Jane Campion, The Piano, 1993

Nudo, l’attore è inguardabile.
Over 50, basso, tarchiato, con qualcosa più di un inizio di ginecomastia, ovvero con mammelle quasi femminili, il pene penzoloni fra le gambe, che, in quello stato, sembrando lui una scimmia, almeno lo libera dall’immagine della scimmia in foia.
La faccia tatuata.
La bocca come un orifizio di salvadanaio.
In più analfabeta.
Le unghie orlate perennemente di nero.
Uno che se la fa con i selvaggi.
Eppure bastano un paio di secondi e una donna lo comincia a guardare diversamente.

George

È l’occhio dell’autore che guida lo sguardo dell’altro e dunque lo sguardo, inaspettatamente, prima accetta, poi compie un balzo fino al desiderio.
E il desiderio circola per tutto il film, come un refolo di vento che sale su se stesso, a tratti e ti trasporta.
E in questo caso l’autore è una donna, quindi, una regista che, per forza di cosa, rappresenta se stessa.
E arriva al capolavoro, che è rimasto tale anche dopo ventotto anni.
Anzi, se possibile, la bellezza del film è aumentata, sarà che è passata la vita, sarà che è cresciuta l’esperienza.

Parlo per me, ovviamente.
E per chi volete che parli.

Il film The Piano di Jane Campion in Italia è uscito come Lezioni di piano.
Una bestialità fra le tante della nostra cinematografia, che doppia e traduce come se il pubblico fosse deficiente.
Laddove non sono le lezioni, bensì è lo strumento a dominare per tutta la narrazione.
Ada parte dalla Scozia.
Metà Ottocento. Lei ha sposato per procura un inglese proprietario terriero che risiede in Nuova Zelanda e lo raggiunge con un viaggio che non riesco nemmeno a immaginare, portandosi dietro armi, bagagli, gabbia dei polli, figlia ragazzina che non sapremo mai come ha avuto e il suo pianoforte, un Promperger.
Ricordo bene che la regista, che ha anche scritto il film, raccontò di essere partita da una strana immagine di quello strumento musicale su una spiaggia per elaborare la storia.
Quando si dice: decontestualizzazione.
Una pratica comune nell’arte. Che ci fa un pianoforte su una spiaggia.
Ada è muta da quando aveva sei anni, un giorno ha smesso di parlare.
Il padre dice che lei ha un «dark talent» e che potrebbe anche decidere di smettere di respirare.
(Se pensate che io stia andando in cerca di film in cui c’è un protagonista che ha qualche difficoltà con la propria voce, siete nel giusto. Ne incontro spesso e poi, che c’entra, ho tutto il cinema muto da indagare).
La Nuova Zelanda è piena di fango, piove continuamente.
Non solo.

Ada & Flora

Siamo in quella fase storica in cui le donne sono serrate in un carcan di abiti che vanno dalla crinolina al busto, passando per i mutandoni e terminando con gli stivaletti e la cuffia rigida arricciata e con i nastri. Ed è esattamente questo abbigliamento, così costrittivo, così suggestivo, a creare lo spazio in contrasto con l’ambiente, la foresta lussureggiante nella quale risuonano le strida degli uccelli, una pioggia che nemmeno Blade Runner.

Ada

La crinolina è una gabbia, anche metaforica.
Ed è sotto questa gabbia, alla luce di una lanterna, che Ada ripara Flora sulla spiaggia, mentre aspettano che qualcuno venga a prenderle.

La tenda

Idea incantevole, che accende, letteralmente, la narrazione e allude all’attesa.
Si attende sempre offrendo una luce di orientamento, proprio come Ero tutte le sere accendeva una lampada perché Leandro, che attraversava a nuoto l’Ellesponto per raggiungerla sull’altra sponda, sapesse dove dirigersi.
Il senso del concetto di faro.

Evelyn De Morgan, Ero, 1885

Esiste al cinema, ormai codificato, il «male gaze».
Si capisce al volo, ma spiego.
Arriva la Bond Girl di turno e la cinepresa la indaga, di solito mentre è poco vestita, inquadrando il suo corpo pezzo per pezzo, i seni, le natiche, dalla testa ai piedi una donna è desiderabile.
Mai desiderante.
Il giochetto sta tutto lì.
Perché qui sta la rivoluzione di Jane Campion, nell’aver mostrato il nascere del desiderio in una donna, fra l’altro incarcerata nei suoi vestiti, fra l’altro muta, fra l’altro alle prese con qualcosa che, evidentemente, nemmeno lei capisce e che la invade e la sconcerta.
La potenza del suo film sta nell’aver spostato il punto di vista.

George & Ada

Sembra facile, ma non lo è.
Bisogna affrontare, a questo scopo, secoli di educazione e di cultura, bisogna avere il coraggio di creare.
Il film respira erotismo e romanticismo, il mezzo selvaggio che ha trasportato il piano dalla spiaggia a casa sua, una specie di capanna che però si trasforma presto in nido d’amore, propone a Ada di restituirle lo strumento poco per volta, pezzo per pezzo, in cambio di alcune sue concessioni, togliere la giacca, toccarla, guardarla nuda, stendersi nel letto con lei.
Capiamo che lei rivuole il suo pianoforte, ma che piano piano comincia anche a volere lui.

Il buco nella calza

Il momento in cui lui le mette un dito nel buco della calza diventa nel nostro immaginario la scena più sensuale che abbiamo vissuto in vita nostra.
Io penso e dico spesso che gli australiani, e con questo termine indico tutti quelli che stanno in Oceania, sono dei selvaggi, è colpa loro, che sono così disinvolti, se da aprile a novembre da noi in città girano uomini in calzoni corti.
Poi mi ricordo che esiste l’australiana Jane Campion e tutta la civilizzazione che io, europea, italiana, romana, ho sulle spalle si smarrisce davanti a tanta sapienza.
La regista conosce molto bene la storia dell’arte.
È un’esteta, una con un’attenzione ossessiva alla forma, fra l’altro è talmente seducente nella narrazione che fai pure fatica a concentrarti su alcuni dettagli.

Ada

Ma è meglio se sui dettagli ti ci concentri, perché escono fuori cose molto interessanti.

Per esempio, lei conosce molto bene e cita Fernand Khnopff, il più dandy dei decadenti, il belga semi incestuoso che davvero fece della sua vita un’opera d’arte.

Un paio di esempi, ripresi dalla mia televisione.
Ada con le braccia nella medesima posizione delle prove fotografiche fatte da Khnopff con la sorella Marguerite per il suo dipinto Memories.
Vi invito a guardare il quarto scatto da sinistra.

Fernand Khnopff, Prove fotografiche per Memories, 1889

Ada

E ancora: Ada che si guarda nello specchio e bacia la sua immagine, dopo che ha fatto l’amore la prima volta con George il selvaggio.
Ogni donna è capace a riconoscersi in questo gesto.
Ci vediamo sempre e comunque attraverso lo sguardo dell’altro e se lo sguardo è quello di un uomo che ci desidera, ecco che l’atto del completamento avviene.

Fernand Khnopff, Mon coeur pleure d’autrefois, 1889

Poi, se vi piace, raccontatevi tutte le storie che più vi aggradano sull’indipendenza femminile dallo sguardo maschile, facciamo che oggi lasciamo perdere e torniamo sull’argomento un’altra volta.

Quando il marito di Ada, un volenteroso che nemmeno capisce bene se lei è matta oppure se è solo una donna difficile che richiede pazienza, quando viene a sapere della tresca, giustamente, si infuria.
Perché, voi, al suo posto, che cosa avreste fatto.
E le taglia un dito con l’accetta.

Ada

E quella scena, che sconvolge e sconcerta, diventa per noi l’incarnazione cinematografica di tutti i momenti in cui in vita nostra siamo stati sorpresi da qualcosa di inatteso e di violento.
Perché così funziona il cinema, quello grande: ti offre la possibilità di identificarti, quindi di esistere, al di là di quello che sta accadendo in quello specifico momento.
Il dito tagliato di Ada, che sarà sostituito da George con una protesi metallica che fa clic clic, proprio come succede alle dita quando toccano la tastiera del computer, è per noi la summa di tutti i nostri dolori.

Ada

Si dice, no, quando perdiamo qualcuno, è come se mi avessero tagliato un braccio.
Una metafora.
Ma la vita, se non è capace di metafore, che vita è.

«Dear George, you have my heart Ada McGrath»

A scatenare la reazione del marito era stato il tasto del pianoforte che Ada aveva staccato dallo strumento per mandarlo a George e sul quale aveva inciso la sua dichiarazione d’amore per lui.
Come se lei gli avesse dato un pezzo di sé.

Il piano finirà sul fondo del mare e questo sarà il segno che si fa il posto per un altro, nuovo strumento.

The Piano

Un’ultima nota.
La ragazzina.
Meglio, come sono i ragazzini nei film di Jane Campion.
Essi non hanno niente a che vedere con quelli del nostro cinema, per non parlare dei ragazzini della nostra pubblicità. Ce n’è una che sento alla radio che ti invita a comprare il cibo per gli animali che vorrei sapere dove abita per andare a trovarla per suggerirle di cambiare mestiere.
Se frequentate solo il cinema italiano e i film doppiati, voi non avete idea di come si possa essere ragazzini senza essere petulanti, ammanierati, insopportabili.

Voi non avete idea di che cosa sia capace a creare di inedito e di potente Jane Campion, anche con i ragazzini.

Flora