…l’hotel è un luogo di erotismo che sembra favorire la creazione, tirare fuori l’anima dal suo letargo
(Nathalie de Saint Phalle, Hôtels letterari, 1991)
Bill Clinton aveva un bellissimo accento del sud, morbido e avvolgente.
Unito alla prestanza fisica, voi capite che poi.
Barack Obama era un grande avvocato, un oratore, non potevi non incantarti.
Mi chiedo perché i nostri politici parlino tutti così male, già fai fatica ad ascoltarli; a prenderli sul serio, poi.
I toscani ostentano l’accento toscano.
I milanesi ostentano l’accento milanese. E qui non posso non sospettare che dietro ci sia il retropensiero di Roma ladrona, che, essendo io romana, trovo fastidioso.
E passiamo allora alla Capitale, che ha un nuovo sindaco.
Che, quando parla, evidenzia due caratteristiche: 1. Ha l’accento romanesco, nonostante la cultura e la carriera universitaria. Ma questo non è nemmeno antipatico, almeno per me, perché lui è sindaco di Roma e non, mettiamo, di Forlimpopoli o di Abbiategrasso, quindi ci può stare; 2. Ha una brutta voce, e qui il nodo è più difficile da sciogliere.
Che fa uno con una brutta voce.
Per prima cosa, deve rendersene conto. Poi, cerca di correggersi.
Ho chiesto ad alcune persone se avevano notato la voce del nuovo sindaco e mi hanno detto di no.
Evidentemente l’ho notato solo io.
Sarà che ho problemi di voce e che, quindi, è probabile che io, con le voci, sia in fissa.
Stare in fissa non vuol dire avere le fisime.
La fissa è il contrario di una cosa mobile.
La fisima è «un’idea priva di fondamento, fissazione, oppure capriccio, desiderio o aspirazione stravagante».
Toglierei dall’elenco, peraltro affidabile, la fissazione, che secondo me è altro.
Io sto in fissa e non vedo come potrebbe essere altrimenti.
Ieri ho detto al mio Vocal Coach che cosa avevo in mente, ipotesi A e ipotesi B, lui ha mediato, sfumato, sospeso, mi ha detto che non devo pensare in questi termini.
Se lo dice lui, che si è fatto carico dei miei problemi di voce con abilità e generosità, vuol dire che è vero.
Certo è, però, che io sto in fissa, che ascolto attentamente le voci delle persone, che le vado indagando, che noto tutto.
Già prima notavo tutto.
Adesso, figuriamoci.
Forse anche il sindaco di Roma dovrebbe prendersi un Vocal Coach, ma torneremo a parlare di questo argomento, così importante da assorbire tutti gli altri.
Ma non tutti non fanno caso alle voci.
Nel film di animazione Anomalisa di Charlie Kaufman (2015), il protagonista, Michel Stone, un uomo odioso e amaro, si accorge dell’aspetto meccanico della sua vita perché tutte le voci sono uguali, uomini, donne, bambini.
L’esistenza è diventata irreale.
Lui è una piccola notorietà per via di un libro che ha pubblicato sul tema del customer care.
Lo incontriamo su un volo per Cincinnati, dove lui ha una conferenza, lo seguiamo in albergo, mentre ordina una cena al room service e poi telefona a una sua vecchia fiamma, che lui ha lasciato all’improvviso.
Si vedono al bar dell’hotel, lei gli dice che è stata molto male e che per un anno non è riuscita ad alzarsi dal letto.
Il film è bello ed è proprio questa faccenda delle voci che lo trasforma in un piccolo capolavoro.
Che poi sia un film che fa star male per la disumanità dolente di lui, è un altro discorso.
A un certo punto lui sente delle voci in corridoio e una di esse è una vera voce di donna.
Bussa a tutte le stanze e trova Lisa. Bruttina, timida, con una vita sentimentale miserabile, gli sembra però la donna più interessante che c’è al mondo.
Lei si sente un’anomalia.
Anomalisa, appunto.
Il fatto che i personaggi siano dei pupazzi consente alcune libertà: lui si vede nudo, grassoccio, con un pene penzolante; dalla finestra lui osserva un uomo nell’edificio di fronte che, seduto davanti a uno schermo, si masturba; poi si vede un cunnilingus; poi a colazione si vede lei che parla con la bocca piena.
Lui si infastidisce.
Nel corso della conferenza si imbroglia.
Lui, che aveva pensato di lasciare la moglie per Lisa, rientra a casa.
Lei va via con l’amica con cui era arrivata proprio per la conferenza.
Il film è come sospeso nell’aria, iperrealistico per via dei dettagli, registrati ossessivamente, il distributore del ghiaccio, la chiave della porta, i cocktail, però, al medesimo tempo, inafferrabile.
Parla di esso nel suo libro Tout tremble Blandine Rinkel, che è diventata la mia migliore amica.
Un’amica deve saperti dare buoni consigli: lei me ne dà sempre di ottimi.
Lei scrive che il film restituisce la sensazione di irrealtà «con molta grazia».
Io, più che grazia, ho visto ferocia.
Ma credo che lei sia suggestionata dal fatto che durante l’adolescenza, nei libri, le voci per lei variavano.
Mi è sembrato un pensiero molto toccante.
Nel film rimane non risolta la cena ordinata al room service.
D’accordo, l’azione va avanti, ma per tutta la sua durata non ho smesso di chiedermi che fine avesse fatto quel carrello.
Ve l’ho detto, che noto tutto.
Il nuovo sindaco di Roma si imbroglia con i post.
La colpa non è sua, la colpa è di questa follia che ha preso un po’ di gente e che obbliga quelli della radio a dire «buongiorno ascoltatrici e ascoltatori, adesso vi faccio ascoltare».
Già prima c’era la ripetizione di un termine, adesso esso esce fuori tre volte in una frase di otto parole.
Voi capite che sta male.
Allora il nuovo sindaco, o chi per lui, scrive: «Sono al fianco delle tante cittadine e cittadini onesti» ed è una cosa che ritorna, per cui uno si domanda perché le cittadine sono tante e i cittadini, invece, sono onesti e ti viene pure da chiederti se sia più importante essere tanti (tante?) o onesti (oneste?).
Altro post: «dopo l’impegno preso il primo settembre con i cittadini di La Storta».
Dunque, a stare a seguire la tendenza, a La Storta sono tutti maschi.
Però qualche riga più sotto si legge «dobbiamo restituire il verde pubblico ben curato alle romane e ai romani».
Dunque, le romane meritano il verde pubblico tanto quanto i romani.
Come canta Don Giovanni, me ne consolo.
A parte le pulci fatte ai post pubblicati, c’è da chiedersi come non si capisca che ci si è ficcati in un guaio, vuoi per le ripetizioni, insopportabili, vuoi per i continui errori di genere, che non sta qui il punto e che si sta violentando la grammatica.
Lo ripeto: non fatico a sentirmi parte dei cittadini, né degli ascoltatori.
Fatico a sentirmi parte di un momento storico che, lui sì, ha le fisime.
Un po’ più a nord, non è che stiano messi meglio.
Accade infatti che Anne-Sophie Pic, grande chef, pubblichi un post che presenta un cocktail che si chiama Colette, spiegando che è dedicato a una donna «considérée par beaucoup comme le plus grand écrivain français de son temps, elle était aussi féministe, journaliste, scénariste, danseuse et comédienne».
Apriti cielo.
Il fatto che Colette sia considerata «il più grande scrittore francese del suo tempo» viene infilzato da una sfilza di commenti, tutti offesi.
Come se non si capisse che la frase «la plus grande écrivaine», ovvero «la più grande scrittrice» avrebbe ficcato irrimediabilmente la nostra deliziosa dedicataria in un limbo, quello, appunto, delle donne che scrivono.
Laddove le donne scrivono bene tanto quanto gli uomini, questo almeno lo sanno fare, quindi non ci sono problemi a metterli tutti insieme, maschi e femmine.
Mica si sta male, un po’ mescolati.
Insomma, pure in Francia hanno le fisime e mi chiedo se questa sia una moda di passaggio o se finirà come con la vita bassa e i tatuaggi, che stanno ancora lì e guai a chi pensa di potersene disfare (fermo restando che è ben difficile sbarazzarsi di un tatuaggio).
(Come spesso accade, nessuno che si sia incuriosito per gli ingredienti del cocktail).
L’altro giorno per quindici minuti mi sono trovata a dover prendere decisioni delicate.
Sono andata in lavanderia dalla signora Anna per portarle le mie lenzuola da stirare.
Lì c’era il nipotino più piccolo, Adriano, sei anni, che non era andato a scuola per via delle elezioni del sindaco.
Pensando che sarebbe dovuto rimanere lì fino a sera, gli ho proposto di venire con me a prendere un gelato.
Lui per un po’ ha nicchiato.
La nonna lo incoraggiava, insomma, lui aveva il permesso di uscire con un’estranea quale io ero.
Mi ha detto allora che voleva un Fior di pesca.
Gli ho proposto di andare insieme al bar perché se non ci fosse stato il Fior di pesca, avrebbe potuto prendere altro.
La scorsa settimana avevo assistito a una crisi all’ora della merenda perché Andrea al bar aveva finito il gelato col biscotto.
La mia teoria lo ha convinto e siamo usciti insieme.
Adriano è un ragazzino alto e magro, assomiglia alla mamma, che mi sta molto simpatica e che stava in ufficio.
Subito, per la strada, mi sono chiesta se dovevo prenderlo per mano.
Per attraversare la strada, certamente.
Ma sul marciapiedi?
Le mie nozioni di pedagogia sono antiquate ma progressiste e secondo me a sei anni un ragazzino è abbastanza autonomo.
Però, conoscendolo poco, ho trovato un escamotage.
Lui stava saltellando. Allora gli ho detto «Dammi la mano, così io ti tengo e tu salti ancora più in alto».
La sua mano era piccola e morbida, sapete quando uno dice a un bambino ti mangerei.
Abbiamo attraversato la strada e siamo andati a salutare Marco l’Egiziano, che ha il furgoncino di fiori all’angolo con la Tuscolana.
Gli ho detto: «Ti presento il mio nuovo, giovane amico».
Marco l’ha riconosciuto subito perché frequenta la lavanderia della signora Anna per depositare da lei le orchidee quando chiude il suo piccolo commercio e per fare due chiacchiere.
Si è messo a ridere.
Al bar di Andrea, cercando bene nella ghiacciaia, abbiamo trovato il Fior di pesca.
Adriano voleva mangiarlo dalla nonna.
Gli ho detto che era un gelato da passeggio e gli ho spiegato il concetto.
Si è convinto subito, anche perché aveva voglia di gelato.
Ha provato a togliere la carta.
Il gelato non usciva.
L’ho un po’ aiutato, dicendogli di fare così e così e gli ho dato due tovagliolini di carta dal bancone.
Prima di uscire, gli ho detto di ringraziare e salutare Andrea.
Lui da solo non ci pensava per niente.
Siamo tornati alla lavanderia dall’altro marciapiedi.
Gli ho anche spiegato la teoria di un mio compagno di scuola, di madre austriaca, che in inverno mangiava gelati per abbassare la temperatura del corpo e sentire meno freddo e che in estate mangiava la minestrina bollente per alzare la temperatura del corpo e sentire meno caldo.
Ha capito e si è messo a ridere.
L’ho riconsegnato alla nonna sano e salvo e col gelato quasi finito.
Quanto è complicato un bambino.
E quanto è complessa la sua educazione.
Però mi veniva in mente che quella manina morbida morbida ti ripaga di tutte le fatiche.
Forse.
Mi piacciono gli alberghi.
Per quanto io sia casanière, vivrei volentieri in albergo.
Un albergo di lusso, ovviamente.
Una bella suite di sessanta metri quadri, tutti i servizi, la governante, la portineria H24.
Le lenzuola cambiate tutti i giorni.
Gli asciugamani che, appena li tocchi, sono sostituiti da altri ancora più morbidi e ancora più bianchi.
Simone de Beauvoir viveva in albergo.
Anche Mademoiselle Chanel.
Alberghi diversi, d’accordo, la stanza di un’insegnante di filosofia e quella, ben più sontuosa, di una creatrice moderna.
Nei miei viaggi in Francia sono andata più di una volta a cercare gli alberghi della de Beauvoir.
Lei è sempre molto precisa quando racconta, quindi, Rouen, Marsiglia e Parigi, scrive sempre dove e come.
Alberghi, diciamolo, dove io non avrei messo a dormire il mio somaro (se ne avessi avuto uno. Però, che emozione).
Ma forse quelle stamberghe avevano visto tempi migliori.
Uno dei libri ai quali ritorno più spesso è Hôtels Littéraires, di Nathalie de Saint Phalle.
Che ha fatto l’autrice.
Siccome era in fissa (pure lei), ha messo insieme una raccolta superba di alberghi e di scrittori che li hanno frequentati.
Se vi passa per la testa che io abbia fatto viaggi ispirati a questo libro, siete nel giusto.
Se, come dice lei, «il viaggio è un sentimento», per me, un viaggio è un albergo.
Non capisco quelli che dicono che ci dormi e basta.
L’albergo esiste in quanto tale, dormirci è solo una delle tantissime attività che in esso trovano, appunto, ospitalità.
Voi prendete il room service.
Con esso ho passato alcune delle più belle serate (e nottate) della mia vita.
Tu ordini e loro ti portano.
Oppure telefoni da fuori e trovi in camera.
Di solito si tratta di un carrello stracolmo, con tutta una serie di dispositivi che servono a tenere caldo il cibo e freddo il vino (quando il vino deve essere tale).
E poi tutta una panoplia di piatti, piattini, bicchieri, posate a sfascio, tovaglioli.
Insomma, l’essenza del concetto di albergo, che, come diceva Andrée Putmann, sta alla casa come l’amante sta al marito.
Se sono riuscita a spiegarmi.
Ma, insomma, che è successo.
Niente.
Solo che stamattina, aprendo Instagram, ho trovato l’ultimo post del mio ultimo albergo di Parigi.
Con un room service.
Insomma, un segno.
L’hotel è squisito, anche se io non ho mai usufruito di questo servizio.
Siccome ero dell’umore giusto, ho però cenato nel suo ristorante, mangiando (e bevendo) benissimo.
Dunque, il room service è rimasto una chimera.
Ma sono facilmente in grado di immaginarne la qualità.
E il divertimento.
Quando torno a Parigi.
Presto, presto.
Non è che i miei problemi di voce mi tengano inchiodata a Roma.
Però.
Comunque, ho deciso di andare in un altro albergo.
Voglio fare un’altra esperienza.
E chissà lì come è il room service.
Devo dare un’occhiata al loro Profilo Instagram.
(Ma resta un interrogativo: che fine ha fatto la cena ordinata da Michel Stone in Anomalisa)