l’altro, interpretato da Isabelle Adjani (Camille Claudel, 1988) che, rivisto oggi, è molto meno brillante della prima volta, fatta salva la protagonista, che è bravissima a fare la rabbiosa e l’esaltata.

Isabelle e Gérard

Dumont ama i luoghi chiusi. Il manicomio, per definizione, è tale. Era impossibile girare nel vero manicomio in cui era stata internata Camille per le mutate condizioni esterne, ormai quella zona, un tempo isolata, era diventata molto commerciale.

Vincent, Il parco dell’ospedale di Saint-Rémy, 1889

Per caso hanno trovato l’ospedale di Saint-Rémy-de-Provence, situato ai piedi delle Alpilles, quello dove ha soggiornato Vincent van Gogh, anche lui sulla china della sua personale follia.
Quando si dice, il Caso e il suo essere divino.

Girano con malati mentali autentici, tutta la narrazione delle riprese è piena di note delicate e profonde e racconta il disagio, la fragilità, la destabilizzazione, come possiamo definirla diversamente, ecco: lo spiazzamento.
Camille e Paul sono due grandi oratori, due grandi intellettuali che maneggiano molto bene la parola.

Jean-Luc (Paul)

Pure lei che, se sta ricoverata, è perché è pazza. Strano, che i pazzi siano lucidi e capaci di articolare pensieri complessi.
L’attore che interpreta lo scrittore cattolico è un predestinato: Jean-Luc Vincent, laureato in Letteratura in una università di prestigio, ha letto molto Paul Claudel e lo ha analizzato e un bel giorno lascia tutto e comincia a recitare.
Ovvio che la parte è sua di diritto. Fra l’altro viene pure dal Nord.

Lei è paranoica.
(Lo siamo un po’ tutti).
Lei non vuole dare quello che le viene chiesto. Sa di essere una grande artista e, da reclusa, si rifiuta di scolpire. Vuole il suo atelier, l’atelier non le viene restituito, lei implora la madre di concederle almeno il fienile della loro casa, non disturberà nessuno.
La madre nemmeno le risponde.
La madre non l’andrà mai a trovare in manicomio.
La ferocia di certe madri nei confronti delle figlie la dice lunga sulle relazioni che le donne intrattengono fra loro.

Nel tanto e prezioso materiale che ho reperito nella mia rivista di cinema il regista dice cose che ci riguardano tutti, al di là del cinema suo e di quello nostro.
Dice che l’uscita fa parte del film. Che il frutto deve essere mangiato, che deve essere criticato, che la percezione dello spettatore fa parte dei suoi interrogativi.
Cita Proust, che diceva che non si scrive per la gente.
Cita un pianista russo, che diceva: «suono per me perché sono sicuro che, suonando per me, gli spettatori me ne saranno grati».
Dice che lui ha grande considerazione per il pubblico ma che non vuole sedurlo, è una questione morale.
Dice che se una cosa lo tocca, pensa che possa toccare anche altri, per esempio l’intervistatore, per esempio qualcuno del pubblico.
Dice che il suo scopo non è il consenso ma la sincerità.

Che coraggio.
Arte e cinema, e l’arte nel cinema, che è arte anch’esso, che ci danno una bella lezione.
Personalmente non ho niente contro la menzogna, se facilita la vita, non mi crea problemi, la vita è già così difficile.
Ma che ci sia qualcuno, nell’arte e nel cinema, che la pensa diversamente, che paga tutto quello che c’è da pagare in questo senso, senza sconti né regali, mi lega ancora di più a entrambi, arte e cinema come possibilità di una diversa lettura del mondo, di altre vite, di altri orizzonti.

Di altre storie.