Edi (Little Helper), Walt Disney

Da ragazza, un uomo così non lo avrei degnato di un’occhiata.
Adesso mi piacerebbe conoscerlo.
Che diceva quella canzone, ah, sì: come si cambia.
Se gli togli gli scarponcini con i lacci e il giubbotto di pelle, potrebbe stare bene nella Bibbia, nel ruolo di un profeta o di un apostolo.

Michael

È giovane ma non giovanissimo, essendo un progettista, è nella sua fase d’oro, talento e esperienza.
(Prima o poi dobbiamo parlare dell’età degli uomini, e che solo quella delle donne).
Così mediterraneo, scuro, nato a Cipro, mi chiedo come stia nel grigio di Londra, se ogni tanto sente la mancanza del suo mare e dei suoi colori.
Ha studiato da ingegnere civile al London’s Imperial College of Science Technology and Medicine, poi ha conseguito un masters degree, che è la nostra laurea magistrale, in industrial design al Royal College of Art.
Insomma, è una persona seria.

Michael Anastassiades è entrato nella mia vita il 2/02/2022 perché mi sono comprata una sua creazione: la nuova lampada per il mio salotto.

Vado dal mio foniatra, l’ultimo in ordine di apparizione, per un controllo.
Come va.
Non è che vada bene, però lui mi rimanda in campo e vuole soprattutto sapere se me la sento.
Certo che sì, io sono una da combattimento.
Già che ci sono, rientrando, decido di scendere dalla metro a San Giovanni e di andare a comprare la mia lampada a piazza Zama.
Non tornerò a casa senza aver fatto l’acquisto, me lo sono messo in testa.
Quando mi metto in testa una cosa, è ben difficile che qualcuno o qualcosa possa fermarmi.
L’ora è perfetta, è ancora giorno, ma il pomeriggio volge al termine, dunque, fra un po’ le luci si accenderanno.
Non puoi vedere com’è una lampada con il sole, che le ruba la vedette, né puoi vederla a notte fonda, troppo teatrale, come niente prendi un abbaglio.

Il negozio è bello, fa angolo ed è vicino alla cartaria.
Il titolare mi ha già aiutato in passato per tutte le lampade nuove della mia casa, solo vedendo me e sentendomi raccontare, le ha indovinate tutte.
Ma allora perché non sei tornata prima da lui. Certo, che ci sono tornata, ma lui non era nella giornata giusta, mi ha fatto vedere un catalogo, ma era distratto.
Sono passati mesi e mi sono informata, meglio, esasperata.
Il 2/02 sono andata da lui a passo di carica, lui era impegnato con altri due clienti, il fratello è venuto a chiedermi se poteva aiutarmi, proprio non se ne parla, come dicono a Roma chi tocca bambino diventa padrino, io mi faccio un giro per l’esposizione e aspetto Fabrizio.
Qui ho già dato ragguagli sui miei itinerari di scoperta, che definire preoccupanti è poco e blando.

Non c’è un solo oggetto fra quelli che abbiamo in casa che non sia importante.
Non soltanto perché ciascuno di essi racconta una storia, ma perché tutto, dalla pentola per la pasta alla sedia, è stato progettato da qualcuno, fosse pure seguendo una tradizione di artigianato che solo da un certo momento in poi della storia del design è stata messa in discussione.
Ho detto pentola per la pasta. Io ne ho una che utilizzo, non so perché, solo per questo scopo, me ne sono resa conto riflettendo sull’uso che faccio degli utensili della mia cucina, credo che, essendo io italiana, per me far bollire l’acqua degli spaghetti è un rito primigenio, che non deve essere contaminato.

Ho un paio di passioni fra i designer attualmente in carriera e desidero coltivarle.

Michele

La prima è per Michele De Lucchi.
Una volta sono andata a salutarlo dopo un sua conferenza, presentandomi, chiedendogli di firmarmi il suo delizioso librino Gli attributi dell’architetto  («cavalleresco: architetto che prima progetta la porta e poi te la apre») e dicendogli che nella camera da letto ho la sua Luna.
Lui mi ha fatto un disegnetto con lui che guarda la sua, la mia, lampada, è un uomo alto, bello, elegante, simpatico.
La sua Luna, a oggi, era il momento più lirico della mia casa.

Mi piace molto anche Jasper Morrison, uno che più essenziale non si può, toglie tutto dagli oggetti per ridurli al loro concetto, ho girato un pezzo intorno a una sua cassettiera, avevo anche scelto il colore: burro.

Però mi dispiaceva sacrificare il mio comò déco per farle spazio, alla fine mi sono comprata solo una maniglia a sua firma, è l’unica moderna della casa e ci sta benissimo.

Jasper

Ma la nostra vicenda non è ancora finita, le storie d’amore, si sa, non sono lineari, stamattina, infatti, mi sono messa a guardare un suo divano.
In un’intervista per Flos Jasper Morrison dice che progettare lampade è una cosa difficilissima, lui sostiene che «la presenza fisica del design è solo una parte della qualità di un prodotto di illuminazione», poi parla di intangibilità e di imprevedibilità.
Io capisco che c’è una parte tecnologica preponderante e che poi la luce è quello che è, qualcosa di simbolico e di magico, che si inserisce in un ambiente in modo immateriale, mettendolo in movimento o paralizzandolo.
Inoltre una lampada deve funzionare in un ambiente da accesa e da spenta, c’è un cambiamento radicale nel ruolo e nell’aspetto.
Si capisce, quanto è difficile mettere giù un progetto.

Nel negozio di piazza Zama giro intorno a una lampada di De Lucchi, chiedo di accendermela.
Fabrizio ha finito con i due clienti.
Sta lì, davanti a me, stavolta tutt’orecchi.
Sono molto precisa, uscirò da lì solo dopo aver fatto il mio acquisto, voglio una lampada da terra con la lampadina avvitata, non voglio una scheda a LED incorporata.
Gli mostro la foto del mio salotto, con l’angolo occupato al momento dalla vecchia piantana che traballa.
Vedo mettersi in azione l’istinto, come un rabdomante, lui mi strappa da De Lucchi e mi porta verso il mio oggetto.
«Ecco – mi dice – è questa».
L’avevo già notata, ma, finalmente, la vedo.
Mi investe un flusso di impressioni, che sono capace di descrivere con tre parole: equilibrio, gioco, poesia.
La sera, rientrando e facendo una ricerca, mi rendo conto che ho centrato il bersaglio.
Qui le possibilità sono due: a. la lampada è molto eloquente; b. io sono in fase di grande recettività.
Se mettete insieme le due cose, siamo a buon punto.

«La serie IC Lights di Michael Anastassiades è uno studio sull’equilibrio. Il London-based designer ha trovato ispirazione nel lavoro dei giocolieri, che con grazia spingono globi sul corpo. Anastassiades evoca questo ipnotico movimento con una collezione di lampade nelle quali il diffusore in vetro soffiato si proietta ad arte da un telaio di acciaio».
Il sistema di illuminazione è disponibile in 27 (ventisette) opzioni, per stile e finiture.

A me ne basta una sola.

Mi metto a cercare e trovo notizie del più grande giocoliere del mondo: Enrico Rastelli, bergamasco, muore a trentaquattro anni all’improvviso, lasciando il mondo senza parole, dopo una vita breve ma di onori e di successi.

Enrico (1896-1931)

Simbolo degli anni Venti, è stato il gran signore dell’equilibrio, un mito della giocoleria e la sua fama è pari a quella di Houdini nell’illusionismo.
Non lo conoscevo e la mia avventura si fa sempre più colma di colori e di presenze.

Fabrizio mi dice che mi fa vedere la lampada accesa.
È un uomo alto, quindi svita il globo di vetro da pari a pari.
Dentro c’è una lampadina, che lui sostituisce con quella appena arrivata, a luce calda.
Una lampadina a modo suo autentica. Lasciamo perdere che è frutto di uno special design and engineering for Flos, quello che vedo è che si svita e si avvita.
Lasciamo perdere anche il prezzo, pari a quello di una lampada IKEA. Completa.
È una lampadina che si chiama a siluro, deve passare nel foro di base del globo, mm 38, è garantita due anni.
Primo Levi sostiene che «esiste un Dio che protegge i bambini, gli stolti e gli ebbri».
Immagino e spero che protegga anche coloro che hanno il coraggio di mettersi in casa una lampadina che delle sue consorelle ormai ha solo un’eco pallida pallida.
Lui mi fa un conto su una pagina del suo blocco di appunti.
Dico che non me ne importa niente e che voglio farmi un regalo e che voglio che sia bello.
Mi chiede se lascio un acconto.
No. Pago tutto. La lampada è mia e non devono esserci dubbi.
Me la porta lui personalmente venerdì, cioè oggi, sono contenta perché così vede le altre sue lampade nel loro ambiente.

A casa, la sera, elimino la vecchia piantana traballante, pulisco e lavo l’angolo: preparo la culla per la lampada nuova.

La mattina del venerdì è di attesa e di emozione.
La ragazza che fa le ore, si definisce lei così, ripassa il pavimento del salotto, che io già avevo pulito, fino a farlo brillare.
Ore 13:15: chiusura negozio, breve percorso in macchina, citofono.

Evviva.

Ecco la mia casa, ecco le lampade, il Polipò dell’ingresso, la Luna della camera da letto, il Prearo sul grande tavolo del salotto.
Le lampade industriali della cucina.
Leggo la soddisfazione sulla faccia di quest’uomo, che fa un lavoro difficile e lo fa benissimo, lui minimizza, mi dice che il negozio è di famiglia e che lui ci è cresciuto dentro.
Ma non basta.
Il suo è un istinto visionario, lui ammette di aver visto oltre la vista che avrebbe avuto conoscendo gli ambienti.

Forbici, scatolone, lo stelo è avvolto in un nastro di protezione.

Il globo sorge dall’imballaggio come il sole sale sull’orizzonte.

In pochi minuti la lampada IC F2 prende il suo posto nell’angolo che le era destinato, da sempre.

La IC F2 di Michael Anastassiades al suo posto

Tutto quello che è accaduto prima è un incidente.
Ho avuto lì altre due lampade, voi sapete quando si incontra la persona giusta, uno dice che prima di lei erano state fatte delle prove tecniche di trasmissione di sentimenti.
Come in questo caso.
Poi, però.

Fotografare le lampade è una cosa difficilissima, figuriamoci se ci riesco io col mio telefono a fronte delle foto, comunque anch’esse bruttine, che sono fatte da professionisti e che animano i siti delle aziende e dei progettisti.

Il nuovo aspetto del mio salotto

Ma ci tengo a farvi vedere l’insieme.

La luce è ovviamente dimmerabile: lettura, conversazione, cena nell’altra zona della stanza, a lume di candela.

È incredibile come la new entry metta in discussione tutto il resto.
Devo togliere le riviste dal tavolo, devo cambiare il divano, mi tengo sicuramente la mia vecchia poltrona, devo far ridipingere tutto, ma questo già lo sapevo, solo che adesso il progetto è diventato un’urgenza.
Io e la ragazza che fa le ore guardiamo incantate l’effetto, lei dice che per ora nemmeno dobbiamo pulirla e questa cosa la trovo molto bella.
C’è una naturalezza, in tutto questo, che è qualcosa di importante, le cose non puoi forzarle, le cose si devono fare da sole.

Voi pensate a tutti gli abiti e a tutte le scarpe che avete provato in vita vostra, a tutte le persone con le quali siete entrati in contatto, pensate a tutte le case e a tutte le stanze di albergo che avete abitato.
A tutte le macchine che avete guidato.
Alle sedie che avete utilizzato per sedervi, a una cena, in una riunione di lavoro, in un caffè in cui avete avuto un incontro con un senso.
Ai telefoni che avete tenuto in mano.

Pensate a quanto sono rare le occasioni in cui la naturalezza si sposa con l’emozione.

Comunque, se stasera mi cercate, come avrete capito, mi trovate nel mio salotto, sotto la mia nuova lampada.

(E non sto nemmeno a raccontarvi che a casa mia ci sono altri tre globi, due piccoli e uno grande, ovvero tre lampade originali degli anni ’30, che ho da sempre e che sembrano essere stati tutti, esattamente come me, ad aspettare che arrivasse il loro complemento. Bello, anche questo, non trovate?).

Globo porta globo (e lo fa benissimo)

«rituale: tutto è alla fine una cerimonia: come fotografare i propri prodotti e i propri edifici quando sono pronti».
(Michele De Lucchi, Gli attributi dell’Architetto, 2014)