Ildebrando D’Arcangelo, Don Giovanni, a sinistra e Erwin Schrott, Leporello, Mozart/Da Ponte, Don Giovanni

La nobiltà ha dipinta  negli occhi l’onestà
(Mozart/Da Ponte, Don Giovanni)

Gli uomini, dipende da quando li incontri
Non so se sia quella cosa che si chiama tempistica. Non è un calcolo semplice, dipende da loro e da te, cioè dalla fase della vita nella quale stanno loro e dalla fase della vita nella quale stai tu.
Ne parlavo l’altro giorno con una cassiera del supermercato che, durante la pausa, prendeva il caffè al tavolo del bar con uno dei ragazzi.
Avevo fatto la spesa e mi sono fermata a salutarli.
Lei diceva che lui le sembrava suo figlio, io dicevo che a me sembrava un uomo giovane, certo, ma adulto, insomma, lui non suscitava in me nessun sentimento materno.
Il giovane uomo adulto (trentuno anni) ci guardava un po’ imbarazzato e un po’ incuriosito. Non so se aveva voglia di squagliarsi o di stare a vedere dove saremmo andate a parare.
Io ho fatto tutto un ragionamento secondo il quale ci sono uomini che una donna dovrebbe cogliere il più presto possibile, perché poi si guastano.
Altri che, invece, acquisiscono spessore con il tempo.
E poi dipende dalla fase esistenziale nella quale sta una donna.
In tutto questo, ha ragione il mio medico di riferimento, che usa spesso metafore e paragoni e che una volta mi ha parlato del tè, ovvero di un’infusione, che ha un sapore diverso a seconda di quando lo bevi.
Per esempio, quello che prendo io la mattina, sempre il medesimo perché sono una persona abitudinaria, sta in infusione quattro minuti.
Misurati con il timer che poi fa clic e suona.
Come dice il mio medico, se tu bevi il tuo tè troppo presto, non sa di niente.
Se aspetti troppo, diventa amaro perché il tannino è uscito fuori.
Ma sempre del medesimo tè si tratta.
Pure certe persone diventano amare se aspetti troppo. E un attimo prima erano insipide, dunque, imbevibili.
E sempre delle stesse persone si tratta.

Comunque, con tutti i calcoli e tutta la tempistica possibili, valutando tutto, troppo presto, troppo tardi, il momento è propizio, anzi, non lo è per niente, vi dico che io non ho mai incontrato in nessuna fase della vita mia o della vita sua e in nessuna età, né mia né sua, un uomo come Don Giovanni.

Mai dire mai.
Dunque, potrei incontrarlo domani pomeriggio.
E se succede, ve lo dico subito, certo non mi perdo l’occasione di entrare a far parte anch’io della sua lista e dal catalogo cantato da Leporello.

(E questo è Luca Pisaroni a Glyndebourne)

Giovane cavaliere estremamente licenzioso, come recita il libretto alla voce PERSONAGGI, figura che dalla letteratura è entrata nella vita, Don Giovanni è il centro della circonferenza verso il quale convergono tutti gli altri.
Che senza di lui non hanno più ragione di esistere e che infatti alla fine, lui scomparso, letteralmente, si dividono andando ciascuno per la sua strada.
Certamente lui è un libertino e un seduttore, ma tali definizioni gli danno comunque la possibilità di sfuggire al nostro desiderio di agguantarlo, fosse pure solo intellettualmente.
Per definirlo, mica per farci altro.
Già dotato di una sua storia, viene liberato da Mozart/Da Ponte da essa e viene accompagnato a diventare mito, ad ardere come una «fiamma erotica» che brucia chiunque lo avvicini.

Vieni un poco in questo loco:
fortunata io ti vo’ far.

Non siamo davanti solo a un uomo di mondo compito, impeccabile e frivolo, ma anche all’impudente freddo, coraggioso, protervo, che passa dall’incarnazione del desiderio assoluto a quella dell’orgoglio assoluto.
Don Giovanni è un uomo d’azione, si muove continuamente per tutta l’opera e noi sappiamo che il movimento è anche una caratteristica di Eros, che non è mai contento di dove sta e di quello che ha e che va quindi altrove a cercare altro.

Il carattere di Don Giovanni è molto ben espresso nell’aria dello Champagne, così chiamata per il contenuto alcolico e per l’effervescenza.
Vi propongo Fin c’han dal vino nell’interpretazione di un magnifico Simon Keenlyside, all’epoca trentasettenne, con Claudio Abbado sul podio.

La qualità del video è scarsa, però sono particolarmente legata a questa versione. Perché quella sera al Comunale c’ero anch’io, con l’abituccio elegante e le scarpette nel gelo del gennaio di Ferrara e il Maestro dirigeva con stampato in faccia un sorriso di rapimento divertito, portandosi dietro tutta l’orchestra, tutti i cantanti e il teatro intero.
Alla fine da un palco in alto in alto si sporse un tipo agitando un tricorno e gridando «Viva Mozart!» e «Viva la Libertà!», unendo la sua voce a quella degli interpreti che, anche loro, nella scena XXI del primo atto, cantano ciascuno la propria versione dell’idea che di libertà hanno, diversa e individuale: dai legami, dal servizio, dalla miseria, dai ricordi, da quello che vi pare.

La mia più bella volta all’opera.
Che tempi.

Ma torniamo all’aria dello Champagne, «inno della irresistibilità» del nostro uomo, peana alla «joie de vivre», con un accompagnamento musicale che «crepita, schiuma, sale, esplode o si calma, come il vino di Champagne».
E Don Giovanni in tutto questo?
Don Giovanni è moto perpetuo, non ha tempo per afflati lirici, ce lo dice la «povertà melodica, certamente voluta» dell’aria, ce lo dice «la frenesia di questa canzone bacchica e festiva» che, a ben guardare, esprime anche la tragedia dell’eroe: che è mosso da una sete implacabile ed esprime un tormento segreto, quello di mietere vittorie senza poi essere capace di godersele. Ciascuna di esse cancella quella precedente e ogni conquista è avvenuta «attraverso il mezzo erotico del sangue e della carne».
Ma il tempo, il grande nemico dell’Uomo, lo condanna alla monotonia della ripetizione, togliendo sapore a tutto.

Se non è un tormento questo.

È tutto amore!
Chi a una sola è fedele,
verso l’altre è crudele.

Don Giovanni è solo, asociale, fa continuamente il vuoto intorno a sé, è sempre impegnato ad allontanare qualcuno e nell’opera di Mozart/Da Ponte non gliene va mai bene una.
Sommando tutto è un nichilista con un’ossessione fissa, quella della seduzione, che ha denaro e che vuole divertirsi in modo talmente ostentato da indurci a sospettare che questa sua mania nasconda una malinconia di fondo, che nessun festeggiamento e nessun rinfresco a base di cioccolata, caffè, vini, presciutti, sorbetti e confetti potrà dissolvere.

Noi siamo all’interno del nostro progetto che ho chiamato Fenomenologia della Domestica e stiamo indagando la relazione fra padrone e servo, entrambi uomini.
E mi sono lasciata in fondo quella fra l’aristocratico Don Giovanni e il suo cameriere.
Come la ciliegina sulla torta, ciliegina che in francese rimane tale, cerise, ma che in inglese diventa icing, glassatura, andando a indicare certamente qualcosa di buono, ma anche di inatteso.
Ce lo aspettavamo?
Nella nostra riflessione, ci troviamo dunque alle prese con l’altro corno della situazione: Leporello.
Lo conosciamo subito, come di solito accade con i personaggi minori che preparano il campo. Ma lui non è un personaggio minore, anzi. Senza di lui Don Giovanni non sarebbe quello che è.

Certo, il servo è ottuso, codardo, superstizioso, ghiottone e ci dice subito che tutto il suo malumore è dovuto al fatto che lui mangia e dorme male e sta pure al freddo e alla pioggia per fare la guardia al galantuomo che vuole star dentro con la bella.
Ma è Leporello che si mette sulle spalle tutta la comicità dell’opera, liberando così Don Giovanni dalla tradizione del buffo.
E rendendolo moderno.
Non avrei apprezzato un libertino farsesco, in me il guitto non suscita nessun sentimento di seduzione e molto amo anche il lato demoniaco e visionario del protagonista.
Dunque, «la simbiosi che lega, per opposizione, i caratteri di Leporello e di Don Giovanni» li rende complementari e «indispensabili l’uno all’altro».
Del resto il servo ha la familiarità per rimproverare al padrone le sue malefatte e il padrone ha la superiorità di non starlo a sentire.
I due sono le diverse facce della medesima medaglia, Leporello è però «la parte bassa di Don Giovanni», se vogliamo, anche l’elemento «escremenziale» di lui.
Il fatto è che a Leporello piacerebbe «commettere gli stessi peccati del suo padrone, ma non ne è capace perché non ha le sue doti».
Leporello è la controfigura di Don Giovanni e, come tutte le controfigure, deve sollevare l’altro dal pericolo.
Egli assaggia il sapore della conquista quando il padrone gli impone di scambiarsi gli abiti perché vuole che lui allontani Donna Elvira per poterne corteggiare la cameriera.
(Corteggiare una cameriera!).

DONN’ELVIRA Crudele! Se sapeste
quante lagrime e quanti
sospir voi mi costate!…
LEPORELLO Io, vita mia?
DONN’ELVIRA Voi.
LEPORELLO Poverina! Quanto mi dispiace!
DONN’ELVIRA Mi fuggirete più?
LEPORELLO No, muso bello.
DONN’ELVIRA Sarete sempre mio?
LEPORELLO Sempre.
DONN’ELVIRA Carissimo!
LEPORELLO Carissima! (La burla mi dà gusto.)
DONN’ELVIRA Mio tesoro.
LEPORELLO Mia Venere!
DONN’ELVIRA Son per voi tutta foco.
LEPORELLO Io tutto cenere.
DON GIOVANNI (Il birbo si riscalda.)
DONN’ELVIRA E non m’ingannerete?
LEPORELLO No, sicuro

Lasciamo stare l’interpretazione di un Don Giovanni geloso di Leporello, certo, ha buttato addosso alla nobile dama il suo servo, però l’importante è che non passi all’atto.

Comunque qui, liberato il campo, il libertino può esibirsi nella «celeberrima serenata», di una semplicità che la dice lunga su quanto sia sommario il seduttore, che è, come abbiamo visto, Eros, movimento e, insieme, inabilità a provare sentimenti profondi.
Non a caso la canzone è intonata con l’accompagnamento del mandolino, il cui suono «è corto, incapace di lunghe vibrazioni, si spegne subito».
Come il cuore di Don Giovanni.
Qui interpretato a Glyndebourne da un elegantissimo Gerald Finley.

Il rapporto padrone/servo si scioglie, come si sciolgono tanti rapporti, a tavola.
Ma a tavola Don Giovanni sta da solo, lo ricordino coloro che non amano consumare un pasto in solitudine, pratica invece molto apprezzata dall’aristocrazia.
Certo, c’è anche un’orchestrina, che suona pezzi alla moda.

DON GIOVANNI Già la mensa è preparata.
(ai suonatori)
Voi suonate, amici cari:
giacché spendo i miei danari,
io mi voglio divertir.
(siede a mensa)
Leporello, presto in tavola!
LEPORELLO Son prontissimo a servir.
(servi portano in tavola. I suonatori cominciano a suonare, e Don Giovanni mangia)

Don Giovanni esalta il proprio piacere con le parole, raccontandolo.
Sta mangiando e questo gli basta.
Beve Marzemino.
E Leporello ha sottratto alla mensa un pezzo di fagiano con la scusa di provare l’eccellenza del cuoco.
Come è ovvio, Don Giovanni ha anche un cuoco.

Ma si ritrova di nuovo Donna Elvira fra i piedi.
Lei, poverina, è un’autentica piattola e deve anche sopportare il più bel canto mai innalzato al gusto delle donne e del vino.

Vivan le femmine, / Viva il buon vino! / Sostegno e gloria / d’umanità!

(Qui a Parigi con Markus Werba | Don Giovanni e
Miah Persson | Donna Elvira)

È giunto il tempo del dramma e del distacco.
I due uomini si trovano su posizioni opposte quando bussa alla porta, inopinatamente, il Commendatore, che Don Giovanni aveva ucciso all’inizio, invitato a cena per scherno quando si era trovato nel cimitero davanti alla sua statua e che, vediamo senza riuscire a capacitarci, ha accettato l’invito sul serio.
Questo è il tempo in cui il tragico e il comico si fronteggiano.
Leporello è terrorizzato e non è andato ad aprire la porta.
Ad aprirla ci va personalmente Don Giovanni, dopo aver preso dalla tavola un doppiere.
Il servo è finito sotto al tavolo.
In poche battute, il servo resta servo e il padrone si innalza ad altezze metafisiche.

È un libero pensatore, uno spirito libero, e non ci sta.
Non ci sta: a farsi considerare vile; a pentirsi; a cambiare vita.
Fino all’ultimo momento, pure fra il tremore, gli spiriti che lo assalgono, i vortici di foco, l’agitazione delle viscere, lo strazio, la smania, Don Giovanni rimane se stesso, niente conversione, niente cambio di rotta.
Che coraggio.
Del resto, lo aveva detto alla fine del primo atto:

È confusa la mia testa,
non so più quel ch’io mi faccia,
e un’orribile tempesta
minacciando, oddio! mi va!
Ma non manca in me coraggio:
non mi perdo o mi confondo…
Se cadesse ancora il mondo
nulla mai temer mi fa!

Lo ribadisce alla fine del secondo:

Ho fermo il core in petto,
non ho timor: verrò!

Il Commendatore lo prende per mano e lo porta via.

E noi lo abbiamo perso.
Come lo hanno perso loro.
Come lo ha perso il musicista, che pure lo ha condannato alla morte, ma che, a sentire un critico che secondo me ha visto giusto, continua ad amarlo e lo congeda con «l’immenso dolore che per due volte egli ha diffuso nell’orchestra…Che significa questo soffio di tenerezza, talmente inatteso?».
Ve lo dico io, che significa il soffio di tenerezza.
Che anche Mozart si è arreso al fascino di Don Giovanni e che Da Ponte, «quella buona lana di avventuriero settecentesco», si è divertito a raccontarsi.
E anche noi proviamo tenerezza di fronte a questa scomparsa e sale in noi l’indifferenza nei confronti di Leporello, che va all’osteria / A trovar padron migliore.
Il servo, che pure il padrone a momenti aveva innalzato e forse senza nemmeno volerlo, mosso dall’ansia della sua solitudine a cercare un interlocutore, meno fedele di quanto non sia stato Sancho Panza a Don Chisciotte, ebbene il servo anche in questo appare moderno: un padrone vale l’altro, l’importante è stare riparati e al caldo, anche avendo pagato l’altissimo prezzo di chiudere con tutte le avventure di cui Don Giovanni rimane per noi protagonista assoluto, senza confronto e senza possibilità di paragone.
E vivere un’avventura per il tramite di un altro, fosse pure, questo altro, un padrone, il cinema o la letteratura, non significa forse viverla, l’avventura, come se la vivessimo noi in prima persona?

Le citazioni dal libretto del Don Giovanni sono in corsivo.
Le citazioni da testi critici, primo fra tutti la Lettura del Don Giovanni di Mozart di Massimo Mila, sono fra virgolette.

E questo è il trailer dell’opera da cui è tratta l’immagine che vi ho messo in apertura