Clara Peeters, Natura morta con formaggi, carciofo e ciliegie, 1625

I Sapori dell’arte, 8. Lunedì 14 maggio 2018:  Sapore di sale

Come in ogni blog di successo, parliamo pure noi di cucina.
E in cucina il sale domina, senza sale si cucina da malati e malamente, l’importante è conoscere quel paio di regole indispensabili: 1. L’acqua della pasta, così vitale per noi italiani, deve essere salata come il Mediterraneo. 2. Il sale nei cibi non si deve sentire, nel senso alto e nel senso basso, ovvero il cibo non deve sapere di sale (che si mette nei cibi, cucinando, per esaltarne il sapore), né di sale deve mancare.
In quest’ultimo caso il cibo è sciapo, che è un sinonimo di sciocco, termine che si usa anche con le persone, a indicare quanto, mancando esse di sale, «simbolo del senno, della saggezza, dell’intelligenza», mancano di alcune delle virtù più importanti per stare al mondo, mettendo io al primo posto l’intelligenza, che apprezzo sempre molto, laddove, come è noto, il senno, per la precisione quello del poi, riempie le fosse e la saggezza va presa cum grano salis, cioè con un grano di sale, ovvero con discernimento.
Insomma, non esageriamo, a diventare saggi si fa sempre in tempo.


Ancora una volta invento il mio gioco e ne stabilisco le regole.
Decido dunque di occuparmi del sale insieme alle lacrime e al sudore, che di sale sanno.
Basta assaggiarli, le une e l’altro.
Ma non svelo la mia lezione, dunque, sono sintetica e faccio vedere altro.

Per esempio il video della canzone (primitivo, ma la canzone rimane bellissima) dalla quale ho tratto il titolo di oggi.

Due parole, però, sull’opera di apertura servono, legate come sono a quel contenitore sulla sinistra.
Clara Peeters è una pittrice fiamminga del XVII secolo, un caso raro, una donna artista, che, fra l’altro, viaggia e si sposa quando non è più giovanissima, a 45 anni.
Di lei si conoscono solo 25 dipinti, che bastano però a comprenderne il talento, qui messo in evidenza sia dal virtuosismo che dalla costruzione della sua magnifica natura morta, con l’alzata dei formaggi che termina nel piattino di burro e che forma quasi un blocco compatto, mentre gli altri elementi sono un po’ sparsi sulla tavola, ciascuno con un suo ruolo e una sua funzione.
E vediamo tutte le diverse materie, duri i formaggi, che recano sulla pasta il segno del taglio, morbido e untuoso il burro, la crosta del pane, i segreti rivelati del carciofo tagliato a metà, che sembra un sesso di donna.
E la piccola torre del sale, che dà il segno dell’accuratezza con cui è stata imbandita la tavola, anche se capiamo che non ci stiamo accingendo a pranzare, i cibi stanno lì per la forma, la consistenza, il colore, al massimo possiamo sperare in un panino al formaggio con un paio di ciliegie di accompagno.

Mimmo Paladino ha realizzato nel 1990 una Montagna di sale, più precisamente l’opera si intitola La sposa di Messina ed è nata come scenografia, poi duplicata per installazioni in città diverse, sempre  con un effetto potentemente teatrale, i cavalli arcaici conficcati nella materia, quel senso di Sud che tutto domina, il sale come memoria di un elemento prezioso, ma anche di disfatta, non venne forse sparso sale sulle rovine di Cartagine dopo la Terza Guerra Punica, per renderla simbolicamente sterile e impedirle di rinascere?
Quanta densità di significato per del semplice cloruro di sodio, «solido cristallino isometrico, inodore, di sapore salato-amaro caratteristico, facilmente solubile in acqua, incolore e trasparente alla luce, largamente diffuso in natura disciolto nelle acque del mare e in quelle di alcuni laghi e sorgenti (detti perciò salati)».

Mimmo Paladino, La montagna di sale, 1990

La via Salaria

Vi ricordo anche che a Roma c’è la via Salaria, ovvero la SS (strada statale) 4, che va dalla Città Eterna a Porto d’Ascoli, che serviva a trasportare il sale.
E vi ricordo pure che, se lavoriamo, percepiamo un salario, «propriamente razione di sale, poi indennità per l’acquisto di sale e di altri generi alimentari concessa a funzionari della magistratura e dell’esercito, quindi, nel latino imperiale, stipendio, retribuzione».

E che il sacerdote, nel sacramento del battesimo, mette un pizzico di sale sulla lingua del battezzando, chiamandolo sale della sapienza.
Vi basta?

Voi pensate che la vita sia una valle di lacrime.
Potreste avere ragione, ma in diversi sensi. La lacrime, infatti, «sgorgano più abbondanti per viva commozione, per dolore fisico o morale, o anche nel moto convulso del ridere».
Ve lo dico io, che ho le lacrime in tasca, ovvero mi commuovo facilmente, e che ho pure il riso smodato, che sembra una cosa impresentabile per una signora ma che consiste semplicemente in un’imprecisa chiusura di un muscolo che tiene le lacrime al loro posto e che le lascia uscire quando si ride tanto.
Almeno così mi disse il collega di Anatomia in una commissione di esami di cui conservo un ricordo ottimo e, appunto, divertito.

Interessante pure che ci siano dei vitigni che si chiamano lacrima, diffusi particolarmente nelle regioni centromeridionali, evidentemente quelle più inclini a manifestare i loro sentimenti.
Dai vitigni si ricavano i vini che hanno la lacrima nel nome, per esempio il Lacrima di Morro d’Alba marchigiano o il Lacryma Christi del Vesuvio, che apprezzo molto.
Insomma, non tutte le lacrime vengono per nuocere.

Il Vesuvio e i suoi vitigni di lacrima

Ma ascoltiamo ora il grandissimo Giuseppe Di Stefano in un’aria famosa, che contiene pure una famosa lacrima.

Si piange nell’arte?
Sì, abbastanza.
Piange, per esempio, la Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, evidentemente poco contenta del rapimento da parte di Plutone.
Tranne poi ricredersi, evidentemente sedotta dalla vita coniugale, scendendo a patti con la madre Cerere, la dea delle messi, che la cerca disperatamente, vagando con una torcia accesa,  rendendo sterile la terra.
Un bel guaio.
Al punto che Plutone accetta il patto: la sua sposa trascorrerà un terzo dell’anno con la madre, che torna a occuparsi della fecondità del mondo.
E ciò avviene nelle stagioni che ben conosciamo, quelle che portano con sé i frutti più abbondanti.

Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621

Man Ray, Lacrime, 1932

Si piange in Man Ray, anche se sono lacrime finte.
Si piange con Picasso, o, almeno, con lui ha pianto Dora Maar, che, lasciando da parte la complessità della loro relazione, veniva vista dall’artista come una donna in lacrime.

Picasso, Donna piangente, 1937

Piange zio Paperone, di solito per motivi legati al denaro, piange a lacrime caldissime, singhiozzando e producendo tutta la sinfonia onomatopeica dei fumetti, SIGH, SNIFF, SOB.
Nonostante l’avarizia sia un vizio orrendo, con questo disperato dolore il papero commuoverebbe anche i sassi, figuriamoci se non commuove noi, che siamo pieni di sentimenti.

Si avvicina il caldo e con il caldo si suda, dunque vi farà comodo questa considerazione.
Sudate solo se appartenete al sesso cosiddetto forte, ovvero se siete maschi, perché le donne, notoriamente, non sudano.
Sudano i cavalli.
Me lo ha insegnato una donna di rango, già moglie del comandante dei Corazzieri del Quirinale, campione di equitazione, che, dunque, di cavalli era esperto.
Del resto non sudava nemmeno Marlene.
E come avrebbe potuto?  Una donna come lei.  Lo racconta la figlia Maria, colei che ha avuto non so se la fortuna o la disgrazia di nascere dalla diva più grande di tutti i tempi.
Nella bella e feroce biografia che dedica alla madre, Maria Riva racconta che Marlene, a un certo punto della sua vita, semplicemente decide di smettere di sudare.
Non racconta i dettagli ma, come esempio, ci basta.


Se non riuscite a rassegnarvi, pensate che si tratta di un paradosso. Una volta un militare mi disse che all’aviere non è consentito portare l’ombrello, quindi, pure se piove, l’aviere non si bagna.
Chiaro, no?
Dunque, l’aviere non si bagna e una donna non suda.

Suda, invece, in modo quasi cristologico, esprimendosi nella potenza del sacrificio, l’uomo dagli occhi di lupo, dal sorriso magnetico, dai capelli d’angelo, quello con la voce tonante, unica e sconvolgente, il monumento nazionale di Francia, l’eccezione culturale francese: Johnny Hallyday.
Alla morte (dicembre 2017) di colui che è stato definito la fenice del rock, l’icona di moda, il seduttore assoluto, ho messo da parte un numero della mia rivista settimanale da donna a lui dedicato.
L’ho fatto perché parlava anche del sudore e ho pensato che prima o poi mi sarebbe tornato utile, nel senso che prima o poi di sudore mi sarei occupata.
Infatti, eccomi.
Benjamin Biolay, autore, cantante e attore, dice: «Per me Johnny è il sudore».
Chiosa il musicista Yarol Poupaud, che accompagnava il leone in tournée: «Il sudore, è un’immagine che mi piace, perché, su scena, lui dà tutto, va fino in fondo, non si risparmia mai».
E guardiamoci, allora, questo rockeur che tutti piangono in una sua magnifica interpretazione recente di una canzone del 1969, che è rimasta intatta nella sua potenza, Que je t’aime.
D’accordo, è uscita anche da noi con il titolo di Quanto t’amo.
Ma, datemi ascolto, si tratta di una versione che, per quanto bella, è edulcorata, diremmo noi oggi che manca di sale.
(«…Quand l’ombre et la lumière
Dessinent sur ton corps
Des montagnes, des forêts
Et des îles aux trésors…»).
(«…Quando l’ombra e la luce
Disegnano sul tuo corpo
Montagne, foreste
E isole del tesoro…»).
Insomma, niente a che vedere con la sensualità, l’erotismo esplicito, la potenza di una dichiarazione di intenti, che è insieme desiderio e resa, della versione originale.
Che è, come è giusto che sia, madida di sudore.
Ovvero salata, quindi piena di sapore.