In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.

Vangelo secondo Giovanni, Prologo, 1, 1

In viale Eritrea, a un numero pari, c’è una piccola pizzeria a taglio.
Al banco, una ragazza con la testa completamente rasata, mi è sembrato più per motivi di salute che di stile.
Qualche giorno fa sono entrata lì, erano le tre del pomeriggio, avevo saltato il pranzo e avevo saltato anche un’altra pizzeria a taglio, che stava qualche numero pari prima.
Quando si dice, l’ispirazione.
Chiedo alla ragazza una porzione piccola di margherita.
Lei, sveltissima, mi domanda a raffica:

  1. La mangio lì o passeggiando (ha detto proprio passeggiando). Passeggiando.
  2. La voglio calda o a temperatura ambiente. Calda.
  3. La voglio aperta o piegata. Piegata.

Le ho fatto i complimenti per l’efficienza. Lei mi ha detto che aveva messo a punto quella tecnica per neutralizzare i bastian contrari.
Tutti i clienti sono tali, se lei fa per scaldare la pizza, le dicono che la mangiano così; se lei la piega, le dicono che la vogliono aperta; se lei pensa che la mangino per strada, quelli si piazzano lì e quando li sposti.
Ho pensato di chiedere alla ragazza se aveva anche un metodo per neutralizzare, nell’ordine: i guastafeste; i permalosi; coloro che ne fanno sempre una questione di principio; gli orgogliosi fino al punto di essere ottusi; i tenaci che alla lunga diventano muli.
Eccetera.
Un premio, le dovrebbero dare, con lei la vita scorre più facile.

È stato così che qualche giorno dopo stavo di nuovo a viale Eritrea e sono tornata nella pizzeria a taglio.
Ero sul piede di guerra e ribollivo di sentimenti confusi: la mia nuova logopedista, la numero 4 della stagione, non aveva aperto il mio file con una registrazione, dicendomi che non aveva avuto tempo.
Questa cosa non andava bene, ci avevo pensato e avevo deciso che le avrei detto che quello era il nostro secondo e ultimo incontro, se lei non aveva tempo per i suoi pazienti, io paziente sua non volevo essere.
Mi ero preparata tutto il discorso, anche il tono, che sarebbe stato sereno ma fermo.
Nella pizzeria a taglio non c’era la ragazza, c’era il titolare, lui, rasato perché si era rasato per suo conto come fanno gli uomini che perdono i capelli.
Non c’era la margherita a taglio, c’erano solo delle pizzette tonde, che lui mi ha proposto.
Ho detto che erano troppo grosse, lui mi ha detto te ne do metà, io, a raffica ho chiosato: calda, piegata e me la porto a passeggio.
Così è stato.
Lui mi ha detto: «Ti abbraccio», lei è arrivata in quel momento, ci siamo salutate, lei mi ha detto che mi aveva lasciata in buone mani.
Ho ringraziato, in effetti mi era successo qualcosa: mi era passata la furia.
Passeggiando per via di Sant’Agnese e mangiando la mia pizza, sono andata dalla logopedista numero 4, con la quale avevo appuntamento.
Nel frattempo avevo deciso che avrei tirato fuori il fatto del file non aperto solo alla fine dell’incontro, mostrandomi dispiaciuta.
Non più furiosa.
Il potere della pizza a taglio.

Perché non apprezzo le logopediste: perché volano basso, come basso volano i tacchini; perché applicano la regoletta; perché ripetono la lezioncina; perché sono incapaci di una terapia sartoriale, laddove fra me e il ragazzino che ha problemi di espressione verbale, la differenza la vedrebbe anche uno che non capisce niente né di logos-, né di -pedia.
Perché sono tutte donne.
Perché le logopediste, poi, sono tutte donne, mica lo capisco.
Capisco che siano donne le estetiste, le bustaie, le ricamatrici, ma il senso delle logopediste mi sfugge.

Ma stavamo dicendo: la logopedia.
Questo è il parere della Treccani: «Branca interdisciplinare della riabilitazione che mira a correggere disturbi del linguaggio. Strettamente connessa alla foniatria, da cui in un certo senso deriva, utilizza programmi di intervento che poggiano su un complesso di cognizioni afferenti alla medicina (prevalentemente neurologia e otorinolaringologia), alla psicologia, alla glottologia e alla pedagogia».
Credo che si capisca che siamo davanti non a un tacchino ma a un’aquila reale, che distende le ali e vola ad altezze vertiginose.
Non ne ho mai incontrata una.

Decidete voi se sto parlando del rapace o di altro.

Finora una sola logopedista mi sembrò dire cose interessanti.
Mi vide, in uno dei miei consueti e sempre più frequenti momenti di crisi, e mi disse che quella voce, la mia, andava alzata, che era troppo scura e non mi stava bene.
Avrebbe potuto dire la medesima cosa un parrucchiere: schiariamo un po’ questi capelli.
Io, che mi sono sempre letta con un colore di voce da contralto, le chiesi se stava scherzando e come le era venuta un’idea del genere.
Capii rapidamente, però, che aveva ragione, non fosse altro che perché facevo meno fatica a parlare.
Lei mi spiegò che la voce è la prima impressione che abbiamo di una persona; che per ciascuno di noi è impossibile sentire la propria vera voce perché tutto il corpo è una cassa di risonanza e questo è il motivo per cui non riconosciamo mai la nostra voce registrata (questa cosa mi sembrò una metafora dell’impossibilità profonda di conoscere noi stessi); che solo in una sala di doppiaggio, completamente insonorizzata, potremmo davvero sentirci.
Lei mi sembrò una che aveva pensato a quello che faceva.
Lei mi sembrò avere degli argomenti in grado di confrontarsi con i miei.
Lei mi sembrò capace di tenermi testa.
E di portarmi dalla sua parte, il tutto nonostante la noia furibonda degli esercizi: shhhia, ie, io, iu; A E I O U; uno, uno, uno; due due due; ma, me, mi, mo, mu.
Io sugli esercizi mi esaspero, darei la testa al muro, al terzo ma me mi esplodo e penso mo e mu lo fai dire a tua sorella.
Comunque, lei era brava.
E allora perché non l’hai cercata adesso. Perché era una narcisa insopportabile, perché diceva che quella era una prerogativa del mestiere, che dava tante soddisfazioni, perché ogni volta dovevo sentire per una ventina di minuti i suoi racconti su quello che faceva, in quel periodo lei era incinta e continuava a uscire con le amiche tutte le sere e poi dormiva poco e una volta si intossicò in un ristorante e doveva raccontarmi tutto questo, io stavo in croce con la voce e lei invadeva il suo spazio professionale con quelle narrazioni che mi sembravano ogni volta più insulse.
Comunque ci ho pensato, a tornare da lei, e non è detto che non lo faccia.

Ma sbaglio a dire che tutte le logopediste sono donne.
Quest’anno ho avuto anche il Vocal Coach, anzi, lui è stato il numero 1.
Come sempre con gli uomini, gli ho creduto, io sono una donna in buona fede, non vedo perché uno dovrebbe venire a infinocchiare proprio me.
E infatti eravamo partiti benissimo.
Anche se lui non aveva aperto il mio file.
Pure lui non aveva avuto tempo.
Io lo guardavo e pensavo che però non andava bene, l’avevo pregato di ascoltare trenta secondi della registrazione di una mia lezione, l’equivalente sarebbe stato portare da un chirurgo plastico una foto di prima di un (non sia mai) incidente.

Il soufflé di Stefan Leitner (questo non si sgonfia)

Non ho detto che devi sentire la lezione, cosa che, fra l’altro, mica ti farebbe male, ti avvicineresti un po’ di più a quell’aquila reale di cui stavamo parlando, ti ho solo chiesto di ascoltare qualche secondo la mia voce prima dell’intervento chirurgico cui mi sono sottoposta, non gli ho detto niente e ho fatto male, perché questa cosa mi è rimasta dentro e piano piano ero sempre più delusa, lui si è sgonfiato come un soufflé, dopo quaranta giorni ho chiarito che non avevo nessuna intenzione di continuare, stavolta erano i numeri da uno a dieci, i giorni della settimana e i mesi dell’anno, gli avevo detto cambiamo un po’ questa formula, divento matta, gli ho detto ma fammi imparare i bigliettini dei Baci Perugina e le formazioni della nazionale, almeno uso il cervello.

Niente, io con questi sono sempre l’unica ad avere delle idee.

Ho avuto anche la logopedista che mi faceva leggere a voce alta delle frasette che prendeva da un mensile di «scienza, sociologia e attualità», una delle pubblicazioni più idiote che ci siano al mondo.
Ma allora molto meglio la rubrichetta Strano ma vero della Settimana enigmistica:
* In Australia è stato raccolto un gigantesco tartufo dell’incredibile peso di 1.018 grammi.
* Il rosso non irrita i tori: questi bovini sono daltonici.
* Lo scrittore Alexandre Dumas padre amava passeggiare per le vie di Parigi tenendo al guinzaglio un avvoltoio addomesticato.
* Poppea, che fu la sposa di Nerone, faceva ricoprire con lamine d’oro gli zoccoli delle asine che le fornivano il latte per i suoi bagni giornalieri.

Anche queste, notizie idiote, ma, almeno, con una storia gloriosa, il periodico esce dal 1932 e ha un suo peso nella vita di tanti.

Al giorno numero quaranta ho detto al Vocal Coach che la situazione era questa: se lui fosse stato un nutrizionista e io una che doveva perdere trenta chili, dopo quel lasso di tempo sarebbe stato legittimo da parte mia aspettarmi di vedere scendere l’ago della bilancia di almeno cinquecento grammi.
Visto che le cose erano rimaste tali e quali, la dieta non funzionava.
E poi non ne potevo più dei giorni della settimana.
Lui allora mi ha dato da leggere un elenco di aforismi: «Più inconfondibili delle impronte digitali ci sono solo le sfumature della voce».
Dobbiamo la creazione di questa preclara dichiarazione di intelligenza a tale Saraturchina, che si esprime così su Twitter.

Sono andata da altri due specialisti.
Il secondo, da cui mi aveva mandato il primo, mi ha mandato a sua volta da una logopedista che officia in un ospedale ai Castelli.
Per me, nemmeno scomodo, abito sull’Appia, quindi faccio prima ad andare ad Ariccia che a Vigna Clara.
Ma per un primo appuntamento con la signora avrei dovuto aspettare un mese e mezzo. Non solo, c’erano da superare anche parecchie prove tipo quelle del Graal, il CUP Regione Lazio, la visita dal fisiatra, che non si capiva a che cosa servisse, visto che da mesi mi stanno visitando tutti, e poi era Natale, anche se in realtà eravamo poco dopo il venti di novembre.
A Natale loro vanno tutti in ferie.
È stato così che l’ultimo foniatra mi ha mandato dalla logopedista analcolica, della quale vi ho parlato qui.
Lì, poi, proprio non era aria.

Ed è dunque uscita la logopedista numero 4.
Il primo incontro è andato decentemente.
Ed è stato in quella circostanza, siccome per essere prudentemente in anticipo sull’orario non avevo mangiato niente, che sono andata a spasso per viale Eritrea.
Quando ci siamo conosciute, ho chiesto alla logopedista se potevo mandarle il file.
Mi ha detto certamente e ha anche aggiunto che bello.
Poi il file non lo ha aperto.
Però quando ci siamo riviste e io ero in uno stato d’animo di fiducia e disponibilità, lei si è scusata e mi ha detto che questo per lei è un periodo faticosissimo perché ha realizzato con una collega un vecchio progetto un po’ folle: quello di aprire una libreria.
A quel punto io sono saltata su, affascinata.
E le ho detto che lei era bravissima, una scelta del genere, così controcorrente e che c’era proprio bisogno di una libreria nuova piccola e curata, io compro tutto su Amazon perché Feltrinelli, che sta a cento metri da casa mia, mi fa orrore, non hanno mai niente di quello che cerco, in compenso hanno i gadget e i cesti da picnic, dico sempre ma perché non andate a vedere com’è Gallimard, se vendono pure lì i segnalibri con scritto sopra l’aforisma.
(Questa faccenda degli aforismi dovremo indagarla).
Io già ero placata, poi questa notizia mi ha fatto amare questa donna, che con me è stata limpida e accurata, mi ha ricominciato a spiegare che cosa è la voce e come l’aria, ovvero il respiro, si trasforma in parole quando passa attraverso le corde vocali, facendole vibrare.
Ma io so già queste cose?
Certo che le so, sono anni che ho problemi di voce e sono anni che frequento logopediste.
Poi, come sempre, dipende da come le cose si dicono e da come esse si raccontano.
Con la logopedista numero 4 abbiamo fatto gli esercizi, che ho anche come compiti a casa, che però durano solo dieci minuti e non trenta.
Insomma, li sopporto.
Io e lei abbiamo anche parlato di cinema e le ho detto che sto mettendo insieme una serie di film che hanno a che fare con la voce.

Eric Lartigau, La Famille Bélier, 2014

Lei ha rilanciato con un altro titolo, La Famille Bélier, che mi sono affrettata a procurarmi, dove ci sono due genitori sordomuti e la figlia che si scopre dotata per il canto.

Jean-Léon Gérôme, Testa di donna con corna di ariete detta La Baccante, 1853

Io ho ribattuto che Bélier in francese è l’Ariete.
Lei è Ariete, figuriamoci se non le ho chiesto il giorno di nascita.
Ariete di marzo.
Sono Ariete pure io, e di marzo.

Se non ci prendiamo a cornate, come spesso succede fra noi, finisce che andiamo d’accordo.
Il giorno stesso di quell’incontro lei mi ha mandato un messaggio caldo in cui si scusava ancora per non aver aperto il file e mi chiedeva la gentilezza di rimandarglielo, nuovamente compresso, la vigilia di Natale, perché così avrebbe avuto tutto il tempo per ascoltarlo.
Si è firmata solo con il nome: Emanuela.

Domani abbiamo un appuntamento.
Nel frattempo ho fatto i fumenti con l’apparecchietto (sette minuti e non trenta) e adesso vado a fare gli esercizi: shhhhh; shiiiiiiiii.

Per chiudere, per quanto provvisoriamente.
Il λόγος è la parola, il pensiero, il logos è il Verbo.
La -pedia viene da παιδέια, che è l’insegnamento.
Voi capite che stiamo volando alto e che a quell’altezza che dà le vertigini dobbiamo tendere.

Viale Eritrea si innesta su piazza Annibaliano, dove arriva la metro B, che prendo a Termini, cambiando la mia A, che ho a tre minuti da casa mia.

La pizzeria di viale Eritrea

E a viale Eritrea c’è una pizzeria a taglio con una ragazza con le idee chiare, che ho deciso che farà parte della mia riabilitazione e che sarà un aspetto sostanziale e parecchio educativo di tutta la mia terapia.