Ieri ho fatto una cosa che non facevo da un sacco di tempo: un cruciverba con gli amici.
Eravamo al Parco della Martesana, lungo il naviglio che gli dà il nome.
(O viceversa).
Si stava bene, c’era stato un sussulto dell’estate, i bambini giocavano, ogni tanto passava un cane e dava un’occhiata.
Gli amici, che sanno stare al mondo, si erano portati un secchiello di ghiaccio con dentro una bottiglia di Pecorino, vitigno dal nome simpatico, in certe situazioni, lo capisco, impresentabile, diffuso in poche regioni d’Italia.
Mentre facevano il cruciverba, ogni tanto mettevano nel ghiaccio anche i bicchieri.
Perché, con il sussulto dell’estate, faceva ancora e di nuovo caldo, altrimenti che sussulto sarebbe stato.
E ai bicchieri il caldo faceva male.
Tutte le definizioni del cruciverba erano legate al vino.
Con questi medesimi amici faccio da mesi la degustazione del giovedì alle 19:00.
Loro là, io, qua.

Tutte queste cose, cruciverba, degustazione, amicizia, accadono, per me, in internet, ovvero io faccio clic sul mio computer e la magia comincia.
Situazione per me perfetta, non solo perché loro stanno a Milano e io a Roma, ma anche perché non amo la vita mondana, quindi da un po’ non mi piace più nemmeno vedere gli amici.
Almeno, mondanamente.
Da loro io compro il vino, che scelgo sul mio schermo, ma che però, molto rapidamente, arriva a casa mia in forma di pacco contenente bottiglie.
Il mese scorso un tipo mi ha chiesto come potevo comprare il vino, cui tenevo tanto, in modo così impersonale.
Impersonale manco per niente, io ho con questa gente un rapporto caldo e cordiale, che certe volte raggiunge punte di commozione, come quando, all’inizio del mese di agosto, non ho trovato nello scatolone il promesso Cruciverba dell’Estate, ho scritto, ho detto ve lo siete scordato e loro me lo hanno mandato, da solo, mi hanno mandato il cruciverba dentro una scatola tutta per lui.
Come fai a non commuoverti.
Pure se facessero solo marketing, andrebbe bene.
Ma secondo me loro, soprattutto, si divertono, si capisce benissimo, ieri si facevano un sacco di risate, con in mano il cruciverba e la matita con la gomma per cancellare.
A un certo punto è uscito pure il sospetto che fosse per il Pecorino, che non c’era più bisogno di tenere nel ghiaccio perché stava finendo.
Il cruciverba, che era un altro, non quello dell’estate, funzionava così: loro davano le definizioni, 5 lettere, «Quello di Avellino è bianco e fruttato» e si rispondeva via social, Instagram o Facebook.
Il primo che arrivava faceva un punto.

(Fiano, ovvio).

In palio c’era una fantastica bottiglia di Giulio Ferrari.
Io non ho comunicato nessuna risposta, per carità, mai mi sarei ingarellata con i concorrenti, ho guardato i loro profili ed erano praticamente tutti sommelier.
Però, qualche risposta giusta l’ho data anch’io.
Il Cruciverba dell’estate, invece, non ho nemmeno provato a risolverlo, perché io il cruciverba non lo faccio. In vita mia ho fatto cruciverba solo in compagnia, in situazioni di spiaggia o comunque di serate estive.
Dunque, il pieghevole che avevo ricevuto con tutti i crismi è stato sul tavolo della mia cucina e me lo sono, semplicemente, letto.
1 orizzontale, 8 lettere: La patria del Morellino. Se uno avesse dei dubbi e non sapesse che è Scansano, per prima cosa dovrebbe cominciare a farsi un po’ di cultura enoica, poi potrebbe aiutarsi con 1 verticale, 9 lettere: Prezioso rosso di Bolgheri, che comincia per S pure lui e che è Sassicaia.
Insomma, avete capito come funziona questa cosa geniale: facciamo marketing bevendo vino e giocando con le parole.

Il cruciverba mi ha sempre stupita perché ha un pubblico che non basta definire trasversale. Bisogna forse chiamarlo un po’ di più, che so, un pubblico tessuto connettivo sociale.
Risolvono cruciverba persone diversissime fra loro. Io ho conosciuto gente colta, molto svelta intellettualmente, che sapeva un sacco di cose in un sacco di campi e gente del tutto ignara di libri e cose simili, che arrivava al medesimo risultato degli altri in un modo che definirei tecnico, secondo me senza nemmeno capire che cosa stava facendo.
Un mio compagno del corso di tedesco, che, ricordo, si chiamava Vittorio ed era un assatanato, tutte le settimane ingaggiava una battaglia all’ultimo sangue (il suo) con Bartezzaghi padre. Mi raccontava tutto, come stava andando, i momenti di sconforto e quelli di trionfo, la tenzone era fra lui e le parole crociate, che prima o poi, comunque, risolveva.
Aveva appunto sette giorni di tempo.
Come sempre accade, anche ieri nel cruciverba si alternavano definizioni complesse e difficili con altre del tutto sceme (2 lettere «vecchie viti», dai, su, fosse «vv»), che chiunque avrebbe risolto, pure il bambino che passava davanti alla videocamera e faceva ciao ciao con la mano.
L’atmosfera era talmente giocosa, estiva, dolcemente alcolica, che gli ho fatto pure io un gesto di saluto.
Anche perché, voi sentite il Caso, che è sempre divino, avevo anch’io una bottiglia di Pecorino in frigorifero, quindi mi sono alzata, sono andata a prenderla, l’ho stappata e ho partecipato, dal vivo e sul campo, alla festa.

Insomma, una cosa bellissima e per niente virtuale.

Contrariamente al cruciverba, il gioco di parole è invece appannaggio solo di chi è ben strutturato intellettualmente.
Voi provate a proporre un gioco di parole a un illetterato, quello non capisce.
Né puoi spiegarglielo, sarebbe come spiegare una barzelletta.

Simone de Beauvoir racconta che all’inizio della sua relazione con Sartre, il primo uomo da lei incontrato capace di dominarla intellettualmente, quindi, per una come lei, da subito un interlocutore privilegiato, i due supplivano «con dei giochi e delle favole alla povertà del loro passato comune».
Voi pensate, siamo nella Parigi del 1929, lei ha ventun anni, lui, ventiquattro, lei gode di una libertà totale, ha preso in affitto dalla nonna, versandole del denaro, una stanza al quinto piano con un balcone che affaccia sui platani della rue Denfert-Rochereau.
«Potevo rientrare all’alba o leggere a letto tutta la notte, dormire in pieno mezzogiorno, restare rinchiusa ventiquattro ore di seguito, scendere all’improvviso per strada».

Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre a Parigi negli anni ’20

Loro due si frequentano assiduamente, hanno pochi soldi (le tasche sono «très plates», ovvero molto piatte, che è il contrario dell’averle belle gonfie), ma la cosa sembra non preoccuparli, trattano il lusso, che è loro proibito, con indifferenza e disdegno, loro sono destinati a grandi cose, diversamente.

E parlano.

Parlano giocando con le parole.
Sono entrambi di temperamento attivo, quindi inventano commedie, parodie, apologhi.
Fra i due, Sartre è il più inesauribile. Compone lamenti, rime, epigrammi, madrigali, favole pensate lì per lì, poesie lampo, certe volte canta le sue creazioni su «arie che inventa».
E la frase che indica l’invenzione è «de son cru», che si traduce con «tutto suo», che è un modo, certo, però, ve lo ricordo, il «cru», in francese, è un termine molto, molto legato al mondo enoico, è una zona di produzione, ma anche un vino di gran pregio.

Tutto si tiene, come sempre.

Se solo io penso a quanto mi ha toccata un paio di giorni fa uno scambio breve breve e semplice semplice con una persona cui tengo, e lo scambio era tutto giocato sul filo e io gli avevo scritto che gli avrei raccontato per filo e per segno e lui mi ha risposto «E io penderò dalle tue labbra», è il filo che pende, lo sappiamo tutti, il filo di Aracne che ha sfidato Atena in una pazza gara di tessitura e la dea, irata e per togliersi di mezzo la rivale, la trasforma in ragno, destinato a tessere in eterno.
E Veronese la ritrae nell’immagine allegorica della Dialettica.

Paolo Veronese, La Dialettica, 1577

Quanta, quanta ricchezza nelle parole.

Lo dice il cruciverba, lo dice la pratica quotidiana, lo dice anche quest’altra storia che riferisce Simone de Beauvoir.
Ascoltatemi bene.
Lei cita due miti: quello di Baladin, l’eterno errante, che maschera sotto belle storie bugiarde la mediocrità della vita; quello di Lépricone, lo gnomo accovacciato sotto le radici degli alberi, che sfida la sfortuna, la noia, il dubbio fabbricando «de petites chaussures», «delle scarpette».
Lascio perdere che Eduardo Scarpetta, attore e commediografo e padre di Eduardo De Filippo, è stato uno dei più grandi inventori di storie della nostra cultura.
E vi dico che, secondo Simone, entrambi i miti, l’avventuriero e il sedentario, insegnavano la medesima lezione: «prima di qualunque altra cosa, la letteratura».
E loro chiamavano «le nostre scarpette» i libri che avrebbero scritto.
E noi possiamo chiamare così le parole che ci sono fra noi.

Ve lo dico da professionista dell’immagine, ma da innamorata delle parole.
Sono le parole a fare la nostra vita.
Fosse solo in un cruciverba estivo, in un contatto su WhatsApp, in un libro o come stiamo scambiando parole noi.

Vi propongo in chiusura una canzone famosa ma a ruoli invertiti, con lui che si è stufato che lei usi solo parole.

Parole fra noi.