Odio il tumulto, le aggressività, le esplosioni emotive. Una prova è per me  un’operazione eseguita in uno spazio attrezzato allo scopo. Vi devono regnare autodisciplina, pulizia, luce, tranquillità…

Ingmar Bergman, Lanterna magica

(Prova a pensare alla scuola in questi medesimi termini, che per il regista sono teatrali).
Il ragazzo del mio parrucchiere gode del medesimo vantaggio di Rossini: è nato il 29 febbraio.
A occhio e croce, dunque, ha fra i sei e i sette anni.
Ci stiamo simpatici e forse ci vogliamo bene. Quando lui si è fatto i capelli Magenta, io gli ho spiegato che il nome di quel colore (i colori e i loro nomi fanno parte del mio mestiere) è anche il nome di una città e che derivava dal rosa che aveva assunto l’erba, verde, al contatto con il sangue versato durante la battaglia che in quella città si era combattuta nel 1859.
Lui mi ha spiegato fatti relativi all’intelligenza animale; agli effetti delle sostanze illecite (parecchie di esse); ai tatuaggi.
Il ragazzo del mio parrucchiere è sveglio, intelligente, sensibile.

Ha ripetuto la terza media tre volte.

Gli ho detto non è possibile, uno come te, non è possibile che non ci sia stato a scuola un professore capace di venirti incontro, di darti una mano in un momento difficile della tua vita, di rimetterti in carreggiata, di evitare che tu ti trovassi in quell’età di crescita nella medesima classe di ragazzini che erano anni luce più piccoli di te.

È stato possibile.

Una volta, a un semaforo rosso particolarmente eterno, mi sono messa a contare quanti insegnanti bravi avevo avuto in vita mia.
Sette.
1. La mia maestra delle elementari
2. La mia professoressa di Storia e Geografia delle medie
3. La mia professoressa di Inglese delle medie
4. La mia insegnante di ginnasio (Italiano, Latino, Greco, Storia, Geografia, Educazione civica)
5. Il mio professore di Italiano e Latino del liceo
6. Il mio professore di Greco del liceo
7. Il mio docente di Storia dell’arte moderna all’università (quello che ha fatto la mia professione e la mia carriera)

Ad allargare un po’ il campo potrei aggiungere una supplente di Filosofia del primo liceo che stette con noi per alcuni mesi: giovane, totalmente priva di avvenenza, era bravissima e ci mise, semplicemente, sui testi. Mi ricordo la bellezza delle sue lezioni, con la testa che andava a mille.
Tornò la titolare, che era completamente pazza, e finì l’incanto.
Posso anche aggiungere la mia insegnante del primo anno del mio corso di Francese, Françoise, che mi piaceva molto, era di Nantes, un posto dove piove sempre, le guardavo pure i bambini e mi capitava spesso di rimanere a cena da lei.
Poi la mia insegnante di Tedesco, Maria, con la quale ho fatto una delle cose più interessanti della mia vita, un corso di traduzione scientifica di testi di storia dell’arte. Lei era bella, intelligentissima, con un fascino micidiale.
Per un anno intero, mi ero appena laureata e cercavo di capire dove stavo e che facevo, lei catalizzò la mia attenzione e ogni mio pensiero. Volevo che mi stimasse, volevo che lei sapesse quanto l’ammiravo.
Anche con lei mi sono frequentata per anni, c’è stata una fase della mia vita in cui frequentavo gente.

Che cosa avevano in comune tutte queste persone?
Niente.
Che metodo utilizzavano?
Ciascuna di esse utilizzava il suo metodo.
Dove avevano imparato a fare così bene lezione?
Da nessuna parte.
Avevano studiato tanta pedagogia?
Nemmeno una pagina.

Erano come Maradona che palleggia; come la sirena nel suo splendore che si asciuga i capelli e la coda sullo scoglio; come il topo nel formaggio.

Facevano lezioni bellissime perché dentro le lezioni si sentivano bene e perché erano capaci a farle.
Bella scoperta.
Ma, a proposito della pedagogia, uno dice nemmeno la maestra delle elementari.
Lei, meno degli altri. Laureata in Lettere classiche, aveva preso in quattro e quattr’otto l’abilitazione per insegnare alle elementari: le piacevano i bambini.
E poi io le ero destinata.
Scuola elementare pubblica di quartiere, sono finita lì perché ci dovevo andare, nessuno ha scelto niente.
Ho cominciato a scegliere io all’università, ma manco tanto, i corsi erano divisi in ordine alfabetico, per cambiare cattedra dovevi fare il diavolo a quattro (oggi quest’articolo è pieno di quattro, bene così, in fondo stiamo parlando di scuola e la scuola è piena di voti e di numeri), chi te lo fa fare.
Questo per dire quanta dose di Caso ci sia in una lezione ben fatta.

Insegno, dunque, faccio lezione, da anni. Non pensavo che avrei insegnato, forse volevo fare altro. Ma visto che faccio anche altro, mi sta bene così.
Ho cominciato a fare supplenze, il contatto con gli studenti mi riusciva facile, sono entrata in Accademia, ci sono rimasta, insegno anche altrove, insegno molto agli adulti, cosa che mi piace perché ho con loro un rapporto diverso da quello che ho con gli studenti: questi ultimi stanno a scuola; gli adulti, ce li riporto.
Secondo me la scuola è una delle cose più belle che ci siano al mondo, a me la scuola ha dato tutto.

Come facevano lezione i miei insegnanti bravi. La prima cosa che a ripensarci mi viene in mente, è che sguazzavano nella materia (o nelle materie) che insegnavano.
Rem tene, verba sequentur, ovvero, se padroneggi l’argomento, le parole seguiranno.
Tu considera che la lezione è la punta dell’iceberg, tutto quello che sta sotto, nell’acqua che io mi immagino gelida, sono anni e anni di studio, che si sono sedimentati, che stanno lì a sostenerti.
Quanto tempo ci vuole a preparare una lezione: in stagione, ovvero a ritmo pieno e a rotta di collo, circa otto ore. Se ho già conoscenza dell’argomento, come i danzatori durante le prove hanno il balletto nelle gambe.
Che c’entra, per fare tre lezioni su Cézanne, ho studiato tre settimane, complete, dalla mattina alla sera.

Paul Cézanne, Giacca sulla sedia, 1892

Del resto un esame di Storia dell’arte all’università erano sei mesi sui libri più la frequenza alle lezioni tre volte a settimana e un seminario.
E non sai niente, e ti accorgi che più studi e meno sai.
In aula, però, devi entrare essendoti già buttato alle spalle tutti questi pensieri, devi essere capace di proporre un testo chiaro, lucido, comprensibile, non puoi arrivare in cattedra se prima non hai già assimilato l’argomento.
L’equivalente è portare in tavola gli spaghetti cotti al punto giusto.

Che succede quando entri in aula. Succede che tu devi sapere che chi sta lì dentro sarebbe felicissimo di sbranarti, esattamente come il leone non vede l’ora di papparsi il cristianuccio di turno.

Jean-Léon Gérôme, L’ultima preghiera dei Martiri cristiani, 1893

Vi illustro il concetto con questo artista che amo molto, un accademico un po’ attardato, d’accordo, che mi piace proprio per questo. Quando Picasso già fa le cose sue e gli Impressionisti hanno fatto la loro rivoluzione da un pezzo, lui fa il leone e fa i martiri.
Se tu ignori questo istinto che hanno tutti coloro che siedono su una sedia o a un banco, sei morto.

Jean-Léon Gérôme, Pigmalione e Galatea, 1890

L’animo di chi sta in aula, però, è diviso a metà. Perché chi sta lì perché si è mosso da casa e ha fatto pure il suo tragitto, insomma, un impegno l’ha profuso, sarebbe pure felice di innamorarsi, andiamo su, chi non vorrebbe provare questo sentimento.
E tu devi essere a conoscenza anche di questo istinto.
Te lo illustro con un’altra cosa di Gérôme, anzi, te lo dico chiaramente, con il suo dipinto da me prediletto.
Tutti vorremmo essere forgiati da qualcuno e vorremmo prendere vita sulle ali del suo desiderio.
Se così non fosse, non esisterebbero i miti, in questo caso quello del re scultore che si fa la sua statua e che si strugge d’amore per lei.
E Venere interviene e, commossa davanti a tanto strazio, lo accontenta, trasformando la statua in donna.
Per me questa è la versione più bella della storia ed è il vero motivo per cui amo questo artista, lo slancio dell’abbraccio di lui, la sensualità di lei, che da pietra si fa carne.

Dunque tu entri in aula e hai cinquanta e cinquanta per cento di possibilità.
Ti giochi da solo la tua partita e non ti saranno concessi i tempi supplementari.
Hai a tua disposizione pochi secondi, forse un paio.
Mi ricordo il veterinario della mia ultima gatta, un uomo grande e grosso, di pelo rosso, simpatico, che mi raccontava sempre barzellette e aneddoti, come quello della signora cui lui aveva scritto sulla ricetta un cucchiaino da caffè di eccetera e che era tornata da lui dopo una settimana dicendo ma dottore non gli farà male tutto questo caffè, al cane.
Io mettevo il trasportino sul lettino, lui apriva lo sportelletto, la gatta, che pure era timida, mandava bagliori di fuoco dai suoi verdissimi occhi, soffiava, si era fatta tutta gonfia.
Lui infilava dentro una mano e, con la rapidità del fulmine, la prendeva alla collottola, nel punto in cui le madri afferrano i cuccioli quando vogliono spostarli e quelli si fanno di pezza e stanno lì appesi con la coda fra le gambe.
Diventava di pezza pure lei, non era più un felino, non era più l’animale braccato, era la bisbetica domata.
(Tutti gli uomini dovrebbero imparare a domare le donne. Pure io, che sono una bisbeticissima, divento di pezza se un uomo sa afferrarmi nel punto giusto).
Trovate la collottola del vostro pubblico.
Conquistatelo.
Innamoratelo.
Chi viene a sentire una lezione, in realtà, vuole altro.

Chiedetevi che cosa volete voi da una lezione e date esattamente quello.
Mettetevi sempre dalla parte dell’altro. Ma portatevi l’altro dove volete voi. La scuola dovrebbe essere un luogo democratico, nel senso che dovrebbe essere aperta a tutti e a tutti dare tutte le possibilità, poi, però, in aula, l’equilibrio cambia, la scuola che fa il docente è diversa da quella che fa il discente, è il docente che deve sapere dove andare e la regola è ci si innamora sempre del professore.
Di quello bravo, sono d’accordo, di quello che fa belle lezioni.
Il mio professore di Greco al liceo era allievo di Gennaro Perrotta, grecista immenso.
A scuola si faceva scuola, c’erano esercitazioni, compiti in classe, interrogazioni. E c’erano i giorni della spiegazione.
Aria che diventava rarefatta.
Il professore, che era un uomo alto e un po’ pingue, che a metà mattina si faceva portare sempre un cappuccino, scendeva dalla cattedra, si metteva di profilo, si stirava le falde della giacca, congiungeva le mani in una preghiera, diceva qualcosa del tipo «Gesù fate luce» e la luce Gesù era pregato di farla nelle nostre menti di adolescenti quasi adulti, si portava le mani al volto.
Poi, attaccava.
Era teatro, era magia, era il mondo che rimaneva fuori dalla finestra e non disturbava, era la letteratura che si sprigionava dal professore come il genio dalla lampada, era il motivo per cui il liceo classico era la scuola più bella di tutte.
Il professore di Italiano e Latino, più disinvolto, meridionale, un uomo di carattere prepotente, stracolmo di ironia, spiegava, invece, appoggiato alla cattedra.
Era bravissimo, nemmeno all’università ho sentito una lezione a quel livello, anzi, una volta, all’università, a una lezione su Foscolo di uno di questi nomi famosi e che avevano scritto un sacco di libri, vuoi che stavo vicino al termosifone, vuoi che avevo fatto tardi la sera prima, vuoi che fuori era inverno, mi addormentai.
Io, che sono sempre stata un’allieva sveglia.
Mi addormentai e, tornata a casa, mi andai a rivedere i miei quadernetti di appunti del liceo. Che ancora conservo e che ancora utilizzo per le mie lezioni.
Quando si dice, lasciare un bel ricordo.

Dunque, entra in aula volendo innamorare i tuoi discenti, entra in aula come entra un attore sul palcoscenico, vai a teatro a vedere la tecnica, c’è sempre una tecnica da utilizzare, pure per baciare una ragazza ci sono metodi giusti, teorici, da mettere in pratica.
Poi, però, segui l’istinto.

Lasciati andare.

Una lezione si regge su due ali, quella della tua conoscenza dell’argomento e quella del piacere di spiegarlo a chi ti sta davanti.
Spiegare: svolgere, distendere ciò che era ripiegato o avviluppato, in modo che l’intera superficie risulti aperta e distesa, e visibile.
Prendo al volo questa prima definizione e me ne approprio perché calza alla perfezione, calza come un guanto o un paio di scarpe.
Tieni a mente tutte le metafore, tutte le leggende che conosci, ricordati, mentre fai lezione, di tutti i film che hai visto, di tutti i romanzi che hai letto.

Ma per insegnare, non serve la psicologia?
E io che ne so, io avrò letto sì e no un paio di saggetti in vita mia. Trovandoli pure uggiosi e insulsi.

Una volta l’attore Hugh Grant si infilò in un guaio. Lui, famoso, simpatico, dotato di una fidanzata storica che mai avrebbe sposato, fu sorpreso a Los Angeles in una situazione che definiamo qui imbarazzante.

Per spiegarlo a chi non c’era, diciamo che stava intrattenendo rapporti orali con una signorina che non era quella suddetta.
Ora, tu va’ a capire perché un attore così famoso passa la sera a chiacchierare in macchina con una donna dalla reputazione dubbia.
Ma in California, si sa, il clima è mite e forse non aveva voglia di chiudersi in una camera d’albergo.

Gli americani, si sa pure questo, sono dei puritani. E i due furono sorpresi, arrestati e portati in galera. Seguì il rito della foto segnaletica, quelle cose che vediamo nei film.
La foto finì in televisione e su tutti i giornali.

La mattina dopo, lui pagò la sua cauzione. Ma prima gli chiesero, come fanno gli americani, se voleva un aiuto psicologico.
Lui rispose: «Grazie, ma noi inglesi, quando ci capitano queste cose, leggiamo romanzi».

Ecco, a me questa indicazione esistenziale, che trovai su una rivista francese di letteratura, per prima cosa mi deliziò.
Poi mi confortò nella mia idea che la psicologia non serve a niente.
Proprio come la pedagogia.
(E mi scuso con gli psicologi e i pedagoghi, ammesso che mi leggano).
E ora lo dico a voi.
Ho anch’io qualche testo di riferimento che consulto in caso di bisogno, per esempio questo.

S. Clerc, Y. Michaud, Face à la classe, 2010

Ragiona sull’autorità, sulla disciplina, sul dialogo, sul merito, sul multiculturalismo, sul rispetto, sulla tecnologia.
Ma è scritto da due filosofi, uno più giovane, che insegna Francese e Storia al liceo, l’altro più anziano, docente di Filosofia in università di prestigio assoluto.

E, soprattutto, è scritto da gente in gamba e che ha esperienza.
Ecco, sii in gamba e costruisci la tua esperienza.
Purtroppo, o per fortuna, l’esperienza dobbiamo farcela tutti da soli, casomai sbagliando, ma, questo lo dicono gli scienziati, è molto raro che da un errore non escano informazioni utili per andare avanti.

Ti ho già parlato qui della prova del budino, che consiste, dopo aver confezionato il dolce, nel mangiarlo per vedere se è buono.
Fa’ anche tu la tua prova del budino e, soprattutto, goditi il momento.
Impari a fare lezione facendola, così come impari a cucinare cucinando, a fare l’amore facendolo e a bere vino bevendolo.
E da’ un’occhiata a quel vecchio film sulla scuola che ti ho messo in apertura, un film che non ho più rivisto ma che ricordo bello e trascinante, con il professore che faceva lezioni poco convenzionali ma piene di spunti.
E studenti che gli stavano dietro felici di starci.

Ho rivisto dei pezzi, che non mi sono sembrati né retorici né superati, dunque mi sento di suggerirtelo.
Così come mi sento di suggerirti di goderti la tua esperienza di insegnante, qualunque essa sia, tutti abbiamo qualcosa da insegnare e come niente ci capita l’occasione.

Perché fare lezione è bellissimo, perché trasmettere quello che sappiamo è uno dei motivi per cui stiamo al mondo, perché se sei capace di farti capire, ti capisci tu stesso meglio,  perché se il budino l’hai confezionato con cura, attenzione, passione e amore, puoi star sicuro che è buono e che sarà per tutti un piacere mangiarlo.