Alvar Aalto, Sgabello E60, 1933, tuttora in produzione

…come l’uccello venuto dal mare,
che tra il ciliegio salta, e non sa
ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare,
ci sia qualch’altra felicità.

Giovanni Pascoli, Oh Valentino

Gli occhi cerulei non aiutano.
Meglio, aiutano ad avere stampata sulla faccia una perenne espressione di stupore.
Irina si stupisce di tutto: della cremonese della finestra; dei ganci della griglia della cucina a gas; della serratura della porta; dell’origano, in mazzo e non in barattolo; della noce moscata, che è una palletta e non una polvere; della grattugia per le spezie; del tegame di coccio.
Posso capire lo stupore davanti al dimmer della lampada in salotto. Stavo lavorando alla mia scrivania e lei è arrivata e mi ha detto «Si è accesa», nel senso che la lampada si era accesa mentre la stava spolverando.
Era stupita.
Mi sono alzata, le ho fatto vedere come funzionava il regolatore, le ho detto che era molto utile, se vuoi leggere, la luce deve essere più forte di quella che ti serve se sei a cena e vuoi un po’ di atmosfera.
Si è stupita.
Mentre prendeva il caffè mi ha detto che ha un cugino falegname.
Lo ho detto che bello, il mestiere del padre di Cristo.
Mi ha detto perché Cristo ha un padre.
Beh, un padre più o meno ce l’abbiamo tutti.

Allora ho ricominciato dal presepio e da quello che c’è dentro la capanna e le ho detto: «Dai, su, facciamo un elenco».

Al primo posto ha messo il maiale.
Ma andiamo, su, ma quale maiale, ma ti pare che il maiale sta nella capanna.
Dopo una serie di versi animali (bau bau, miao miao, cri cri, cip cip, oink oink, quest’ultimo è il verso del maiale), lei ha fatto: beeeee beeeee.
«La pecora?» ho chiesto.
«No, la pecora piccola, quella che si mangia a Pasqua».
Quando si parla di cibo, Irina è sveglissima: l’agnello.
No,  perché la pecora e l’agnello stanno nei pressi della capanna, non dentro.

Allora ho preso l’Adorazione dei Magi  di Masaccio, Masaccio è sempre così chiaro e le ho detto: «Guarda bene».

Masaccio, Adorazione dei Magi, 1428, part.

Non sapeva il nome del bue e dell’asinello.
Quanto a Giuseppe il Falegname, ci siamo arrivate escludendo Maria e il Bambino.

A ogni spiegazione da parte mia, seguono due domande da parte sua: «Ce l’hai da molto» e «Quanto l’hai pagato».
Nel giro di poco, ho capito che se dico che ce l’ho da molto, posso aver dimenticato quanto l’ho pagato.

Se le chiedo perché invitano duecento persone a un matrimonio, mi risponde che loro sono tanti, lei stessa ha sette fratelli e pure la madre e il padre ne hanno il medesimo numero.
Se le dico ma che te ne importa, tu inviti chi ti pare, lei mi risponde che non si può perché i parenti si offendono.
Se le dico ma che te ne importa se si offendono, lei mi dice che pure lei si offende se non la invitano a un matrimonio.
«Che c’è di bello in una festa per un matrimonio che dura due giorni?»
«Si mangia e si balla».
Come si possa mangiare due giorni di seguito, per me rimane un mistero, talmente fitto e impenetrabile che ho smesso di indagare.
Pure sul ballo avrei dei dubbi, ma è probabile che io sia poco di compagnia.

Seguita, dà buoni risultati.
Per esempio è capace a mettere le mani sulla mia scrivania, davanti alla quale provo anch’io un forte sentimento di ritrosia.
Che risolvo in modo radicale: quando lavoro, tutto quello che non è indispensabile lo metto per terra in mucchi diversi.
Poco prima che venga lei, prendo i mucchi e li rimetto sulla scrivania.
In questo senso, le ho provate tutte. Voi considerate pure che ho un tiretto supplementare, incastonato lateralmente sotto il ripiano sul quale lavoro e due tavoli di appoggio, uno alla mia destra e uno alla mia sinistra.
Quando usavo le diapositive, avevo anche tre carrelli nei quali depositavo le scatole che prendevo dagli scaffali.
Ma niente basta a niente. Siccome, appena mi metto a lavorare, nel giro di pochi minuti il piano di appoggio è già ingombro, l’unico sistema che funziona ho capito che è quello del tutti giù per terra.
Lei si mette lì come primo passo la mattina e spolvera.

I mucchietti di Irina

Non solo, fa anche dei mucchietti, si capisce che ci pensa, per esempio, l’altro giorno mi ha commosso vedere come aveva creato un isolotto di oggetti compatibili, rotondi e a parallelepipedo, nastro adesivo e spilli; gomma da cancellare, fiammiferi e evidenziatore; burro di cacao.
Che ci faccio con gli spilli? Niente, li guardo, me li sono comprati perché mi piaceva il design della scatola e me li tengo accanto.

I miei spilli Merchant & Mills

Pure voi, con spilli così belli, ve li terreste dalle vostre parti.

E con i fiammiferi, che ci fai?
Fumo?
Ma figuriamoci.
Con i fiammiferi ci viaggio.
Vengono da un paio di alberghi di Parigi dove ho giurato a me stessa di tornare appena possibile.

Irina ha carattere.
E risponde.
Se le dico che la volta precedente non ha agganciato fra loro le griglie della cucina a gas, mi risponde che non è vero.
Ma come sarebbe, non è vero.
«Le ho messe bene. La prossima volta, fai una fotografia».
È disarmante, anche perché, le griglie, ho impiegato un attimo a riagganciarle e a me interessa che lei faccia la casa a fondo. E la fa, arrampicata sulla scala, dedicata, energica.
Le piace pulire.
Dice che le piace andare in giro e non le piace stare a casa sua perché quando sta a casa sua pulisce sempre, fa il bagno anche tre volte al giorno, i suoi conviventi sporcano e basta, lei ha tutto un sistema di protezione delle sue cose che mi ha raccontato.
Per esempio, si porta in camera sua i suoi asciugamani.
Poi.
Le era piaciuta la carta igienica che aveva trovato nella mia stanza da bagno. Quella volta mi sono stupita io e le ho detto che era brava, avevo preso la macchina per andarla a comprare, una Scottex nuova, ottima e con un motivo a righine che rompeva la tendenza dei fiorellini e dei cagnoletti, che non voglio dove sto io.
Allora, una domenica che ero uscita in bicicletta, ero andata a comprargliene un grosso pacco, che le avevo confezionato con discrezione perché non sta bene che una bella ragazza giri per Roma con la carta igienica in bella vista.
Non solo era stata felicissima ma mi aveva raccontato che la metteva in bagno e se la riportava in camera sua perché ne era gelosa.

Ho capito che cosa regalarle a Natale.
Gradisce anche altri regali: aglio, peperoncino, dolcetti, calzettine résille, che sono poi a rete, piccoli foulard, scatole di caffè.
Il caffè lo prende con due zollette di zucchero perché non le piace il sapore.
E allora perché lo bevi.

L’altro giorno ho provato a spiegare a Irina che cos’è il design.
Ho preso un oggetto e le ho detto: «Vedi, questo sgabello è stato progettato da una persona che si chiama designer e prodotto industrialmente. Se l’avesse fatto con le sue mani tuo cugino, il falegname, sarebbe stato un oggetto di artigianato. Così, è una forma di arte».
Stupore.
«Vieni, ti faccio una visita guidata agli oggetti di design della casa e te li spiego».
La lampade, in primo luogo.
Quella della mia scrivania, norvegese, snodabile, indispensabile.
Quella con il dimmer.
Quelle della camera da letto, le più belle. Una l’ha disegnata un architetto importante, che le ho fatto vedere in fotografia.
Lo sgabello di Aalto.
(Anche se il mio sgabello prediletto è quello degli anni ’60 e senza autore che sta in cucina e che viene da un laboratorio di una scuola inglese ed è pieno di segni. Irina lo conosce bene perché ci si siede tutta contenta quando prende il suo caffè. Non mi sembra un caso che le altre due donne rumene che sono state da me ad agosto, diverse da lei e ben più convenzionali, preferissero la sedia. Meglio, perché del mio sgabello prediletto sono gelosissima e lo presto solo a chi dico io).
«Anche lo smartphone è stato disegnato. Anche la tua borsa. Il portafogli. Le scarpe che avevi quando sei arrivata. Hanno una grande importanza anche gli oggetti della tradizione, i tegami di coccio della cucina, i cucchiai di legno per il sugo, le sedie impagliate, i vasi del balconcino».

Mi accorgo che sto delineando un mondo che qualcuno ha pensato e che io ho scelto, le dico che anche le cose a modo loro hanno un’anima e che è importante trattarle bene, che si deve sempre avere intorno oggetti che amiamo, non è pensabile di avere sotto gli occhi cose che non sono di nostro gusto, anche gli oggetti ci rappresentano e parlano di noi, la sollecito a cercarsi una casa, fosse pure piccola piccola, per lei e il suo compagno, perché dividere le spese può essere molto comodo, però la vita, come minimo e visto che lavori tanto, dovrebbe almeno offrirti una stanza da bagno dalla quale non devi portar via gli asciugamani e la carta igienica per nasconderli nella tua camera.

Io non ho mai insegnato ai bambini, con un paio di eccezioni, proposte che ho accettato solo per motivi contingenti e alimentari.
Con risultati discutibili.
Non sono preparata e non sono portata.
Inoltre, i bambini non mi piacciono, fatta eccezione per i lattanti, quando stanno, beoti, con gli occhi che manco vedono, spaparanzati nella carrozzina e la goccia di saliva sulla boccuccia.
Allora sono pure divertenti.
Per il resto, confermo che sono del tutto priva di istinto materno o, meglio, che esso mi si attiva solo nei confronti degli animali e degli uomini, in ordine alfabetico.
Ma, come per tutto quello che poco o niente mi interessa, la politica, il rugby, la sociologia, la meditazione, la natura, la coltivazione delle rape, l’analisi transazionale, le scuole di scrittura creativa, i viaggi in Africa e in India,  i soggiorni alla spa e il tennis, appena mi capita a tiro qualcuno che li apprezza, domando: «Ma che ci trovi».
Lo capisco da me che la domanda è idiota, fa moglie tradita, e amica delusa, però prendo al volo l’occasione e chiedo.

Con Irina mi sono resa conto che forse insegnare ai bambini, che mi vengono raccontati come gli essere stupiti per antonomasia, come coloro che sono capaci di meravigliarsi di tutto, forse, insegnare ai bambini, dicevo, è una bella esperienza.

L’unico dettaglio, non di poca importanza, è che Irina bambina non è, visto che le sono suonati più di trent’anni e che, quindi, per quanto vanitosa e volitiva, è inesperta della vita e delle cose che la ingombrano.

Tutta un’altra musica.

Da qui, credo, le vengono le domande da quanto ce l’hai e quanto l’hai pagato.
Dalla misura del tempo con il quale otteniamo le cose e dai mezzi economici con i quali ce le procuriamo.

Insomma, ancora una volta e come sempre penso, è questione di cultura.
Come vivi, come pensi la tua vita e come stai al mondo.
E che cosa hai fatto degli anni che hai vissuto finora.

Ciò non toglie che insegnare sia sempre bello.
Trasmetti, ti liberi e ti alleggerisci.
Ciascuno di noi insegna come sa e può e, come sa e può, impara.

Proprio come fa Irina, che non sa che c’è la grattugia per le spezie ma che sa pulire la lavatrice con il bicarbonato e la macchinetta del caffè con l’aceto.

E, in questo scambio, poco importa da quanto ce l’hai e quanto l’hai pagato.
Lezione magnifica, quella di occuparsi del e di vivere nel presente.

Che poi, lo ripetono fino alla nausea i filosofi e lo dovremmo fare tutti, è l’unica cosa che conta e di cui possiamo, almeno al momento, essere certi.