Nisida dalla discesa di Coroglio, Napoli

Il comandante mi sorride e il cielo si pulisce. Se fosse una vita normale scenderemmo fino ai tavolati, dentro l’orlo spento del vulcano, dove l’acqua è fosforescente e mi farei abbracciare forte e ci farei l’amore.

Valeria Parrella, Almarina, 2019

Alcune delle mie cartine di tornasole:
1. Mi piace un uomo quando voglio rivederlo
2. Un film è buono quando mi dimentico dove sto, cinema o casa mia, e sto nel film
3. Un’opera d’arte è tale quando mi apre nuovi orizzonti
4. Una serie è buona quando, arrivata all’ultimo episodio dell’ultima stagione, ricomincio a vederla dal primo episodio della prima
5. Un vino è buono se la mattina dopo non ha lasciato segni

Un romanzo è buono se non riesco a staccarmi e se mi tira fuori mille idee e mille ricordi.

E questo è quello che è successo con Almarina di Valeria Parrella.

Vi dico subito che trovate la prima parte della mia recensione qui.
Poi aggiungo che le cose nella mia vita sono andate in modo tale che mi occupo professionalmente di arte e non di letteratura, per cui, si capisce, ho con un romanzo un rapporto libero e diretto, lo leggo solo se mi piace e se ne ho voglia e non sono obbligata a recensirlo.
Ma stavolta avevo proprio voglia di farlo, perché seguendo le vicende di Elisabetta Maiorano, docente di Matematica nel carcere minorile di Nisida e vedova da tre anni, mille idee e mille ricordi mi sono venuti in mente.

Ma procediamo con ordine.

Valeria

Il sesso. La scrittrice usa parole crude, per esempio scrive scopare.
Ma lo fa con avvedutezza.
Mi spiego.
Se un collega utilizza con me questo termine, io do chiari segni di insofferenza, che ne so, caccio un sospiro e cambio discorso.
Se questo medesimo termine è utilizzato in un messaggio WhatsApp da un uomo che mi piace e con il quale ci sono stati, diciamo così, dei precedenti, io lo trovo appropriato e, certe volte, pure galante.
La scrittrice scrive per noi (e per sé) e trovo normale che noi, fra noi e noi, ci esprimiamo in questo modo.
Lei, per esempio, scrive: «”Sono il primo?” mi aveva chiesto uno con cui avevo scopato. Credetti di non capire, ho cinquant’anni, ma in realtà avevo capito…».
Oppure ci racconta che una volontaria che insegnava teatro era stata con un ex detenuto e che era stato divertente sentirla parlare dell’amore tra detenuti e professoresse. Poi però l’insegnante di teatro si era innamorata davvero, rimettendoci «una famiglia intera: la sua».
L’ex detenuto aveva infatti passato una settimana a scopare con lei, poi se ne era tornato dalla moglie, laddove lei «non aveva proprio trovato una variante da raccontare al marito».
Occhio alla variante, parola squisitamente teatrale.
E nessuno di noi, scrivendo, avrebbe utilizzato un termine meno esplicito di quello sul quale stiamo ragionando.
E comunque la scrittrice è una colta e raffinata, è una che sa di metrica e legge i classici, insomma, ha a sua disposizione un gran bel vocabolario.
Infatti non usa mai la locuzione fare sesso.
Nel caso qualcuno, malauguratamente, la utilizzi con me, a quel punto, non me ne importa niente di chi ho davanti, lo guardo come uno scarafaggio.
Disgraziata traduzione della locuzione inglese, che, almeno, usa un ausiliare e sceglie quello che traduce il concetto di avere, la frase è impiegata solo dai miserabili.
Il sesso è Eros e Eros è un dio.
Come si possa fare un dio, qualcuno deve ancora spiegarmelo.
Fuori o dentro il carcere.

Dopo Thanatos, Eros. Thanatos, che presso i Greci antichi era una divinità maschile, si sa, sta dall’altro capo di quel filo all’inizio del quale ci sta Eros.
Non occorre avere una troppo profonda conoscenza della psiche umana per saperlo. Basta stare al mondo.
E innamorarsi.
Antonio era un uomo bello e alto, «una malattia non ci avrebbe fatto paura, la noia sarebbe stata un accidente tollerabile».
Antonio e Elisabetta si vedono la prima volta alla solfatara e l’odore di zolfo annuncia l’inizio della loro storia.
«Non ci baciammo quella sera, né le volte subito dopo: non c’era più fretta ora che ci eravamo incontrati. Procedemmo con la cura che meritano le cose eterne».
Il loro matrimonio è fatto come è fatto un matrimonio ed esso cominciò che loro mischiarono i libri.
(Non ho mai mischiato i miei libri con quelli di un uomo, forse mi sono persa qualcosa).
(Parliamo, comunque, di altro).
«Però una tazza sola sul tavolo della mattina non è un motivo sufficiente per svegliarsi».
Al terzo aprile senza di lui, cui è scoppiato il cuore nel petto all’improvviso, lei comincia ad avvertire nell’aria qualcosa che «suggerisce una speranza».
Sono quegli uomini giovani, quei femori lunghi dentro i jeans, quelle gambe allenate, sono le guardie del carcere, che «hanno trent’anni, una radio in mano, chiavi attaccate con i moschettoni ai passanti del jeans, e un tempo seduttivo nel passo».
E c’è il comandante, quello che ha il cane che vorrebbe mangiarsi le oche della pet therapy.
Quello che piace alla professoressa.
Il comandante è andato al funerale e ci era andato con la moglie, però tutte le volte che la professoressa aveva alzato gli occhi su di lui, lui la stava guardando.
Eppure c’era il prete.
Eppure c’era la bara.
Quello sguardo per un attimo le allevia la pena del cuore; «passato il giro dell’anno» a lei torna un po’ la voglia di stare al mondo e, allora, se lo porta sotto le lenzuola.
«Il comandante così come è davvero, con la sua realtà, non c’entrava niente: fui io che trasferii uno sguardo di compassione nell’universo dell’erotismo, che presi il giorno e lo misi nella notte…da quello sguardo fisso su di me una notte ero tornata, da sola, a sentirmi viva».
Come se non fosse sempre così.
Come se ci volesse un lutto così violento per capirlo.
Lui ha la fede al dito e due figli grandicelli.
Poco male, lei si concede il permesso di farci l’amore, fosse pure solo in sogno.
Quando apprende da lui che la ragazza romena era andata via e per lei è una notizia orribile, pensa che non la vedrà più.
« – Bastardi di merda, – ho detto ai suoi occhi cupi, blu, che mi fissavano solamente. E me ne sono scappata, e se fosse stato un film lui mi avrebbe inseguito urlando il mio nome, invece no».
Poco male, ci sono uomini che servono esattamente a questo: a pensare di stare in un film, con lui che ti insegue urlando il tuo nome.
E se invece no, non fa niente. Nel film con lui si sta bene ugualmente.

La pizza fritta. Non ho mai mangiato una pizza fritta in vita mia. Mi capita di mangiare un supplì o delle patatine ogni tanto, ma la pizza fritta, per una disappetente qual io sono, sarebbe capace di farmi passare l’appetito per sempre.
La professoressa e la collega di Italiano Aurora festeggiano: «È, il trentuno, stanotte cambia l’anno, cambia tutto e noi per tenerci leggere mangiamo pizze fritte a Forcella, D’e’ Figliole».


Allora si fa così. Se un medico mi dice signora, lei ha tre mesi di vita: 1. Ricomincio a fumare, Marlboro rosse dure. 2. Vado a Napoli e mi mangio una pizza fritta.
A costo di morire.

Parigi. «L’avevamo sognata, Parigi, nei libri e nei film, l’avevamo sognata per le strade di Napoli, uscendo dal liceo, sciamando su via Foria: era uno di quei piccoli punti all’orizzonte che consentono di tenere la rotta».
Ecco, a parte Napoli e via Foria, anch’io ho sempre sognato Parigi così: uscendo dal liceo e pensandola come un punto capace di farmi tenere la rotta.

I buchi alle orecchie. Volevo mettere i bellissimi pendenti di brillanti di mia madre.
Ma non avevo i buchi alle orecchie.
Me le bucò un compagno di università, mesoamericano, con grande esperienza con le orecchie delle numerose sorelle.
Non c’erano ancora le macchinette.
Mio fratello, che faceva allora la quinta scientifico, venne in camera mia con la riga e la squadra, tutto misurò e segnò con la penna biro due punti su entrambi i miei lobi.
Domingo era armato di un grosso ago e di un turacciolo.
Io avevo acquistato dei cerchi d’oro.
La cosa non fu cruenta ma fu dolorosa, l’unico anestetico essendo il ghiaccio dei cubetti del frigorifero e necessitando l’operatore di manovrare le orecchie per bucarle.
Ebbi mal di testa per due settimane.
Portai i cerchi d’oro per quaranta giorni.
Poi indossai i pendenti di mia madre.
Che ancora porto, li ho pure addosso adesso che scrivo.
Inutile dire che qualche tempo dopo, quando decisi di farmi un altro buco all’orecchio sinistro e c’erano finalmente le macchinette, mi presi un’infezione che dovetti curare con quindici giorni di antibiotici.
I miei primi due buchi sono però perfetti e perfettamente simmetrici, molto ben cicatrizzati, entrambi all’altezza giusta.
Del terzo non ci sono notizie. Nel senso che spero che nessuno lo noti, non è utilizzato e tutto sommato è stato una svista.

Nemmeno la professoressa ha i buchi alle orecchie.
Così, quando riporta le fedi nuziali dall’orefice da cui nove anni prima le avevano comprate, senza che lei dica niente, lui le fa le condoglianze.
Le propone di farne due begli orecchini, «bei cerchietti importanti» e lei prova un sentimento di gratitudine, dice sì all’orefice, che è uno di quei commercianti che custodiscono il rito.
Lei annega in una sensazione di dolcezza.
Ma rimanda.
E la mattina di Santo Stefano, con Almarina che ha avuto il permesso di passare il Natale con lei, quando si rendono conto che sono aperte solo le farmacie, «siamo entrate e, mentre lei mi stringeva forte la mano e io stringevo forte i denti, mi sono fatta i buchi alle orecchie».

E il direttore, da sopra le scale, le dice che i cerchi alle orecchie le stanno bene.
E lei pensa che quei cerchi sono le sue fedi nuziali.

Almarina. Il padre l’ha violentata e rovinata di mazzate.
A pallavolo è forte e batte bene.
Ha abortito e non ha avuto il ciclo per due anni.
Non sa nuotare.
Morta la madre, la nonna l’ha messa su un camion con il fratello piccolo.
«Il viaggio l’ha pagato sul camion stesso, a tutti, tutte le volte che l’hanno voluto».
La professoressa ottiene il permesso per portarla da lei a Natale.
La professoressa ha una bella macchina rosso salsa e ha anche belle scarpe e guardando le scarpacce di tela di Almarina capisce di possedere «un povero lusso», per il quale prova «un sentimento nuovo».
Uscite dal carcere vanno a mangiare, esagerano, bevono pure.
Nella casa della professoressa Almarina si siede sulla vasca da bagno, non chiude la porta perché non l’ha mai potuto fare, e guarda con lo stesso desiderio il detersivo per la lavatrice e il sapone del discount.
Davanti al vuoto a perdere, a una cosa che finisce e che si può rimpiazzare, la ragazzina che è vissuta di stracci si esalta.
Apprezza la casa.
Non piange.
Impara che dietro al bancomat non c’è uno che ti dà i soldi.
Adora i tornelli della metro.
Vuole andare a messa il 25 dicembre.
Quando vede tutti i negozi chiusi ha un attacco di panico.
Il ventiquattro dicembre si addormenta qualche minuto prima della mezzanotte e la professoressa decide di non svegliarla, di togliere da sola «dalla mangiatoia l’ovatta che copre Gesù bambino», di spegnere la luce e di andare a dormire pure lei.

In quelle due solitudini, in quelle due vite da dimenticare, le due donne si incontrano.
Per la cronaca, la professoressa otterrà dal tribunale l’affidamento di Almerina.
Ovvero, dopo tre anni di solitudine, è finalmente sola ma non abbandonata.
E ritrova la sua anima e il suo spazio.
La mancanza non è più una spina.
Il tribunale deciderà se le due donne confonderanno i loro vestiti in lavatrice. Se lei metterà o meno per la ragazzina stracciona «il peperoncino nel sugo olive e capperi».
Torneranno in Romania e andranno a cercare la tomba della madre di Almarina.
Sotto il davanzale, lasceranno una rosa e una lucertola.
Una rosa e una lucertola.
La rosa di cui avrebbe dato notizie e la lucertola che avrebbe voluto educare Antonio Gramsci quando stava in carcere.
Che lo racconta in una delle sue lettere citate all’inizio di un romanzo che mi ha presa alla gola e che mi ha stretto il cuore.

dove stanno le parole non ci sono i coltelli

Valeria Parrella, Almarina, 2019