– Monsieur Hamil, si può vivere senza amore?
Non mi ha risposto.

– Monsieur Hamil, si può vivere senza amore?
– Sì, disse lui, e abbassò la testa come se avesse vergogna.
Mi sono messo a piangere.

Roman Gary, La vita davanti a sé, 1975

Esito.
Indugio.
Prendo tempo.
Cerco e trovo scuse.
È quando Itaca ce l’hai lì davanti, che Itaca è più lontana.
Ho avuto da fare.
Ho fatto altro.
Non ho ancora visto gli episodi 9 e 10 della stagione 5: quelli finali.
So quasi tutto.
È subentrato un altro regista-autore: «un nome simile non poteva permettersi di non proporre un’immagine clamorosa, e si è serviti».
Una rottura di stile. Molto orientato all’onirico.
Non mi mordo le mani per l’impazienza. No.
Davanti all’arte, divento paziente.
Allento la presa. Esito. Indugio. Prendo tempo.
E poi, quando ho finito, che faccio?
Come quando ti sei laureato.
Come quando hai divorziato e cambiato la targhetta del nome fuori dalla porta di casa, il giorno stesso che sei stato in tribunale.
La vita davanti a te.

Hai voglia.

Le recensioni, poche e accurate, dicono cose utili ad approfondire quello che ho già capito.
Il protagonista, un attore «pas cliché»; l’antagonista, «incredibilmente ben scritto» (ritorno della celebrazione della parola); la paranoia, totale; tutti sono «in interiorità e quasi freddezza»; ancora, un cast «farcito di attori atipici».
«Si assiste al miracolo audiovisivo di cogliere le loro emozioni in un gioco preciso ma non gelido, espressivo e minimalista».
C’è scritto «miracolo».
Gli hacker «ci spingono al piacere della geekerie, della quale non si capisce niente ma di cui si ammira la potenza».
Che ho intenzione di fare.
E che ne so.
Ci sono relazioni, si intuisce, magnifiche, che non si sono mai espresse e che sono morte lì dove sarebbero dovute iniziare.
Ci sono persone con le quali sei stato benissimo e che non vedrai mai più, è la vita. Sono i paradossi della vita, le vendette della vita, i regolamenti di conti della vita.
Non si capisce perché con una serie dovrebbe essere altrimenti.
Ho il cofanetto lì, vicino alla televisione nuova, mi basta prendere i due telecomandi, sistemare la poltrona, riempirmi un calice di vino e portarmi tutta la bottiglia.
Decidere la lingua e i sottotitoli. Sono per mal udenti, i sottotitoli da me prediletti: ti dicono che una porta cigola, che il vento soffia, ti dicono quelle cose bellissime sulla musica.
Musica palpitante. Musica intrigante.
Musica dolce.

Non so se lo farò. Non so se inserirò l’ultimo dvd nel lettore.

Darò notizie.
Non so se darò notizie.

Le prime avvisaglie della pandemia si sono avvertite più o meno un anno fa. In un anno la mia professione è cambiata radicalmente.
Una sera in cui volevo fare chiarezza, ho fatto sputare al mio computer la contabilità, previsioni e spese, di stagioni passate.
Ricordavo, ma non con la spietatezza delle cifre. Ricordavo più che altro la sensazione di strozzo, la sala che mi succhiava l’anima, i collaboratori.
I costi dei collaboratori, di quelli che collaboravano e di quelli che collaboravano poco o niente.
La mancate forniture della sala. Non si capisce perché tu mi affitti la sala e io il primo giorno mi rendo conto troppo tardi che non è contemplata la carta igienica per il gabinetto. Se l’avessi saputo, avrei provveduto, ma come fai a pensare a una cosa del genere, con quei costi.
Ma pure con costi che fossero stati meno alti.
E adesso che si fa.
Adesso si fa che mi sono organizzata in un’altra dimensione, che mi sono data ancora un po’ di tempo per ambientarmi, ma che già mi muovo bene, adesso si fa che, proprio perché mi muovo bene, sto facendo lezioni bellissime.
E che sono piena di idee.
E che da un pezzo non ero così entusiasta di quello che facevo.
Adesso si fa che tutte le sale che ci sono in giro per la città a costi alti e spocchia e collaborazione zero sono rimaste vuote e come quelli degli uffici del centro che, come mi ha detto il giornalaio di via Veneto, si sono accorti  che potevano lavorare diversamente e non essere più strangolati dalle spese, hanno capito le gioie domestiche e hanno concepito un lavoro diverso, pure io mi felicito per l’accoglienza del mio studio, che pure prima per me era il centro del mondo, figuriamoci adesso, dialogo con il mio computer con la disinvoltura della geekerie, di cui capisco poco ma ammiro la potenza.
Adesso si fa che ricominciamo daccapo e voi ragionate di ciò che è stato e, soprattutto, di ciò che avete fatto.
Proprio come si fa nei matrimoni andati alla malora, nelle relazioni d’accatto e sul lavoro.
Adesso si fa che voi vi rendete conto di quanto siete stati poco lungimiranti e molto ottusi, al punto di non capire che la carta igienica fosse e sia indispensabile al gabinetto.
Adesso si fa che si fa così.
Se siete capaci, così, di farlo.

Ho chiesto a due cassiere di due supermercati se erano gelose dei loro clienti, cioè se il fatto di vedere uno che andava sempre da loro in fila per un’altra cassa suscitasse in loro qualche sentimento di contrarietà o di rivalsa.
La relazione del cliente con la cassiera è di solito una relazione amorosa. A parte gli innamorati autentici, che scendono quattro volte al giorno per comprare, a turno, mezzo litro di latte, una busta di insalata, il detersivo per la lavastoviglie e poi, nell’uscita successiva, il brillantante, di solito non si va da una cassiera che ci sta antipatica.
Io sono una donna gelosa.
Io sto molto attenta alla gelosia degli altri, quindi, mettiamo, se vado da una cassiera, dopo passo a salutare le altre tre che sono di turno e che mi sento di avere trascurato.
Risultati della mia inchiesta. Una al supermercato qui nella strada in cui abito mi ha detto che lei non ci pensa per niente a essere gelosa dei clienti.
È una ragazzona allegra, che abita ai Castelli con la madre, le piace mangiare e mi pare che nella vita faccia solo avanti e indietro dai Castelli a via Clelia.
L’altra lavora al supermercato dove c’è il direttore che fa parte dell’intrattenimento, è una donna articolata, divorziata, che ha avuto un figlio giovanissima e il figlio lo conosco perché disegna fumetti e il sabato e la domenica fa pure lui dei turni in cassa.
Lei è una femminilissima, che parla un buon italiano, che è elegante e ha una sorella sommelier.
Se mi ci metto, riesco a indovinare tutta la sua vita sentimentale, dal divorzio in poi.
A lei ho chiesto stamattina se era gelosa dei suoi clienti.
Si è fermata. Stava passando la mia spesa sullo scanner, mi ha detto «Mi fai sempre certe domande», è rimasta con il pacchetto di Osvego in mano.
Mi ha detto «Sì, certe volte ci sto pure male».
Quando mi dicono che il supermercato è un posto impersonale, mi viene da ridere.
Forse, per voi.
Per me il supermercato è il posto dei sentimenti.

Ho scoperto i vini sudafricani.
Come ogni volta che scopro un vino, mi è venuto in mente che la vita fosse interessante.
Di solito non lo penso per niente.
Certo che, però, il vino aiuta a sopportarla.
Dopo avere provato uno Chardonnay dal nome che era tutto un programma, Cape Dreams, ne ho ordinato una cassa.
Il vino che avevo incontrato viene da una regione che si chiama Valley of Wines and Roses: più di così.

Cape Dreams

E ha accanto all’etichetta un bollino dorato con su scritto WOMEN IN WINE, di solito sono Women in Love, abbiamo fatto un passo avanti verso il rapimento dei sensi.
Ho visto un post su Instagram di una che diceva di leggere in modo stagionale: i russi in inverno; gli inglesi in autunno, l’estate, gli italiani.
Ho trovato questa cosa geniale.
Io bevo a seconda dei nomi.
Pure questa mi sembra una strada praticabile.

Sto leggendo un libro che mi sembra bellissimo, infatti vi ho messo una citazione in apertura. Ne ha parlato domenica mattina alla radio una traduttrice (dal giapponese), che ha detto solo cose intelligenti.
È proprio vero, che la persona intelligente dice cose intelligenti e che la persona cretina dice cose cretine, fateci caso.
Questo vorrei dalla mia radio: che mi suggerisse a raffica bei libri, musei che non conosco, idee che non mi sono venute in mente.
Invece: repliche; stupidaggini; libri, sì, ma solo per fare pubblicità e sempre ai medesimi autori; gente che conduce programmi che, si fiuta nell’aria, non sa di che parla e legge quello che gli ha messo sotto il naso la redazione; interventi patetici e banali degli ascoltatori, dappertutto e continuamente, collaborate a rendere ancora più mediocre la vostra radio; musica buona, almeno questo.
Però.
Però, che brutta radio.

Però, poi altrove ci sono le serie.
Pure se restano lì, non consumate fino in fondo, proprio come certe relazioni che si tengono da parte per i tempi duri (o per quelli più belli, non si capisce).
Poi, però, c’è il Sud Africa che, almeno a giudicare dai vini che produce, mi sembra un luogo fantastico.

Come niente, stavolta finisce, quando finisce il confinamento, che faccio un viaggio a sud invece che a nord.

E bevo ugualmente cose da sogno.
Lo promette l’etichetta.
Lo promette il vino che ho nel calice.