Sir Joshua Reynolds, Self-Portrait as a Deaf Man, 1775

Situazioni. Accademia, aula di Storia dell’arte.
Sto per iniziare una lezione, in seconda fila, ben visibile, uno studente con gli auricolari indossati.
D’ora in poi, anche, le cuffiette.
Io: «Toglile».
Lui: «Sono spente».
Io: «Toglile lo stesso».
Lui: «Le porto sempre».
Io: «Pure quando fai la doccia?».
Lui: «Sì».
Come dice la canzone: bisogna saper perdere.
E lascio perdere.
Metropolitana. Gente con la mascherina, le cuffiette, il laccetto degli occhiali, gli occhiali, la sciarpa.
Ancora uno sforzo, il filo di luci, e l’addobbo dell’albero, fra un po’ è Natale, no?, è completo.


Guardo le mie orecchie e mi sembrano normali, però mi riservo di chiedere alla prossima visita di controllo al mio foniatra, specialista anche in Audiologia, se per caso, avendo io un solo paio di orecchie e non potendo quindi fare confronti, se per caso dicevo non avessi una qualche conformazione strana, diversa da quella della popolazione locale.
Il fatto è che io le cuffiette non le sopporto e mi chiedo come possa la gente tenerle avvitate addosso, sempre, pure quando fa la doccia.
Avevo delle cuffiette con il filo che utilizzavo solo per rivedere i file delle lezioni, si è rotto il microfono, prima ci ho messo un pezzo di nastro adesivo, poi lo trovavo brutto, ho chiesto consiglio e mi sono comprata delle cuffie Bluetooth wireless, ovvero una scatoletta uguale a quella del filo interdentale con dentro due pezzi che sembrano identici ma non lo sono, uno è L, left, l’altro, R, right.
Siccome mi sono applicata, ho pure capito che dovevo caricarle e questo ho fatto.
Poi le ho indossate.
Mai mi sono sentita un marziano come quella volta lì, una voce mi diceva che ero connessa, sì, perché le avevo anche connesse al telefono, e poi si accendevano le lucette e fra un po’ è Natale, no?, dunque avevo fatto l’acquisto giusto al momento giusto.
Ma il fastidio ci stava tutto.
Non solo, una sera ho provato a vedere un film a letto e mi sono addormentata e com’è come non è, ho ritrovato una cuffia la mattina dopo sul tappeto e un’altra fra le coperte.
Infatti avevo dormito bene, disconnessa.
Discussioni infinite con gli studenti, ma questa è una forma di alienazione, non senti più niente, la voce di Napoli è diversa dalla voce di Roma, che è diversa da quella di Parigi, così come il treno ha una voce che non è quella dell’autobus e il mare ha una voce tutta sua, e il bosco risuona di mille voci diverse, e poi c’è la pioggia e c’è il vento, qui mi state facendo diventare decadente pure quando non sarebbe aria, anzi, a proposito, pure l’aria ha il suo suono.
E voi, invece, niente, mi sembrate quelli che sostengono che il pepe fa male e allora mettono il peperoncino dappertutto, però il pepe esalta ogni sapore e il peperoncino invece tutto smorza, senti sempre e solo peperoncino, così come tu senti sempre e solo la tua musica.
Vogliono starsene in pace, non essere disturbati, non ti lasciano passare quando chiedi loro permesso perché non sentono, vogliono sempre stare chiusi nella loro cameretta, tranne poi dover ricorrere allo psicologo se cause esterne nella loro cameretta per due mesi ce li tengono chiusi per davvero.
Leggo la recensione di un articolo pubblicato dalla rivista scientifica BMJ Global Health: un miliardo di adolescenti e di giovani adulti corrono il rischio di una perdita auditiva a causa di «pratiche di ascolto pericolose». All’origine di questo inquietante flagello il volume troppo alto dei caschi, degli auricolari, delle discoteche e delle sale da concerto.
«Nel mondo, 23,81% di giovani fra i 12 e i 34 anni, cioè circa un quarto, metterebbero le loro orecchie a dura prova con i loro “apparecchi d’ascolto personali” e la metà (48%) sarebbe confrontata con dei volumi sonori nefasti…Sulla base di questi calcoli, gli autori dell’articolo stimano che il numero di vittime potenziali di questi disturbi dalle origini identificate è compreso fra 670 milioni e 1,35 miliardi».
Disturbi dalle origini identificate: l’equivalente è che questi si diano regolarmente delle martellate sui denti, partendo dagli incisivi superiori e proseguendo con i canini e i premolari, passando poi all’arcata inferiore.
Qualcuno dovrebbe suggerire loro di non farlo.
Vi propongo una silloge di commenti che la dicono lunga su quanto il cretino prevalga sempre e comunque: è normale, quando usciamo non vogliamo sentire tutti questi rumori parassiti (parassiti?) e rimanere nella nostra bolla; perché non parlate pure di perdita intellettuale, visti i programmi deficienti della televisione?; preferisco finire sordo che continuare a sentire le castronerie umane; smettetela di cercare il male dappertutto, e allora, l’alcol? (si trova sempre qualcuno che ce l’ha con l’alcol, così come si trova sempre qualcuno che ce l’ha col pepe, nota mia); che ve ne importa, lasciatemi ascoltare del rap Hardcore; perché, allora, il vaccino COVID; installare la paura, la paranoia.
Eccetera.
La cosa divertente è che fra i commenti, siamo su Instagram, account de Le Parisien, si infilano sempre delle signorine in cerca di compagnia, con frasi del tipo che posso fare stasera oppure mi sento così sola e se uno va a guardare chi sono, trova invariabilmente una ventiquattrenne di Philadelphia che, pure volendo, non è che sia facilissima da raggiungere in quattro e quattr’otto per la compagnia che lei va cercando per stasera.
Voi pensate al lavoro che c’è dietro, non so, forse ci sono sistemi automatici, ma io mi immagino queste signorine che, pur di non stare sole, fiutano gli account più frequentati e pubblicano la loro foto profilo, di solito una parte intima del loro corpo con un triangolino di stoffa tenuto da un laccetto tipo quello delle cuffiette, con una frase di quelle che strappano il cuore: perché non vieni a trovarmi, ho tanto bisogno di compagnia.
Ma divago.
E torno all’argomento.
Perché, quelli che studiano con le cuffiette accese, che vi hanno fatto.
Lì, ammetto che più di una volta sono montata in collera, ma pure ho perso le staffe ci sta bene.
Io, che vivo con la radio accesa, che l’attacco la mattina quando mi alzo, che la lascio lì quando esco perché intrattenga il pesce rosso, che è un po’ come la signorina di Philadelphia perché pure lui apprezza la compagnia, io che la radio la spengo come ultimo gesto della giornata e congedo dal mondo udibile, io, quando studio, spengo tutto.
Perché non si può studiare con la musica nelle orecchie e perché nella Biblioteca Hertziana, alla quale accedevi solo con la laurea e con un anno di Perfezionamento, dunque essa era già in sé una meta agognata, dappertutto c’erano cartelli con una sola parola: SILENTIUM.

Semplicemente, voi che state con le cuffiette accese nelle orecchie, non studiate.
Dimostratemi il contrario e io lascio perdere.

Biglietto n° 60: Self-Portrait as a Deaf Man (Autoritratto da sordo) di Sir Joshua Reynolds, 1775. «Damn him, how various he is».
Accidenti a lui, quanto è vario.
Questo è il collega Thomas Gainsborough, e se una cosa la dice un collega, che sta in bilico fra ammirazione e invidia, vuol dire che ci siamo.
Venuto da una famiglia modesta, Sir Joshua Reynolds riceve comunque una buona educazione, ringraziamo per questo gli ecclesiastici che della famiglia facevano parte.
Studia da ritrattista, si specializza e questa è una buona idea per fare denaro.
Fa un viaggio in Italia, ovvero lui viene dalle nostre parti per diventare un artista inglese colto.
Ricordiamocene, quando stiamo al capolinea del 38, come è successo a me qualche giorno fa, per quaranta minuti e anche sotto la pioggia: il nostro è un paese colto.
Che poi abbia qualche problema organizzativo, questo è un altro discorso.
Sir Joshua Reynolds, questo diventa, appena rimette piede in Inghilterra, ha un successo immediato e proficuo.
Parliamo di prezzi: prima del viaggio, tre ghinee per una testa.
Al ritorno, cinque.
Poco dopo, dodici.
Piacevano, le teste.
E i prezzi aumentano periodicamente, insieme alla fama.
Lui ha una casa elegante, ora demolita ma ricordata da una placca, al numero 47 di Leicester Square a Londra.

Ha pure una carrozza particolarmente splendida, con le ruote dorate e le quattro stagioni dipinte sugli sportelli, con la quale il suo cocchiere guadagna denaro mostrandola in privato ai curiosi.
Sir Joshua Reynolds è un uomo del Settecento, pure se vede la salita della borghesia industriale e mercantile.
Ma lui ha come clienti la corte, l’aristocrazia e gli uomini di ingegno.
Se vi piace il tipo dell’artista scapigliato, il bohémien, sappiate che lui era tutto il contrario: raffinato, cortese, capace di fondare anche un club letterario.
Quando muore, il corteo funebre a lui dedicato è composto da tre duchi, due marchesi, tre conti e due lord: tutti e dieci portarono il feretro.
Seguirono la salma novantuno carrozze e l’accompagnarono nella cattedrale di San Paolo, dove anche noi, oggi, possiamo omaggiarla.
Sir Joshua Reynolds non si sposò mai.
Ereditò tutto questo bendidio una nipote, anche lei artista, che gli aveva fatto da governante.
Quest’uomo, nominato primo Presidente della Royal Academy nel 1768, titolo che conservò fino alla morte, è un ritrattista di una raffinatezza che incanta.
Vi mostro un paio di esempi.
Questa è Lady Smith con i figli George Henry, Louisa e Charlotte, nel 1787.

Sir Joshua Reynolds, Lady Smith and Her Children, 1787

E questo è l’amico David Garrick, attore, drammaturgo e produttore teatrale, ritratto dall’artista nel 1779.

 

Sir Joshua Reynolds, Portrait of David Garrick, 1779

Uomo di successo, adulato, encomiato, invidiato, autore di duemila ritratti che hanno dato prestigio agli aristocratici, agli intellettuali e alla gente alla moda e insieme hanno forgiato un nuovo significato per un genere che prima di lui viveva soprattutto di somiglianza, Sir Joshua Reynolds nell’opera del nostro biglietto di oggi si mostra vulnerabile, mentre invecchia e ha problemi di udito.

La mano è messa a coppa su un orecchio, lui ci guarda ed è come se ci chiedesse aiuto.
L’incrinatura nell’armatura  dell’artista di successo da lui regolarmente indossata apre nuovi percorsi di comunicazione, lui ci sta simpatico, anche lui ha i problemi che hanno i comuni mortali.
Sir Joshua Reynolds nutriva un amore incondizionato per gli artisti del Rinascimento italiano, però da questo ritratto noi capiamo che il suo vero modello è Rembrandt, e con lui siamo nel Seicento olandese, che nei suoi numerosi autoritratti si rivela a noi in piena confidenza.
Soprattutto in età anziana, l’artista di Leida indaga con l’attenzione dell’entomologo le variazioni che il tempo provoca sul suo volto.
E spesso egli si mostra indifeso e sguarnito.

Rembrandt, Autoritratto col berretto, 1659

Entrambi i pittori utilizzano aree contrastanti di luce e di ombra per esprimere la loro fragilità, la loro immagine è assoluta, niente ci distrae dalla contemplazione della profonda conoscenza di sé.
Vi propongo anche l’Autoritratto del 1815 dell’altro grande sordo della storia dell’arte.

Francisco Goya a quarantasei anni fa l’esperienza di una misteriosa e traumatica malattia, che lo lascia sordo e che segna la sua altissima produzione matura.

Francisco Goya, Autoritratto, 1815

Nell’autoritratto che vi mostro lui ha sessantanove anni e si è ritirato virtualmente dalla vita pubblica, dipingendo solo per sé e per gli amici.
Ha appena comprato una casa nei sobborghi di Madrid e l’ha chiamata la Quinta del Sordo, la Casa del Sordo.
Lì lui realizza la serie delle Pinturas Negras, oggi al Prado, nelle quali i colori scuri, nero, grigio, marrone, mostrano scene orribili, eseguite con intensità feroce e con una libertà di tocco che sbalordisce.
Vi propongo come promemoria il suo Saturno che divora un figlio, prova, se ce ne fosse bisogno, di un talento inesausto, che le vicissitudini drammatiche della vita dell’artista non hanno intaccato minimamente.

Francisco Goya, Saturno divora un figlio, 1823

Una nota finale.
Quando Sir Joshua Reynolds si autoritrae da sordo, ha cinquantadue anni, un’età oggi giovane, in cui, se non ti capita un guaio, sei in buona forma fisica.
E i guai, come è noto, è meglio non andarseli a cercare, soprattutto quando essi sono generati da «disturbi dalle origini identificate».
Ma ditelo voi a coloro che stanno sempre con le cuffiette avvitate nelle orecchie.
Loro, a me non mi sentono.

Il titolo. Ormai è invalso il vezzo delle mani avanti.
Se uno cita D’Annunzio, dice subito dopo per carità, non è nelle mie corde.
Invece, nelle mie corde, l’uomo dal «vivere indimenticabile» ci sta tutto.
Da Pescara a Roma; non si laurea per distrazione però frequenta ogni ambiente mondano; si sposa con una duchessa (pure l’amante di Ginko è tale e si chiama Altea, quella del Nostro, invece, è, più concretamente, una Maria); è protagonista di duelli; passa dalla Destra alla Sinistra: «vado verso la vita»; in Toscana, alla Capponcina, si reinventa «senza sforzo» uomo con i costumi e i gusti del Rinascimento; si autoesilia in Francia per sfuggire ai creditori; allo scoppio della Grande Guerra si arruola volontario, ha più di cinquant’anni, compie imprese memorabili, perde l’occhio destro in seguito alla caduta di quello che lui chiamava un velivolo.
Cinque medaglie d’argento e una d’oro al valor militare, grande estimatore di donne, decadente, sensuale.
Fenomenale.
E poi la sua Pioggia nel pineto, dai primi versi della quale ho tratto il titolo della Newsletter di oggi, è uno dei più alti raggiungimenti della nostra letteratura.
…Ascolta. Risponde
al pianto delle cicale
che il pianto australe non impaura
né il cielo cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita…

Che vi dicevo.
Qui la selva si è trasformata in un’orchestra di strumenti diversi e se hai l’orecchio attento, li riconosci e li apprezzi.
A patto, ovviamente, che tu non vada a passeggiare nel pineto di Viareggio, quando piove, con le cuffiette avvitate nelle orecchie.

* L’illustrazione di apertura della Newsletter, così come le Pupazzine e i Sorbetti, è di Lorenzo Rocco

 

** L’assistenza tecnica è di Virgilio Piccardi