Arte e cinema (page 1 of 9)

Insieme perché hanno entrambi a che fare con l’immagine. L’arte, semplicemente, il mio lavoro, la professione amatissima, ciò cui mi dedico in modo completo e totale. Vi racconto la mia arte, così come la vivo, la studio, la diffondo. Il cinema, ve lo dico subito, ciò che farò nella mia prossima vita, non appena mi sarà data la possibilità di scegliere: critico o sceneggiatore, poco importa, l’importante sarà stare in una sala buia, accomodata in una accogliente poltrona, con fuori il mondo con tutti i suoi fastidi. Oppure davanti a uno schermo o a una pagina bianca, inventando situazioni e vite alternative, per me e per gli altri.

I DANNI DELL’URAGANO ANNA

Luchino Visconti, Bellissima, 1951

Che Luchino Visconti sia uno snob, falso comunista, aristocratico fino all’osso, incapace di fare realismo e neorealismo, si vede da due cose:

1. I suoi proletari mettono le scarpe sul letto. Lo fa Spartaco, quando spoglia la bambina per metterla a dormire, la deposita in piedi, tutta vestita, dalla testa ai piedi e dopo che lei ha pestato ben bene le lenzuola, la scalza. Lo fa Maddalena, triste e sconvolta dopo l’incontro finale col regista Blasetti e lei le scarpe se le sapeva togliere, infatti l’abbiamo vista una volta lanciarne una alla suocera e un’altra volta sfilarsele entrambe per togliere la sabbia della discesa al fiume.
2. I suoi proletari mangiano come aristocratici, ovvero come probabilmente mangiava lui. E come mangiano i ricchi, ovvero come mangiava Agnelli. E io che ne so, come mangiava Agnelli. Lo so perché ho visto Alberto Sordi che lo raccontava:  una foglia di lattuga, un «paté fois gras», un pezzetto di formaggio. Poi arrivano i caffè. E a quel punto lui si rende conto che la cena è finita. Visconti fa la medesima cosa. Il film per due volte si trasferisce al Biondo Tevere, nota trattoria romana dove ha fatto la sua ultima cena Pasolini, dove a me capita di andare ogni tanto e dove si mangia come amano mangiare i proletari, e non solo, a Roma: a quattro palmenti. Dei pasti della famiglia Cecconi, si vedono solo i caffè.

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IL BELLO DELLA LAMPADA CON LA LAMPADA

Edi (Little Helper), Walt Disney

Da ragazza, un uomo così non lo avrei degnato di un’occhiata.
Adesso mi piacerebbe conoscerlo.
Che diceva quella canzone, ah, sì: come si cambia.
Se gli togli gli scarponcini con i lacci e il giubbotto di pelle, potrebbe stare bene nella Bibbia, nel ruolo di un profeta o di un apostolo.

Michael

È giovane ma non giovanissimo, essendo un progettista, è nella sua fase d’oro, talento e esperienza.
(Prima o poi dobbiamo parlare dell’età degli uomini, e che solo quella delle donne).
Così mediterraneo, scuro, nato a Cipro, mi chiedo come stia nel grigio di Londra, se ogni tanto sente la mancanza del suo mare e dei suoi colori.
Ha studiato da ingegnere civile al London’s Imperial College of Science Technology and Medicine, poi ha conseguito un masters degree, che è la nostra laurea magistrale, in industrial design al Royal College of Art.
Insomma, è una persona seria.

Michael Anastassiades è entrato nella mia vita il 2/02/2022 perché mi sono comprata una sua creazione: la nuova lampada per il mio salotto.

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FIAT LUX

Giacomo Balla, Lampada ad arco, 1909-11

A questo punto io feci osservare che tutti i linguaggi sono pieni di immagini e di metafore la cui origine si va perdendo, insieme con l’arte cui sono state attinte…scomparsi i mulini a pietre sovrapposte, dette anche palmenti, in cui per secoli si era macinato il grano…ha perso ogni riferimento la frase “macinare” o “mangiare a quattro palmenti”, che tuttavia viene ancora meccanicamente ripetuta…

Primo Levi, Cromo, Il sistema periodico, 1975

Aveva ragione quell’amico mio, fotografo e artista, che una volta mi disse tu mi mandi una mail e io mi aspetto una lettera, con la busta e il francobollo, altrimenti si dovrebbe trovare un nome nuovo per questa cosa diversa.
Lo stesso per il film, che se diventa digitale, come fa a chiamarsi ancora così, chiedetelo alla gente del cinema, che cambiamenti ci sono stati, dall’impossibilità per la troupe di rivedere la sera tutti insieme il girato, che in inglese e in francese si chiama rushes, visto che il girato si rivede individualmente sul proprio computer, al fatto che prima la pellicola costava, quindi si stava attenti, e adesso si gira senza farci più caso.
Del resto stamattina, io, che evidentemente non è che sia del tutto sveglia, a un semaforo ho impiegato almeno dieci secondi a capire che cosa fosse quella specie di alfabeto Morse che si illuminava su una macchina che stava davanti a me.
Che doveva, evidentemente, girare a sinistra, e quella era una delle tante forme che ha assunto il lampeggiatore, che io mi ostino, come tanti, a chiamare freccia perché lampeggiatore mi fa strano.
E mi fa strano anche freccia, visto che qualunque lampeggiatore, tanto meno l’alfabeto Morse di stamattina, sembra tale.
Però:  «(freccia indica anche) il dispositivo (propriam. fdi direzione) che negli autoveicoli si alzava manualmente a destra o a sinistra per segnalare il cambio di direzione di marcia, ora sostituito da apparati luminosi lampeggiatori».
Insomma, nelle prime automobili, la freccia c’era davvero.
Aggiungo che, in tutto questo lampeggiare, al semaforo successivo, dove avevo una macchina davanti a me che era come la mia, mi sono intenerita sull’indicatore di direzione: limpido, chiaro, funzionale.

Sembrava proprio quello che era.

Ma è giunto il momento di parlare di qualcosa che non è più.
Ovvero della lampada che è scomparsa dalla lampada.

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QUEL CHE RESTA DI MATRIX

Trinity & Neo, Matrix, 1999

Ieri mi è andata di traverso la prima parte della giornata.
(E non vi sto a dire della seconda).
Prima parte. Appuntamento delle 13:00 saltato, ma saltato lì sul posto, non mezz’ora prima, dunque, un viaggio attraverso Roma senza scopo.
Da là, in centro per tre servizi, ovvero, commissioni.
Due andate in porto, della terza dovremo parlare perché sto cercando una lampada da terra per il mio salotto e da Flos a via del Babuino ho capito che ormai le lampade sono quasi tutte a LED integrati.
Ossia, se prima ti si fulminava la lampadina e tu la sostituivi, adesso la lampadina non esiste più, c’è una fonte di luce che non si capisce dove sta e se essa si rompe, tu la lampada, tutta, la devi rimandare in azienda.

Jasper Morrison, Superloon, 2015

E qui voglio capire come fai, per esempio, la Superloon di Jasper Morrison, che è uno che mi sta pure simpatico, è alta cm 1,97,  ha il disco diffusore con un diametro di cm 75 e pesa al netto kg 12.
E nemmeno mi piace.
E poi non mi voglio mettere in casa un oggetto suscettibile di creare una crisi istituzionale, voglio una lampada da terra, non una minaccia perenne.

Rientro, intercetto il corriere che aveva già provato a consegnarmi il vino, gli dico che se sta ancora dalle mie parti, me lo porto su da sola.
Finalmente ci vediamo dopo mesi di contatti.
È esattamente come me l’ero immaginato dalla voce, un ragazzetto con una dolce disponibilità nei confronti del mondo.
Casa.
Mi lavo le mani con l’acqua bollente.
Alle ore 16:00, a parte il vino, ho quasi buttato la giornata.
Quasi, perché con un po’ di organizzazione, riesco a recuperarla.
Decido che ho tutto il tempo per un film, che avevo messo in calendario.

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IL COLPO DELLA STREGA: BIANCANEVE E I SETTE NANI (1937)

Biancaneve e i sette nani, 1937

Temevo peggio.
Temevo la melassa, i gorgheggi, le colombine bianche, temevo pure il Principe Azzurro con la faccia da puppo.
Nel film Biancaneve e i sette nani, prodotto e supervisionato da Walt Disney nel 1937, c’è tutto questo ma c’è anche altro.
Primo lungometraggio a disegni animati, me lo ero lasciato a conclusione delle feste, in un pacchetto che comprendeva un po’ di tutto, dal drammatico al patetico, passando per il thriller e il sentimentale.
Il cinema è bello perché è vario e io voglio gustarlo tutto.
Walt Disney è il più grande narratore del secolo XX, è uno che, seppure non ha inventato i cartoni animati, ha dato loro per primo le lettres de noblesse di cui avevano bisogno per essere considerati una forma d’arte, in un periodo in cui il cinema stesso faceva fatica a essere pensato in questi termini.
Inoltre le influenze reciproche, cinema/arte, sono state analizzate, quindi i due mondi si toccano da un pezzo ed è interessante verificare come le fonti disneyiane siano tutte europee, dal gotico al Surrealismo: pittura, incisione, letteratura, ancora cinema, architettura, paesaggio, insomma, vedere un cartone animato equivale a fare una cavalcata attraverso la storia dell’arte, come sanno bene coloro che praticano l’uno e l’altra.
Walt Disney non era un uomo colto, ma aveva la passione e la curiosità dell’autodidatta e ha saputo circondarsi dei migliori illustratori che dal Vecchio Continente erano emigrati in America e che avevano con sé, dunque, le proprie radici, ampiamente espresse, anche se americanizzate con disinvoltura da quel geniale direttore d’orchestra che lui è stato.
Biancaneve costituisce una sfida e una scommessa artistica e finanziaria.
Vinte, l’una e l’altra, al punto che il film è stato premiato da un Oscar speciale l’anno successivo alla sua uscita ed è stato un enorme successo commerciale.
Nasce qui un genere che è capace di rivaleggiare con il cinema hollywoodiano.

(Per ogni lungometraggio Disney ci vogliono un milione e mezzo di disegni. Ditelo a quelli che fanno clic col mouse e hanno risolto).

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LA FAMIGLIA DEGLI ARIETI

Eric Lartigau, La Famille Bélier, 2014

A faire pâlir tous les Marquis de Sade
A faire rougir les putains de la rade
À faire flamber des enfers dans tes yeux

À faire dresser tes seins et tous les Saints…
Je vais t’aimer
Da far impallidire tutti i Marchesi de  Sade
Da far arrossire le puttane del porto
Da far divampare degli inferni nei tuoi occhi
Da far raddrizzare i tuoi seni e tutti i Santi
Ti amerò

Michel Sardou, Je vais t’aimer

La mia logopedista mi dà i compiti a casa.
L’unico che ho fatto volentieri però non è stato proprio un compito ma una risposta a quello che io le avevo detto quando ci siamo conosciute: che avevo cominciato a cercare il cinema che si era occupato della voce.
Lei è una che si emoziona, che si commuove, che ha paura a parlare in pubblico, che non distingue bene la destra dalla sinistra.
Mentre parlavamo, lei ha cominciato a commuoversi e mi ha chiesto se avevo visto La Famille Bélier, di cui lei non sapeva bene il titolo francese, che è questo e che è facile facile, molto vicino a quello italiano.
Anzi, viceversa.
Mi sono procurata il film subito, però me lo sono tenuto per l’anno nuovo, come la cerise sur le gâteau, che poi con me non funziona perché non mi interessano i dolci e tantomeno le ciliegine che ci stanno sopra.
Ma tant’è.
Però ho capito subito perché lei si era commossa e a metà film ho cominciato a commuovermi anch’io, ma sul serio, nel senso che prima sono andata a prendermi un fazzoletto dalla scatola, poi, tutta la scatola, poi non so nemmeno se ho capito del tutto quello che è successo perché le lacrime mi scendevano a fiotti e nemmeno vedevo più niente.
Mi sono asciugata gli occhi per i titoli di coda perché volevo sapere delle cose.
Io sono una con le lacrime in tasca, sono una piagnona autentica, che piange su tutto e per tutto, figuriamoci se non piango per un film così bello, delicato, divertente, inoltre un film, per me in questo momento della mia vita, così toccante.
Ora vi racconto.

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L’AMORE IN FORMA DI SCOIATTOLO

La Spada nella Roccia, la Scoiattolina, 1963

Del bambino che è dentro di noi, io, francamente.
Dell’infanzia salverei però alcuni aspetti.
Per prima cosa, quando non è a base di zucchero, la cucina a essa dedicata: semplice, leggera, ludica.

Bouillie o porrigde con frutta e mandorle

Per esempio, guardate qui questa colazione: un porridge con frutta e mandorle.
Se vi ricorda qualcuno, siamo del medesimo umore.

Ma procediamo con ordine.

Un’altra cosa che sottrarrei all’infanzia sono le favole.
Spesso cruente e feroci, non si capisce perché uno non debba frequentarle da adulto.
Se voi prendete la Sirenetta di Andersen nella sua versione originale, vi renderete conto di quello che soffre questa povera figlia per amore, rinunciando alla sua bella voce e con il dolore fisso di camminare come se stesse sulle spade, avendo scambiato la coda di pesce con un paio di gambe accettando il tormento.

Ci sono poi i cartoni animati, da me frequentati assiduamente, che sarebbe un vero peccato lasciare ai più piccoli, che capiscono poco o niente di quello che vedono.
Poi, però, si cresce.
Torno alla colazione.

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DUE FILM DI JANE CAMPION. 2: BRIGHT STAR, 2009

Jane Campion, Bright Star, 2009

Bright star! Would I were steadfast as thou art-
Not in lone splendour hung aloft the night…
(Oh fossi come te, lucente stella,
costante – non sospeso in solitario
splendore in alto nella notte…)
John Keats, Bright Star

Sono andata a scuola quando la scuola era una cosa solida e affidabile.
Certo, non perdonava, in quarto ginnasio eravamo trentadue studenti e in quinto, sedici.
Al 50% degli iscritti fu detto chiaramente di cambiare aria.
Comunque a me la scuola ha dato tantissimo, certi giorni penso che mi abbia dato tutto.
Non riesco a ricordare quando la scuola mi ha dato John Keats, se fu alle medie o al ginnasio, ero ragazzina, ma non mi ricordo quanto.
Pensai subito però che mi fosse destinato.
Saputo che il poeta era venuto a Roma in cerca di un clima migliore e aveva abitato a piazza di Spagna, feci un primo passo e andai a vedere la sua casa.
Poi seppi che lui era morto qui a venticinque anni e che era sepolto al Cimitero che chiamiamo degli Inglesi.
Un giorno dunque presi il tram da Prati e andai fino a Testaccio, in un viaggio che nel mio immaginario avrei paragonato in seguito a quello di Ada, dalla Scozia alla Nuova Zelanda.

Pensai che il Cimitero era il luogo più romantico che avessi visto.
E lo penso ancora oggi, con tutti i cimiteri e i luoghi romantici che ho visto in vita mia.

Dunque, l’intuizione fu esatta e la relazione fu da subito intensa.

Roma, Cimitero detto degli Inglesi, tombe di John Keats (a sin.) e dell’amico Joseph Severn

Allora, si fa così.
Avendo io la regola di non entrare mai in contatto reale con gli scrittori che prediligo e di mai fare niente di analogo nel cinema e nell’arte in genere, quando uscì il film di Jane Campion dedicato a Keats, che prende il titolo dall’incipit di una delle sue poesie, pensai e adesso che faccio, come niente il mito si incrina.
E invece.

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A LADY

Jane Campion, Ritratto di Signora (Portrait of a Lady), 1996

Per cominciare.
Non è, questo, il secondo film di Jane Campion di cui vi voglio parlare dopo avervi parlato del primo.
Il secondo film devo finire di vederlo. E ci sto sopra da dieci giorni.
E che è successo.
È successo che lo sto tenendo distante, che lo sto centellinando, che trovo tutte le scuse, devo andare a cena, piove e il mio salotto non è nella condizione  ideale per ospitarne la visione, ormai si è fatto tardi, mi serve un’altra scatola di fazzoletti perché la prima l’ho finita.
(Su questo film ho già pianto tantissimo. Non riesco a pensare quanto avrò pianto alla fine).
Invero, a dirla tutta, sto facendo come Nicolas Poussin che, mentre in lui ardeva il desiderio di venire a Roma, trovava pure lui tutti i pretesti per fare altro: va a nord invece che a sud; contrae un debito e non ha i soldi per il viaggio; trova i soldi e se li spende tutti con gli amici; si stabilisce a Lione e a Parigi.

Nicolas Poussin, Autoritratto, 1650

Insomma, sotto ci deve essere una storia di attrazione, per essere catturato devi entrare nell’orbita, se stai all’esterno, ti sottrai. L’artista impiega dodici anni prima di realizzare il desiderio di venire a Roma, dove rimane e dove è sepolto, per la precisione in San Lorenzo in Lucina.
Quindi, la fascinazione che provava (e temeva) si è realizzata tutta.
Dunque, io non sto messa poi troppo male, fra i miei dieci giorni e i suoi dodici anni, c’è ancora un po’ di margine.
Il secondo film è talmente bello e ho una relazione così complessa con il protagonista, che ieri ho addirittura pensato di fare una pausa, questa, davvero introvertita: ho tolto il dischetto dal lettore, cioè ho anche, come si dice a scuola, perso il segno e ho visto un altro film, sempre di Jane Campion.
Però Ritratto di signora si è rivelato a distanza di anni quasi inguardabile.

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DUE FILM DI JANE CAMPION. 1: THE PIANO (LEZIONI DI PIANO), 1993

Jane Campion, The Piano, 1993

Nudo, l’attore è inguardabile.
Over 50, basso, tarchiato, con qualcosa più di un inizio di ginecomastia, ovvero con mammelle quasi femminili, il pene penzoloni fra le gambe, che, in quello stato, sembrando lui una scimmia, almeno lo libera dall’immagine della scimmia in foia.
La faccia tatuata.
La bocca come un orifizio di salvadanaio.
In più analfabeta.
Le unghie orlate perennemente di nero.
Uno che se la fa con i selvaggi.
Eppure bastano un paio di secondi e una donna lo comincia a guardare diversamente.

George

È l’occhio dell’autore che guida lo sguardo dell’altro e dunque lo sguardo, inaspettatamente, prima accetta, poi compie un balzo fino al desiderio.
E il desiderio circola per tutto il film, come un refolo di vento che sale su se stesso, a tratti e ti trasporta.
E in questo caso l’autore è una donna, quindi, una regista che, per forza di cosa, rappresenta se stessa.
E arriva al capolavoro, che è rimasto tale anche dopo ventotto anni.
Anzi, se possibile, la bellezza del film è aumentata, sarà che è passata la vita, sarà che è cresciuta l’esperienza.

Parlo per me, ovviamente.
E per chi volete che parli.

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