Letteratura e poesia (page 1 of 2)

Tutto ciò che è frequentazione quotidiana, che ti fa vedere le cose da un altro punto di vista, che ti riacchiappa quando stai per cadere, che ti risolleva da terra e ti consola. L’indispensabile nutrimento esistenziale, parole che, se non ci sono, ti mettono in un guaio e ti lasciano lì, senza forze e senza speranza.

MAI PIÙ SENZA

Pamela Hanson, Untitled, London, 1988

Ci vuol passione / Molta pazienza / Sciroppo di lampone / E un filo di incoscienza / Ci vuol farina / Del proprio sacco / / Sensualità latina / E un minimo di stacco / Si fa così / Rossetto e cioccolato /
Che non mangiarli sarebbe un peccato / Si fa così / Si cuoce a fuoco lento /

Mescolando con sentimento…. 
(Oscar Avogadro, Ornella Vanoni, Roberto Pacco, «Rossetto e cioccolato», 1995)
Nella mia prima Accademia avevo una collega a fine carriera che era una gran signora.
Allieva di Roberto Longhi, il più grande storico dell’arte italiano di ogni tempo, lei sfidava tutti i trenacci (dico: i trenacci) che prendevamo insieme al ritorno con i suoi tailleur di taglio superbo.
In vista di Roma, più o meno, diciamo, all’altezza di Ciampino, lei tirava fuori dalla borsa il rossetto e se lo metteva.
Raccontava spesso la storia della scialuppa dei naufraghi che avevano perso la speranza.
Fra loro c’era pure un’infermiera, che a un certo punto aveva preso dalla tasca della divisa un rossetto sopravvissuto alla catastrofe e si era dipinta le labbra.
Tutti avevano ritrovato il coraggio.
E io presi dunque l’abitudine, ogni volta che il treno si avvicinava alla Stazione Termini, di pescare il rossetto dal mio astuccio e di usarlo.
Come in un rituale, non sono mai venuta meno a questa abitudine, certe volte arrivando anche a fare una visita ai truccatori della profumeria della stazione per salutarli, farmi dare una sistemata se avevo un appuntamento, provare un nuovo colore.

Qualche tempo fa, qui noi avevamo già parlato di labbra.

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L’ERBA DEL VICINO

E soprattutto ricordarsi che far poesie è come far l’amore: non si saprà mai se la propria gioia è condivisa.

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 17 novembre 1937

Ci sono quelli che scrivono bene ma che non hanno niente da dire.
Ci sono quelli che hanno delle cose da dire ma che scrivono male.
Ditelo con i fiori. Se fosse possibile, come per i suddetti, fare degli innesti, saremmo a posto.
Quelli che scrivono bene ma non hanno niente da dire riscriverebbero gli scritti di quelli che hanno delle cose da dire ma scrivono male e saremmo tutti contenti.
Ma non è così facile.
Più volte nella vita mi è capitato di sentirmi chiedere di leggere qualcosa che qualcuno aveva scritto.
La volta più surreale fu quella in cui mio fratello, prima più piccolo, ora più giovane, mi mise sulla scrivania i due tomi appena rilegati della sua tesi di laurea e mi disse: «Leggi».
L’unico problema è che era una tesi in Ingegneria dei trasporti e che dovetti stare attenta a non confondere le virgole della grammatica con quelle della matematica.
Tutta la tesi era fatta solo di formule e di qualche frasetta qui e là, sulla quale mi concentrai.
Per un paio di decenni ho riletto tutto quello che scriveva una persona a me molto vicina, che faceva ricerca.
Chissà le cose che avrai imparato.
No.
Il diritto costituzionale è una disciplina super sofisticata e super specialistica, praticamente fra il diritto costituzionale e l’ingegneria dei trasporti c’è poca differenza.
Di senso.
Ma ho letto tutto e tutto corretto quando c’era da correggere.

La responsabilità del primo lettore è grande, quindi il lavoro va fatto responsabilmente.

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SOSTIENE MONTALE

 

Il mio calzante Made in Scotland

I Meridiani non mi piacciono.
Ne ho solo due, uno dei quali, quello con una raccolta di saggi di Roberto Longhi, mi fu regalato da mia madre nel suo ultimo Natale.
Dunque, avevo da poco cominciato l’università e mi ricordo che il volume mi sembrò bellissimo.
Adesso ho cambiato idea.
Non mi piacciono i libri-strenna,  sono troppo leccati e comunque i Meridiani, nati nel 1969, si capisce al volo che sono i cugini poveri della Bibliothèque de la Pléiade, i cui primi volumi uscirono nel 1923.
E comunque non mi piace neanche la Pléiade e ho di essa un solo esemplare, Rimbaud Oeuvres complètes, che mi sono comprata non ricordo perché e che è quasi intatto.
Nel senso che io sto continuamente su Rimbaud, ma uso praticamente sempre l’edizione della Feltrinelli, Universale Economica.
Io leggo sempre con qualcosa in mano, non riesco a leggere senza una matita e talvolta pure con l’evidenziatore e con Rimbaud quasi mi intenerisce che tutte le mie annotazioni siano sulla traduzione, ce l’ho da quando avevo quindici anni e per riuscire a leggerlo in francese ho dovuto aspettare parecchio.
Insomma, le mie note da ragazza superano ampiamente quelle di me adulta.
E annotare qualcosa su le papier indien che sta in una rilegatura in pelle con impressioni in oro, come nel caso della Pléiade, francamente mi fa fatica, non dico che mi sembra un sacrilegio, dico che le note le scrivo meglio altrove.

Ma dicevamo, il Meridiano numero due.

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UNA RECENSIONE, seconda parte

Nisida dalla discesa di Coroglio, Napoli

Il comandante mi sorride e il cielo si pulisce. Se fosse una vita normale scenderemmo fino ai tavolati, dentro l’orlo spento del vulcano, dove l’acqua è fosforescente e mi farei abbracciare forte e ci farei l’amore.

Valeria Parrella, Almarina, 2019

Alcune delle mie cartine di tornasole:
1. Mi piace un uomo quando voglio rivederlo
2. Un film è buono quando mi dimentico dove sto, cinema o casa mia, e sto nel film
3. Un’opera d’arte è tale quando mi apre nuovi orizzonti
4. Una serie è buona quando, arrivata all’ultimo episodio dell’ultima stagione, ricomincio a vederla dal primo episodio della prima
5. Un vino è buono se la mattina dopo non ha lasciato segni

Un romanzo è buono se non riesco a staccarmi e se mi tira fuori mille idee e mille ricordi.

E questo è quello che è successo con Almarina di Valeria Parrella.

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UNA RECENSIONE, prima parte

…perché la retta è fatta di infiniti punti e in questo punto qua ci siamo noi

Valeria Parrella, Almarina, 2019

Il libro è brutto.
Brutto fisicamente, così come, fisicamente, può essere brutta una persona.
E poi ha la copertina rigida. Un mio compagno di liceo, strampalato ma intelligente, diceva che non bisognava mai leggere romanzi con la copertina rigida. Infatti, fra i miei livres de chevet, che poi sono i libri che ammucchio sul mio tavolo da notte in modo bulimico, facendo con loro quello che quel cantante faceva con le ragazze, li lascio quando voglio e poi li riprendo, ma l’ho già raccontato qui, dicevo, sul mio tavolo da notte, nell’abbondanza, non c’è nemmeno un libro con la copertina rigida.
Eppure Einaudi per me significa tanto, soprattutto Torino, Pavese e Ginzburg, insomma, loro sono altro.
È brutta pure la foto di copertina, ho visto che è di Getty Images, dunque, l’hanno presa così, ebbene, ne potevano prendere una migliore.

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NEI PANNI DI UN GATTO

Gaetano Gravina, Nerone, Colonnese Editore, 2019

Lui ha tutte le carte in regola per essere un artista.
Fuma, ragiona diversamente da come ragiona il mondo, pensa in termini di libertà e poesia.
Seduce.
Glielo dico sempre: quando una donna parla con lui si sente avvolta da un filo di seta.

Da bozzolo si trasforma in farfalla, e se campa una sola settimana, non fa  niente. Intanto ha provato che significa trasformarsi.
Non è forse questo che vorrebbero fare continuamente le donne?
Gaetano Gravina, di Napoli, è artista e grafico pubblicitario.
Si è misurato anche con la scrittura, pubblicando racconti e due romanzi, uno giallo, Alter Egon, e uno nero, Animali fragili.
Sempre, con lui, il colore.
Stavolta ripassa dal nero, ma diversamente.
Si occupa, infatti, di un gatto firmando per Colonnese Editore un librino che pesa 57 grammi.
Lo so perché l’autore me l’ha mandato via corriere e, nonostante i capricci del corriere, il librino è arrivato e io l’ho pesato sulla bilancia della cucina.

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VOCE DEL VERBO: LEGGERE

Félix Vallotton, Ex Libris F. Raisin, 1893

Personalmente uso tutti i Diritti imprescrittibili del lettore.
E di tutti abuso.
Messi a punto da Daniel Pennac, rieccoveli:

  1. Il diritto di non leggere
  2. Il diritto di saltare le pagine
  3. Il diritto di non finire un libro
  4. Il diritto di rileggere
  5. Il diritto di leggere qualunque cosa
  6. Il diritto al bovarysmo (malattia testualmente trasmissibile)
  7. Il diritto di leggere non ha importanza dove
  8. Il diritto di prendere qui e là
  9. Il diritto di leggere a voce alta
  10. Il diritto di stare zitti

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PAROLE PAROLE

Ieri ho fatto una cosa che non facevo da un sacco di tempo: un cruciverba con gli amici.
Eravamo al Parco della Martesana, lungo il naviglio che gli dà il nome.
(O viceversa).
Si stava bene, c’era stato un sussulto dell’estate, i bambini giocavano, ogni tanto passava un cane e dava un’occhiata.
Gli amici, che sanno stare al mondo, si erano portati un secchiello di ghiaccio con dentro una bottiglia di Pecorino, vitigno dal nome simpatico, in certe situazioni, lo capisco, impresentabile, diffuso in poche regioni d’Italia.
Mentre facevano il cruciverba, ogni tanto mettevano nel ghiaccio anche i bicchieri.
Perché, con il sussulto dell’estate, faceva ancora e di nuovo caldo, altrimenti che sussulto sarebbe stato.
E ai bicchieri il caldo faceva male.
Tutte le definizioni del cruciverba erano legate al vino.
Con questi medesimi amici faccio da mesi la degustazione del giovedì alle 19:00.
Loro là, io, qua.

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QUESTO SENTIMENTO DELL’ESTATE, 3: COL FIATO SOSPESO

Vasilij Kandinskij, ci si mette pure lui

Una delle cose che più mi infastidiscono al mondo sono i puntini di sospensione: usati a sproposito; usati in eccesso; usati punto e basta.
Dovrebbero inventare una tastiera intelligente, ma intelligente sul serio, che oltre a scrivere, mettiamo, la ‘a’ svedese con la palletta (å) e a inserire il tilde, ~, quando serve, si ferma e si impunta come un mulo e non va più avanti al secondo utilizzo dei puntini di sospensione nel medesimo, chiamiamolo, ambiente.
O che, meglio, ti fa uno sberleffo.
O che ti tira, per carità, solo metaforicamente, una torta in faccia.
Ma piena di panna, cioè vistosa e visibile.

L’Accademia della Crusca: «I puntini di sospensione  si usano sempre nel numero di tre, per indicare la sospensione del discorso, quindi una pausa più lunga del punto».
Sandro Veronesi, toscano autentico, in un’intervista: sulla tastiera ci dovrebbe essere un tasto con tre, solo tre puntini, per indicare quelli di sospensione.
Io: e il tasto si dovrebbe bloccare dopo il primo utilizzo, praticamente hai un solo colpo in canna e devi pensarci bene prima di usarlo.

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CASTRONERIE

Alcuni non rileggono.
Non lo fanno perché «mica sto scrivendo I Promessi Sposi», oppure, meglio, «per conservare la freschezza del tono» (Bassani ha ripulito per due anni prima della pubblicazione Il giardino dei Finzi-Contini,  uno dei romanzi più dotati di freschezza che abbia letto in vita mia).
Altri le dicono in buona fede, nel senso che pensano proprio così, ne sono convinti.
Da una parte, meglio, la vita prende di botto un altro corso.
E poi, certe sono talmente irresistibili da passare alla storia.
In sintesi.  Continua a leggere