Roma, piazza di Spagna, tempo fa

Ieri mi sono truccata, pettinata, vestita e ho fatto quello che fanno da sempre le signore: sono andata in centro.
Quando sono rientrata ero ormai convinta che, non so a Milano (anche se a me, di Milano), ma sicuramente a Roma, si può vivere senza andare in centro.
Perché il centro di Roma è diventato infrequentabile.
Definitivamente.
Ma perché sono andata in centro. Perché volevo fare acquisti che non mi andava di fare in internet: profumo, ombretto marrone, calze, bagno schiuma, cercavo anche il balsamo per i capelli.
Che non ho trovato.
E che ho comprato oggi in internet.

Ma procediamo con ordine.

La prima cosa sono le macchine. Uno dice ma perché ci sono tutte queste macchine nella zona pedonale, manco sulla Tuscolana.

A via della Croce sono passate tante di quelle macchine quando ci stavo passando io, che mi sono chiesta perché dovessimo proprio passare insieme allo stesso tempo, tutte macchine grosse, poi, evidentemente i residenti pensano delle city car quello che penso io, che esse siano una cosa un po’ a metà fra la macchinetta dell’autoscontro e la 313 di Paperino, insomma, io, se posso, su una city car non ci salgo.

La 313

Insieme alle macchine ci sono le biciclette. Quasi tutte senza luci di segnalazione, tante di quelle con le rotelline piccole piccole che sembrano il Cirillino sul quale ho imparato ad andare io quando avevo cinque anni e che sospetto fosse già servito allo stesso scopo per mia madre e i suoi fratelli e che so servì per i cugini più giovani.
Resta che un adulto su un Cirillino, non è che ci stia benissimo.
Poi ci sono i monopattini: Esodo, 10. Se non vi ricordate di che cosa tratta, ve lo dico io.
«Allora il Signore disse a Mosè: “Stendi la tua mano sopra l’Egitto, per far venire le cavallette, ed esse invaderanno l’Egitto…”», l’ottava piaga.
Qui le piaghe non le ho contate ma sono sicura che con una piaga abbiamo a che fare: buttati di traverso sul marciapiede, usati per fare i caroselli nelle piazze che una volta furono bellissime da ragazzini che non si capisce perché le madri, dopo averli fatti, non se li tengano un po’ a casa, i monopattini hanno invaso la città.
Che è cascata dalle nuvole, nel senso che non sapeva che altrove, per esempio a Parigi e a Berlino, l’invasione è in atto da anni e sono stati presi provvedimenti molto seri perché già da loro non se ne poteva più.

Poi ci sono i locali. Tutti i locali, anche quelli dove il cappuccino costa sei euro e la qualità è talmente discutibile che in città serie come, mettiamo, Parigi, New York ma anche Napoli, che non ha niente da invidiare a nessun’altra città, che, dicevo, in città serie non sopravviverebbero nemmeno mezza giornata per via di una concorrenza spietata sul piano dell’imbottitura dei panini e del resto, insomma, tutti i locali hanno messo i tavolini fuori.
Complice il caldo, le ottobrate romane sono leggendarie, stanno tutti all’aperto, dunque, fra macchine e gente, non sai più dove passare.
Puoi comunque goderti lo spettacolo del turista che mangia gli spaghetti con forchetta e coltello.
Del resto si viaggia anche per imparare gli usi locali, per accrescere le proprie conoscenze gastronomiche.
A questo punto, però, io proporrei di far trascorrere al turista colpevole di tale misfatto un paio di giorni a Regina Coeli.

Casa circondariale Regina Coeli

A Roma si dice che se non hai mai salito quei tre gradini che portano dentro il carcere, non sei romano.
Immagino la gioia dell’americano in trasferta che vive un’esperienza che lo mette a parte totalmente della romanità più romana.
Altrimenti, che viaggi a fare, pensa solo al fuso orario.
Stanno all’aperto anche a piazza di Spagna, dove la storica sala da tè ha allestito uno spazio che non ha nemmeno uno straccio di protezione a parte i cordoli, che sono i medesimi che, mi ricordo, misero a Termini quando fu inaugurato il Frecciarossa.
Alla stazione c’era però anche il tappeto delle grandi occasioni.
A piazza di Spagna, no.
Se uno ricorda quanto era bello quel posto quando c’erano le cameriere che sembravano tutte zitelle inglesi e dove facevano un tè all’altezza dell’High Tea di, mettiamo, Fortnum & Mason al 181 di Piccadilly, London, è giusto che abbia voglia di piangere.

Afternoon High Tea, Fortnum & Mason, London

Fra l’altro, all’aperto proprio all’aperto, manco una frasca per ripararti dall’umido del pomeriggio tardi.
Con tutti quelli che vanno a prendere la metropolitana che guardano che cosa hai nel piatto.
(Sono, dunque, solo io a pensare che mangiare sia un atto intimo e privato e che ci debba essere la giusta atmosfera per praticarlo in pubblico).
A piazza di Spagna bisogna aggiungere anche la baracchetta per i test, accampata davanti alla farmacia, con l’aria ancora più provvisoria del chiosco dei gelati sulla spiaggia.
Almeno quello fa colore ed estate.

Poi ci sono i negozi.
O, meglio: c’erano.
Alcuni hanno chiuso, altri hanno cambiato di destinazione (infatti a via del Babuino, dove volevo comprare il balsamo per i capelli americano, c’era un outlet), altri non si capisce che fine abbiano fatto.
Quello dei piumini, da indossare, non da spolvero, era sbarrato e aveva un grande cartello che diceva «Visitate il nostro temporary store», senza però dirti dove il temporary store stava.
Così ti passa la voglia.
Ed io che ero andata in centro anche per farmela venire e non solo per fare acquisti.

E passiamo al profumo.
Chiusa la sede di via di Ripetta, era aperta quella di via Vittoria.
Avevo anche telefonato prima perché cercavo la mia profumiera, che ora lavora lì ma che era in ferie.
Lei è brava e di recente mi aveva già aiutato a fare il difficile passaggio dal mio profumo storico, che aveva cambiato componenti ed era diventato irriconoscibile, ad altro.
Io sono una donna: 1. abitudinaria 2. fedele (il punto 2 dipende dal punto 1), dunque cambio qualcosa nella cosmesi sempre e solo per colpa dell’altro.
E adesso è successo che il nuovo profumo che stavo usando (due mesi e mezzo di tentativi per trovarlo) è stato «discontinuato».
Me lo ha detto la nuova profumiera, che avevo conosciuto al telefono e che ieri sono andata a trovare, ma me ne ero accorta pure io.
Nella mia vita ricordo con profondo malessere un paio di episodi legati a prodotti discontinuati.
1. Il fondotinta, per il quale avevo scritto una lettera di fuoco all’azienda in Giappone, che mi aveva fatto telefonare dalla sede di Milano e che mi aveva mandato a Roma un make up artist con il quale mi aveva fissato un appuntamento. Altri tempi, suppongo. Ci vedemmo, lui mi truccò, dandomi una profusione di ottimi consigli e dicendomi pure, nemmeno troppo fra le righe, che era del tutto d’accordo con me e che il mio fondotinta storico era eccezionale e certamente non sostituibile con quello della nuova linea. Come fu come non fu, l’azienda dopo poco tirò fuori un altro fondotinta, non più in stick (l’altro era contenuto in un magnifico astuccio di lacca, ne ho ancora uno in guardaroba) bensì liquido, ma di un liquido che assomigliava molto come consistenza all’altro. Lo adottai entusiasticamente e l’ultima volta ne ho comprati due flaconi, ormai vivo nell’angoscia che mi discontinuino pure questo. Ognuno ha le angosce che si merita.
2. Il correttore. Mi trucco da quando avevo dodici anni e il correttore è la prima cosa che ho usato. Ne ho cambiati alcuni, ma pochi, almeno relativamente alle centinaia di mascara, ombretti, ciprie e rossetti che ho utilizzato. Sono stata anche qui fedelissima, fino a che non mi è scoppiata un’allergia. Altro, spinoso, problema. Insomma, alla mia angoscia di cui sopra, si è aggiunta quella che sia discontinuato il nuovo correttore, incontrato dopo una vagonata di tentativi e il cui colore mi fu scelto da un altro make up artist, stavolta a Parigi, in uno dei miei soggiorni che mi ostino a definire di studio e che spesso si risolvono (anche) in incursioni cosmetiche. Perché lì sono bravi e sanno di che cosa stiamo parlando.

A quest’ultimo proposito.
Le mie due profumiere, Alice e Miriam, sarà un caso oppure non sarà un caso per niente, non sono romane.
Una di Brescia, l’altra di Padova, da noi risultano perfino esotiche.
Comincio col dirvi che secondo me il profumo somiglia molto al vino.
I due mondi si toccano, usano un linguaggio affine, sono entrambi complessi, evocativi, difficili da penetrare.
In francese c’è anche un’espressione che suona così: «Qu’importe le flacon, pourvu qu’on ait l’ivresse».
Io ho pure un foulard che si chiama in questo modo, pensandoci, mi è venuta la voglia di tirarlo fuori.

«Qu’importe le flacon, pourvu qu’on ait l’ivresse».

(Bello, avere voglia di qualcosa).
L’autore dell’aforisma è Alfred De Musset, che la sapeva lunga su un sacco di argomenti.
La frase, tradotta, suona: «Non importa il contenitore, purché ci sia l’ubriachezza».
Ovvio che allude alla legittimità di qualunque sentimento, a qualunque persona sia destinato, però l’interpretazione del foulard è rappresentata tutta da boccette di profumo.
Ma quello che voglio dire è che conosco molta gente che si è fatta il corso del vino, alcuni diventando anche professionisti, ma non conosco nessuno che abbia studiato i profumi, solo queste due giovani donne, che stimo tantissimo ma con le quali ho solo rapporti, chiamiamoli, commerciali (anche se i miei rapporti con loro non sono poi tali, andiamo, come fai, col profumo e con tutto quello che ci sta dentro).
Insomma, perché, mi chiedo, perché tutti quelli, femmine e maschi, che da noi studiano cose profondamente improbabili non hanno mai pensato di studiare il profumo.
Forse da noi non ci sono le scuole.
Forse è troppo impegnativo (ma dai).
Forse è un mondo misterioso e inafferrabile.
Forse è un mondo in cui ci sono troppi riferimenti: chimica, ma magari fosse solo questo, storia, marketing, design, letteratura.
Arte.
Comunque mi sono presentata a Miriam attraverso le mie fragranze predilette, che nella mia vita ritornano di continuo.
La vaniglia, che mi illudo sia capace di addolcirmi.
Gli agrumi, che mi corrispondono in pieno, come mediterraneità e asprezza mescolata a energia e versatilità.
Il sale, che preferisco mille volte allo zucchero.
La rosa, che mi appartiene come nome e come destino.
Le ho detto che lavoro facevo.
Le ho detto che ero molto felice di conoscerla (soprattutto ieri, soprattutto in quel centro di Roma).
Sveglia, la ragazza.
Ci ha preso al primo colpo, presentandomi una maison che fra l’altro ha il medesimo nome di uno dei miei artisti prediletti.

Carlo Crivelli, Madonna della candeletta, 1490, part.

Poi abbiamo fatto finta di guardare altro e sono uscita dal negozio dopo un’ora abbondante con un certo numero di tester e di informazioni.
Il profumo cambia, di continuo, sulla pelle, a seconda delle stagioni, segue l’umore, io, poi, che sono una maniaca dei nomi e delle vicende che li hanno generati.
Ovvio, che non ho comprato niente, ma ho detto torno, non dico domani perché voglio dormirci sopra e provare tutti i profumi, ma è da stamattina che ho deciso che ieri abbiamo visto giusto e colpito il bersaglio.
E sto qui, mentre scrivo, che mi spruzzo il vaporisateur e che ho passato al setaccio il sito della maison e che affondo nell’evocazione di una passeggiata sul bordo del mare, fra campi di rose appena sbocciate e messe insieme dal vento.
E dentro c’è anche l’arancia sanguigna.
E poi sale, sale, sale.
(Del resto, mi pare che si dica il sale della vita, mica lo zucchero della medesima).
(Quanto mi piacciono, i deliri).

Non mi pare un caso, che un sommelier serio non faccia uso di profumo.
E come fai, andiamo, su, a mettere insieme l’uno e l’altro, a trovare un accordo fra ciò che è così simile, prepotente, capace in un attimo di aprirti un intero universo di percezioni.

Di tutto il resto, ombretto marrone, calze e bagnoschiuma, parliamo un’altra volta.
Vi assicuro che ce ne sono, di storie da raccontare.
Adesso mi piace chiudere dicendovi che domani mi trucco, mi pettino, mi vesto e faccio quello che fanno da sempre le signore: vado in centro.
Ma solo a comprarmi il profumo, sia ben chiaro.
Insomma, per l’ultima volta.
Un po’ perché voglio ringraziare Miriam, un po’ perché sono certa che la confezione che lei mi farà del mio flacone sarà più bella e invitante di quelle di internet.
E che mi farà venire, o ritornare, come preferite, la voglia.
Di che cosa, ne parliamo presto.