«Schizza».
Tutti dicono che schizza.
Conduco una mini inchiesta e tutti me lo ripetono.
Manco fosse Pollock. Quello sì, che schizza.
Lo dice molto bene il mio testo più bello di arte americana, dice che lui beve «like a fish», che dipinge in modo rischioso, senza alcuna protezione, e stiamo sicuri che non stiamo parlando di schizzi, dice che non è capace di contenere la violenza che lo abita e le sue insicurezze sessuali.
Muore nel 1956 a quarantaquattro anni schiantandosi con una grossa macchina con dentro due ragazze, nessuna delle quali è la moglie.
Lui è stato quello che «broke the ice»; che ha risposto alla solita signora che gli chiedeva perché non dipingesse la natura: «I’m nature»; quello che ha risolto la sua carriera in soli quattro anni, dal 1947 al 1951: prima aveva dipinto figure totemiche e simboliche, poi, si è andato a sfracellare con la sua Oldsmobile cabriolet.
Un vero modello esistenziale. Pure per gli schizzi.

Lui entra nella tela e, un po’ atleta, un po’ sacerdote, fa sgocciolare il colore, producendo alcune delle opere più magnetiche della modernità: fittissime di segni, con all’interno oggetti che si trovava sotto mano, ho visto io in mostra, con i miei occhi, una chiave, poi mozziconi di sigaretta, poi granelli di sabbia.

Jackson

È vero che se non ci fosse stato Pollock a colare e a schizzare, altri non avrebbero colato e schizzato.

Claes Oldenburg, Two Cheeseburgers, 1962

Per esempio non avrebbe colato Claes Oldenburg, che mette sui suoi immangiabili hamburger delle colature appiccicose di smalto, rendendo così immarcescibile la carne prediletta degli americani, diventata famosa tanto quanto la loro bandiera.
E ugualmente pop.

Richard Serra, Splashing, 1968

Non avrebbe schizzato Richard Serra, che fa, chiamiamole, sculture con il piombo fuso, spruzzato in un angolo,
rendendo omaggio a «Jack the Dripper», artista-leggenda che è tale per tantissimi motivi, primo fra tutti, e da solo questo motivo basterebbe, perché ha liberato la cultura americana da quella lunga sudditanza nei confronti dell’Europa che si portava dietro da tempo.

Comunque, anche in Europa si schizza. Lo dicono tutte le persone che ho interpellato. E questa qualità così intima, incorporata, capace di dare il senso dell’identità profonda del liquido, chissà perché a un solo liquido appartiene.
E si tratta pure di un liquido all’apparenza normale.
Cioè perché nessuno mi ha detto che schizza il vino, oppure la Coca-Cola, insomma, pure questi sono due liquidi, il vino, poi, se è rosso, sai che danni ti causa, mi ricordo quella volta che un collega me ne rovesciò addosso un calice per pura goffaggine, niente, non dissi nemmeno niente, che avrei dovuto dire.
Ma impara a stare al mondo, no, se non sei capace di gestire l’altezza di un calice quando ti trovi a cena vicino a una donna, fa’ le prove a casa tua.
Avevo pure la mia borsa nuova in grembo perché temevo che mi si sporcasse, tu ti cauteli da un pericolo e te ne piomba addosso un altro.
Mi aiutò poi il signor Michele della mia lavanderia artigianale, insomma, quella volta fu proprio bravo.

Se schizza la Coca-Cola, poi, così appiccicosa.
Ma io non bevo Coca-Cola e ormai sto molto attenta alle persone con cui vado al ristorante, figuriamoci se ceno con gente che beve Coca-Cola.

La formula chimica è NaCIO.
Stiamo parlando di una soluzione acquosa al 10% circa di ipoclorito di sodio, stabilizzata tramite carbonato di sodio o solfato di sodio.
Insomma, stiamo parlando della candeggina.
Sì, quella che schizza.
Lo dicono tutti, che schizza.
Lo sapevo pure io e, ora che ci penso, una volta me lo disse pure un’amica e collega, con la quale stavo parlando di una cosa di lavoro e lei a un certo punto si ferma, guarda l’abito che indossa, vede una macchia, peggio, una schiaritura e dice «speriamo che non sia la candeggina», poi riprende il discorso.
Certo, se ti sei schizzata di candeggina, sei proprio distratta, ma ti pare che ti metti a occuparti del bucato vestita per uscire, insomma, questa è un’operazione che va fatta con le dovute precauzioni.
Lo dice pure la signora Anna, della mia seconda lavanderia, quella dove porto a stirare le lenzuola. Le ho chiesto se poteva lavare gli asciugamani della mia estetista, che aveva appena aperto le sue cabine qui vicino e mi ha detto di no subito: perché le spugne che si usano alla beauty room vanno sempre smacchiate e disinfettate e lei non può fare questo servizio tutti i giorni con la quantità di asciugamani che si utilizzano perché al negozio ha uno spazio riservato, dove tratta le camicie e la biancheria della casa dei clienti, e non può caricarlo in modo così massiccio.
Perché la candeggina schizza.

Lava i pavimenti con la candeggina il ragazzo che si occupa della pulizia della Saletta dove faccio le mie lezioni il lunedì e la settimana scorsa, mentre tiravo giù lo schermo e montavo il proiettore, è arrivata la prima persona e allora ho chiesto alla signora se lei a casa usava la candeggina.
E quella mi ha risposto di no, che nemmeno la compra.
Perché, ho chiesto.
Perché schizza.

Non ho mai usato tanta candeggina in vita mia come da quando ho deciso di passare, meglio, di tornare, ai tovaglioli di stoffa.
Faccio il conto e mi accorgo che sono solo quattro giorni.
Pensavo che fosse passato almeno un mese.
Come è strano il tempo. E perché stavolta mi sembra così lungo.
Perché ho passato i quattro giorni  suddetti a lavare e stirare tovaglioli e tovagliette.

Ora vi invito a fare con me un primo bilancio in materia.

Ho un libro che si intitola Psicoanalisi della golosità (o ghiottoneria), che ho preso per motivi diversi dal titolo, visto che a me interessa poco o niente della prima e della seconda.


Infatti l’altro pomeriggio stavo in un bar con un collega che è stato una quantità spaventosa di anni in analisi e lo prendo sempre in giro per questo e gli dico la prossima volta parla e chiedi a me e c’era tutta questa vetrina di dolci. E lui, allora, con fare un po’ allusivo e tentatore, mi dice, con un sorriso complice: «Dai, su, prendine uno».
Allora io gli ho detto che non mangio dolci, che forse mando giù due volte l’anno una torta di mele, dolce che chi ama i dolci considera di nessun interesse, ma la mangio solo se è davvero buona e lui mi ha guardato stupefatto e mi sono ricordata che quella medesima scena si era già ripetuta altre volte.
Ora, non è che uno si debba ricordare tutto quello che un altro gli dice, ma questa cosa mi ha fatto proprio ridere perché evidentemente non ero stata convincente, cioè questa cosa dei dolci che per me è come se non esistessero deve suonare proprio indigeribile.
La prossima volta ho deciso di rispondere «Oggi no, grazie», perché è più semplice cambiare discorso e uscire dal tunnel.
Oppure prova con una pizzetta verso le otto di sera, insomma, quando ceno con qualcuno, sembro normale.

Ma divago. Torniamo, allora, al mio libro, che è pure divertente per tutta una serie di trovate e discorsi singolari, insomma, va giù pure nel caso mio.
L’autrice a un certo punto affronta il tema del piatto e dice anche cose interessanti, certo, sono d’accordo con lei quando scrive che «mangiare in un cartone o in una porcellana fine trasforma un alimento».
Poi chiarisce (finalmente) perché quasi a nessuno piace mangiare da solo.
«Per l’adulto, nella fase sessualmente attiva…la gourmandise solitaria…è la rappresentazione implicita dello scacco amoroso in virtù di un sistema di equivalenza del piacere».

La prossima volta che nel discorso esce questa situazione del pasto solitario (che a me non crea nessun problema), vado con l’affondo e vedo se ho colpito nel segno.

Se il piatto contiene la nostra porzione di cibo, cioè il pezzo di mondo che ci è riservato, che cosa fa il set, quello che in inglese ci chiama placemat  e in italiano tovaglietta all’americana?
Si pensa che la psicoanalisi abbia una risposta pronta per tutto.
(Altrimenti perché uno starebbe anni a raccontare i fatti suoi a uno che non si sa mai se ti ascolta sul serio).
E, allora, ecco che alla tovaglia unificatrice si sostituiscono i set individuali, «che fissano il territorio di ciascuno, impedendo così che si mescolino troppo l’esistenza e i destini dei partecipanti riuniti intorno a un tavolo».

Nemmeno un cenno al lavaggio.
Ora, io ho un tavolo in soggiorno che fa cm 185 x 100.
E perché ho un tavolo così grande.
Non lo so, ce l’ho da sempre, da che andai ad abitare nella mia prima casa, lo trovai lì e poi lo acquistai, è un pezzo déco di grande bellezza e quella volta che mi ero messa in testa di liberarmene, venne a trovarmi un’amica, lo dissi a lei e lei mi chiese se ero matta.
Ancora la ringrazio.
E il mio tavolo del soggiorno ha tovaglie adeguate.
Per gestire le quali ci vuole tutta un’organizzazione non semplice, consideriamo pure che sotto la tovaglia ci vuole il mollettone e per carità, pensa se si rovescia un calice di vino rosso.
Infatti sul tavolo è allestita tutta una panoplia che non c’entra niente con i pasti, sono andata adesso a guardarmelo, fra il proiettore montato, i libri e le riviste su cui sto studiando e altra roba professionale di passaggio, finisce che il mobile, così importante nell’arredo, ha cambiato di funzione e destinazione.
Anche se di solito la coabitazione è possibile, per cui ho per il mio tavolo un runner, quello che in francese si chiama chemin de table, che secondo me è un’ottima soluzione intermedia.

Esso è in lino e di color écru.

E qui finisce che dovrò cambiarlo, perché ho deciso di fare il passaggio al bianco totale per tutti i tovagliati, piccoli e grandi.
Perché solo il bianco va in candeggina, dunque è libero dai vincoli cui ti sottopongono le macchie, alcune delle quali sono praticamente indelebili, ci sono secoli di consigli, suggerimenti, siti dedicati, con l’erba che è divisa dal fondotinta, il fondotinta dal rossetto e il vino rosso dal sugo dell’arrosto, e il signor Michele che mi racconta quello che pena con alcuni abiti, per esempio quelli da uomo, per esempio quelli da sera, uno si chiede ma perché, quando sei vestito così elegante, mangi, casomai in piedi, casomai con a disposizione solo un tovagliolo piccolo.

Mi sono organizzata.
Per prima cosa ho inventariato le aziende da cui vengono i miei pezzi migliori.
Mi sono anche accorta che una in catalogo non aveva il bianco.
Niente da fare con il vintage, le tovagliette all’americana sono roba moderna.
Sono finalmente atterrata sul sito di un’azienda svedese, immacolata.
Da essa ho fatto acquisti con gola.
Rinnovo la mia fornitura.
Imbandisco tavoli candidi, metto tutto a lavare appena qualcosa si ombra.
E tutto candeggio.

Poi stendo.
Poi stiro.
E stiro io personalmente, perché sono gelosa di questi miei piccoli pezzi che, appunto, sono tali e che quindi si gestiscono facilmente.
Insomma, in futuro farò quello che ho fatto in questi ultimi quattro giorni.
Non mi scoccio?
No.
Perché così mi occupo di altro oltre che della professione, perché così mi alzo dalla mia scrivania per controllare il candeggio, perché mi sono comprata un ferro da stiro nuovo quando ho portato la mia stirella a riparare dall’altra parte di Roma e se la sono tenuta più di venti giorni, e allora mi sono sistemata diversamente, e il ferro nuovo va con l’acqua del rubinetto e stira benissimo e quando stiro e liscio accuratamente la minima piega e ripasso il bordo, mi vengono un sacco di idee.

Come per esempio quella di questo post per il mio blog, che è nata con l’odore della candeggina e mi sono detta vuoi vedere che può uscire fuori una cosa simpatica che interessa i miei lettori, vuoi vedere che, dopo, pure loro si mettono a lavare, candeggiare, stirare.

Vuoi vedere che pure loro cominciano o ricominciano (o continuano, una cosa ottima) a usare tovaglioli di stoffa, belli, grandi, immacolati, capaci di cambiare il senso di una cena e il verso di una giornata tutta.

Félix Vallotton, Donne che asciugano la biancheria sulla spiaggia di Etretat, 1899