Félix Vallotton, Ex Libris F. Raisin, 1893

Personalmente uso tutti i Diritti imprescrittibili del lettore.
E di tutti abuso.
Messi a punto da Daniel Pennac, rieccoveli:

  1. Il diritto di non leggere
  2. Il diritto di saltare le pagine
  3. Il diritto di non finire un libro
  4. Il diritto di rileggere
  5. Il diritto di leggere qualunque cosa
  6. Il diritto al bovarysmo (malattia testualmente trasmissibile)
  7. Il diritto di leggere non ha importanza dove
  8. Il diritto di prendere qui e là
  9. Il diritto di leggere a voce alta
  10. Il diritto di stare zitti

Non mi riconosco.
Io che sono metodica, affidabile, abitudinaria, alle prese con un libro divento disordinata, bulimica, dongiovannesca.
Sto parlando di libri extra professione, perché se usassi così i testi professionali, semplicemente, una professione non ce l’avrei.
Inizio un romanzo.
Lo pianto.
Ne prendo un altro.
Pianto pure quello.
Sono capace di avere cinque libri in corso, passo dall’uno all’altro seguendo solo l’umore.
Se un libro non mi piace, non vado oltre le prime pagine e lo butto.
Mi è capitato di ricomprare dei libri con i quali ero stata un po’ troppo sommaria.
Leggo solo cose scritte benissimo, credo che la cattiva letteratura faccia male tanto quanto il cibo spazzatura.
Se qualcuno mi parla bene di un autorucolo da strapazzo, comincio a guardarlo malamente.
All’interrogativo che si pongono spesso le madri rispetto ai figli, è meglio che non legga affatto o che legga solo robetta, rispondo sempre e comunque: meglio niente.
Considerando che mi ritaglio almeno tre giorni completi a settimana per lo studio, quando chiudo la giornata mi dedico ad altro.
Ma non solo a cose frivole, anche perché il frivolo mi va spesso di traverso.
Mi piace leggere in alcuni posti della casa.
A letto, in primo luogo e sono stata molto attenta a procurarmi la luce giusta: ho una lampada di design, con la base in cristallo di rocca, stelo in metallo, diffusore in vetro soffiato.
Appena comprata, la lampada mi incuteva soggezione.
La soggezione è passata presto perché  essa si è rivelata meno fragile di quanto non sembrasse a un primo sguardo. Infatti sta ancora lì e non si è rotta.
La mia lampada si chiama Micetta e in casa è la mia preferita.
Leggo pure sul divano in soggiorno.
E fu proprio lì che decisi tempo fa di leggere, per quanto mi era possibile, solo in versione originale.
Andò così.
Era quasi estate, il pomeriggio era dolcissimo ed ero alle prese con Il sole sorge ancora di Hemingway.  Traduzione italiana di un grande professionista che ebbe una morte tragica proprio a causa del suo lavoro.
Ma la sua versione mi innervosiva.
Ora, lui sarà stato pure bravissimo, ma la terza volta che trovai la parola «baldracca» cominciai a pensare che non fosse quella adatta.
Lanciai il libro verso la porta finestra del balconcino, centrandola.
Era aperta e non pensai nemmeno per un attimo che esso sarebbe potuto cadere di sotto, l’inclinazione non era quella giusta.

E. Hemingway, The Sun also Rises, 1926

Mi alzai, mi vestii da passeggio, presi la metro fino a Spagna e andai all’Anglo American Book di via della Vite.
Hemingway mi cadde in mano in una bella edizione.
Prezzo, lire 26.000, c’è ancora attaccata l’etichetta, per cui siamo ben prima dell’euro.
Feci il percorso all’inverso, ritornai sul divano, ricominciai daccapo facendo, però, subito un controllo.
La parola era «whore», che io, senza avere la competenza del traduttore, avrei però tradotto con «puttana».
Capii quanto si possano leggere cose che non stanno né in cielo né in terra solo perché così ha deciso un altro.
Hemingway uscì fuori in tutta la sua limpidezza, conobbi per il verso giusto «the flamboyant Lady Brett Ashley», uno dei miei miti più assoluti di donna, presi nota di tutte le bottiglie che mandavano giù e, insieme, presi un paio di decisioni: 1. Non avrei mai più letto una traduzione italiana di un romanzo inglese o francese. 2. Avrei bevuto tutti i vini di cui Hemingway parla.
Nell’inglese, in versione originale vado più lenta e con certi autori mi viene pure da piangere, per esempio mi infilai in un tunnel con Jack London, lui e i suoi maledetti termini tecnici dei cani e delle slitte, però non c’è paragone con la traduzione.
In francese, mando tutto giù come acqua fresca.
E i libri, intendo il loro aspetto fisico, sono molto più belli, certi li compro solo perché mi piacciono le copertine, guardate, per esempio, questa.

M. Proust, La fin de la jalousie, 2013

Con due euro ti porti a casa un oggetto fantastico.
Il fatto è che i libri italiani diventano sempre più brutti, è una caduta libera, ancora mi chiedo a chi ho dato il mio Cantico dei Cantici, il testo più erotico della Bibbia, di Adelphi tradotto da Ceronetti: evidentemente a un uomo che mi piaceva molto. L’ho ricomprato e la nuova edizione è proprio brutta.
Una volta ho riportato da Feltrinelli I dolori del giovane Werther tenendolo con due dita, come se fosse stato un foglio di carta unta del prosciutto e ho detto al mio malcapitato interlocutore ma non vi vergognate a vendere libri così disgraziati. Lui si è anche mortificato, alla fine ci siamo messi a cercare e abbiamo trovato un’edizione con testo a fronte, cosa sempre piacevole, piuttosto ben fatta.

Per non parlare di quanto sono diventate brutte le nostre librerie, ci sono gadget dappertutto, a Pasqua vendono pure i coniglietti di cioccolato, ma senza avere il gusto di creare un angolo, la butto lì, dedicato alla festa, al dolcetto o alla bestia.
A Parigi le librerie sono bellissime, con le vetrine a tema, con tutti i libri ben esposti, ciascuno dei quali corredato da una nota scritta a mano dal libraio.
Una volta ho insistito perché, oltre al libro, mi vendessero anche l’appunto.
Non capivano bene che cosa volevo.
Vorrei quel foglietto, è troppo bello.

Marie Ndiaye, La Cheffe, 2016

Fu così che il libraio, controvoglia, ricopiò il suo appunto e mi dette l’originale.
Il romanzo, dedicato a una cuoca, aveva una scrittura sontuosa.
La nota diceva: «Da consumare senza moderazione».

Non voglio comprare libri fra espositori che vendono segnalibri con frasi cretine e giocattoli, voglio comprare libri in una libreria.

Vi mostro una delle mie librerie predilette, è fra il Louvre e Palais Royal, quando posso, ci passo sempre.

Librairie Delamain, Parigi

Qui è fotografata fra le perle di vetro di un’installazione di Jean-Michel Othoniel che si chiama Il Chiosco dei Nottambuli e che è la bouche du métro,  l’ingresso della metropolitana, di place Colette (Colette abitava qui).

Tutto sta insieme, arte, città, libri, esistenza.

Jean-Michel Othoniel, Le Kiosque des Noctambules, 2000

La bella libreria ti fa venire voglia di leggere.
Il libraio bravo ti apre un mondo dopo l’altro.
Prima di comprarmi un libro in una brutta libreria, me lo compro su Amazon e nessuno deve lamentarsi se le vendite diminuiscono.

Se esco e non mi muovo in macchina, mi porto sempre qualcosa da leggere.
Mi porto da leggere dal parrucchiere, nemmeno tocco le riviste che sono da lui.
Se viaggio, mi porto un libro che parli del posto in cui vado.

Leggo pochi gialli e molti libri di cucina, pure se cucino poco, mi diverte sapere come cucinano quelli bravi: gli altri.
Leggo libri di poesia, in modo privato e silenzioso, la poesia recitata a voce alta non mi piace, tantomeno quando è l’autore stesso a esibirsi.

Rileggo libri che amo. Soprattutto in estate. E la cosa notevole è che non penso mai oddio, quanto ero scema a sedici anni.
Anzi.

Leggo fumetti, da sempre, per molto tempo di nascosto, con la complicità del giornalaio che non lo diceva a mia madre, e nascondendoli sotto al materasso.
Rifarsi il letto da soli, anche da ragazzini, può avere dei vantaggi.
Alcuni fumetti li sfilavo a mio fratello, quello prima più piccolo, ora più giovane.
Però preferivo i miei.
C’erano sempre discussioni selvagge su chi doveva leggere per primo Diabolik.
Io, ovviamente, sono più grande e poi mi dà fastidio leggere un albo che qualcuno ha già letto.
Ogni tanto mi compro su una bancarella qualche numero vecchio, scegliendo bene, si hanno simpatiche sorprese.
Leggo i Diabolik e poi li passo alla domestica, che era pure lei un’appassionata e alla quale ho raccontato il primo numero, quello che si intitolava Il re del terrore, da me acquistato in ristampa dividendo la spesa con mio fratello e da lei mai visto.

Mi sono diplomata al Perfezionamento con una tesi su Guido Crepax, che andai a intervistare a Milano, emozionatissima, e con il quale mi sono scritta per anni.
Lui mi mandava gli auguri di Natale in busta con su scritto «Signorina», proprio come lui chiamava Valentina.
I suoi albi sono fra le cose che porterei via in caso di incendio.

Leggo manga, non quelli per i ragazzini ma quelli per un pubblico adulto che apprezza la narrazione. Se hanno mantenuto il verso originale, da sinistra a destra, sento un po’ un frullatore nel cervello, però, con un po’ di applicazione, me la sbroglio.

Leggo riviste, da donna e di decorazione d’interni, tutte estere.

Leggo una rivista di cinema e una di filosofia. A quest’ultima ero abbonata perché non c’era verso di procurarmela diversamente. Per anni uno spiritoso nel mio palazzo me la rubava appena inserita dal postino nella cassetta e me la restituiva dopo un paio di settimane facendomela trovare sotto lo zerbino, senza il cellophane.
Ho interrotto l’abbonamento e ho buttato lo zerbino.
Mi chiedo ogni tanto come faccia, quella povera anima, senza il nutrimento che mi sottraeva con la regolarità di una bolletta del telefono.

Cerco di far leggere i miei studenti, impresa spesso disperata perché, a leggere, bisogna cominciare da piccoli e loro sono ormai adulti.
Provo con le cose adatte, Il giardino dei Finzi-Contini, Lessico famigliare, Il Gattopardo, la volta che hanno mandato tutti giù, godendosela, La Storia , ho capito che non era questione di numero di pagine, era questione di cascare dentro un libro come Alice nel buco, o quel che vi pare, forse era la tana del coniglio, e di trovarsi, di botto, in un paese delle meraviglie privato e personale.

Quando andavo al liceo, prima di entrare ci vedevamo con i compagni in un bar non lontano dall’ingresso. In quei quindici minuti strappati al sonno si veniva a conoscenza degli umori della scuola e la domanda più frequente che seguiva al buongiorno era «Che stai leggendo».

Non mi piace regalare né ricevere in regalo libri. Una faccenda troppo personale, rischi l’errore clamoroso, rischi di mettere un tesoro fra le mani di una persona che non lo apprezza, rischi di venire a sapere brutalmente che cosa pensano di te gli altri.

Alla terza copia che ricevetti in dono de La ragazza con l’orecchino di perla e de Le donne che leggono sono pericolose, in tutto sei pezzi, per quanto riconoscente per il gesto, in realtà, i gesti, pensai di dover fare un’alzata di testa e di chiarire: mi piace l’arte ma non mi piacciono i romanzi che la raccontano inventandosela, ho abbastanza fantasia e conoscenza per inventarmela da sola; i libri strenna non fanno per me, soprattutto quelli di quel genere, vanesio e adulatore.

Non ho letto nemmeno una pagina, né dell’uno, né dell’altro.

Le case senza libri mi danno tristezza.
Ma mi fanno paura quelle che di libri ne hanno troppi.
Umberto Eco dichiarava il possesso di trentamila (30.000) volumi, praticamente un incubo, pensa tu quando devi spolverarli.
E mi imbarazzano coloro che sanno quanti libri hanno in casa, credo che il calcolo si faccia in modo approssimativo per metro lineare, cioè uno si mette lì e impiega un mese buono a mettere uno in fila all’altro i libri che testimoniano quanto è bravo.

Solo Mike Bongiorno, e lo dice ancora Eco nella sua impareggiabile Fenomenologia, pensa che tu sei colto perché hai letto molti libri.
Figuriamoci se tu ti limiti a contarli e a farci sapere quanti sono.

A questo proposito devo ricordare con simpatia un mio compagno di università, che aveva una casa magnifica e una stanza con librerie ben fornite.
All’esclamazione «Quanti libri», rispondeva, schermendosi: «E quanti non letti».
Quella leggerezza, l’apprezzavo molto.

Non ho alcun feticismo per i libri.
Me ne libero senza problemi e lo faccio gettandoli.
La volta che preparai tre scatoloni e chiamai un libraio che si occupava dell’usato, fui sottoposta a una tale tortura di domande, perché butta questo e perché quest’altro non le è piaciuto, che mi sentii come una terra invasa dal nemico.

Mai più.

La lettura è una cosa complessa, ha bisogno di continuità, devi tenere un filo, devi ricordarti che cosa è successo nelle pagine precedenti, in questo il mio disordine mi crea problemi, spesso sono costretta a ripercorrere le tracce della narrazione, ma poco importa, aggiungo io il diritto numero 11: quello di non capire quello che leggi.

Laureata in Lettere, decisi però da subito, all’inizio del primo anno di corso, di occuparmi di Storia dell’arte, travolta da un maestro che mi cambiò la vita.
Fra le cose belle di come le cose sono andate, c’è però il mio rapporto con la letteratura.
Essa, per me, sta sempre al primo posto.
Con Simone de Beauvoir, l’abbiamo già detto: «avant toutes choses la littérature», prima di ogni altra cosa, la letteratura.
Divorata, trascurata, ripresa, amata, messa da parte, buttata al secchio, essa sta sempre lì, presente, pronta a tendere una mano quando serve, a cambiare il verso di una serata storta, a dare un senso diverso a una stagione, a spiegare sentimenti inspiegabili.

E se non ho voglia di leggere, non leggo.
Ho letto e probabilmente leggerò.

È un mio diritto imperscrittibile  e ho tutte le intenzioni di usarlo.
E, se mi va, pure di abusarne.

(Un post scriptum. In apertura cercavo per voi, per noi, qualcosa di Félix Vallotton, artista che amo molto e che molto si è occupato di libri. Ho scelto, allora, la xilografia che vedete, che lui ha creato come ex libris, fra i libri di, dedicandola a tale Frédéric Raisin. E raisin significa uva e dall’uva si fa il vino. Più letterario di così).