— Natale non sembrerà Natale senza regali — brontolò Jo sdraiata sul tappeto.
— È terribile essere poveri — sospirò Meg, guardando il suo vecchio abito.
— Non penso che sia giusto che alcune ragazze abbiano un sacco di belle cose e altre non abbiano niente — aggiunse la piccola Amy, tirando su con il naso.
— Abbiamo però Papà e  Mamma, e noi — disse Beth, contenta dal suo angolo.

(Louisa May Alcott, Piccole donne)

Entro nello studio del mio oculista e la prima cosa che noto è un pacco dono abbandonato sul davanzale della finestra.
Guardo: il mio istinto ha visto giusto (ammesso che un istinto possa vedere diversamente) e ha scelto il verbo.
Dentro la scatola, un pandoro e uno spumante dolce.
Scambio due chiacchiere con il destinatario, contrariato, beh, che c’è che non va.
«Niente, solo che lo scorso anno mi avevano regalato un Ferrari».
Insomma, una caduta nell’abisso. Passiamo da un’ottima bollicina al dolce infantile di chi non ama i canditi e l’uvetta e alla bottiglia ordinaria.

Meglio sarebbe stato niente?
E perché. C’è sempre la segretaria, c’è il portinaio e, volendo, possiamo chiamare il gesto generosità pelosa, sorella della medesima carità che, leggo, viene da qualcuno che ha «il pelo sul cuore (o sullo stomaco)», ovvero che è cinico e senza scrupoli, avendo organi così sensibili foderati, quindi ben protetti dai dubbi.
Quanti peli a Natale, eh.

Ma sono cattiva perché non penso che al mondo, questa è una regola, c’è sempre chi sta peggio.
Chi non sa nemmeno dove sta di casa la Cantina Ferrari.
Chi ha gusti meno evoluti.
E il portafogli meno gonfio.
Chi pensa che pandoro e spumante andante facciano tanto Natale.
In fondo li invidio, buona regola sarebbe apprezzare qualunque dono per il pensiero.
Anche se.
Fra la crisi e l’avanzare del made in China, i regali si sono rarefatti e sono diventati scarsi quelli che assomigliano all’essenza di se stessi, ovvero che sono scelti con cura proprio per quella persona.
Anzi, a dirla tutta, essi hanno tirato fuori l’altro loro volto, quello del casuale, del brutto, del decisamente sbagliato.
Che cosa ci fa soffrire in tutto questo, l’errore di valutazione, la storditezza, il bersaglio mancato, l’ignoranza della Cantina Ferrari.
Me lo chiedo da un pezzo.

Mark Darcy e la sua renna

Eppure in America gli studenti si sono inventati «la giornata del golf orrendo», se vi interessa è il 16 dicembre e viene da Bridget Jones, meglio, da Mark Darcy, che, nella saga, quando compare indossa un’inqualificabile maglia con su una renna.
Ditemi se c’è qualcosa di più natalizio.
Insomma, il festeggiamento come esorcismo.
Per cacciare la malinconia, la distrazione, il disamore, in certi casi pure l’offesa.
Personalmente trovo disturbanti i doni a base di stelle di Natale.
Per farne fuori una ci vogliono almeno dodici giorni, ho fatto tutte le prove, uno non le dà mai acqua e quella resiste, la sua agonia è lenta, diventa sempre più inguardabile, si secca, ma lo fa piano piano.
La colpa è sempre dei termosifoni.
Uno dice ma perché non la butti subito. Perché la persona che te la regala frequenta casa tua, quindi, se non la vede, si offende.
Come mi spiegò una volta un medico, un incrocio fra un mago e un santo, davanti al quale mi trovai a dire che tutte le pareti del suo studio erano piene di robaccia sotto forma di quadri, quadretti e disegni; del resto lui aveva chiesto a me, insistentemente, che cosa pensavo della sua collezione e lui aveva capito bene che io evitavo di rispondere.
L’unico motivo per cui quella roba stava lì, mi spiegò, era che i suoi pazienti erano tali, dunque, venivano da lui regolarmente e si sarebbero dispiaciuti se non avessero visto il loro dono appeso sul muro.
Questo argomento fu fondante nella visita e nella nostra relazione.

Ma perché la gente non regala bottiglie di Champagne.
Direttamente.

Nel senso che una delle visioni più frequenti e apocalittiche che avevo a Natale quando stavo nell’altra casa era il mucchio di scatole nell’enoteca il cui titolare forniva un servizio specifico di cambio ai professionisti della zona: loro gli portavano le confezioni argentate del Chivas Regal, che funzionava evidentemente come dono di prestigio, e in cambio prendevano bottiglie di vino francese.
Credo che questo sistema funzionasse con l’esborso di una somma minima di denaro, chiamiamolo il disturbo, però il traffico durante le feste era tale che c’era da chiedersi come mai nessuno si poneva il problema di quello che c’era nella bottiglia.

Una volta per Natale ebbi in dono un cappone.
Vero.
Morto e spennato, consegnato da un valletto che lo aveva estratto da un camioncino frigorifero e aveva portato in ascensore una cappelliera con dentro l’omaggio.
Mi ricordo la scena.
Io accucciata sul pavimento dell’ingresso accanto alla strana confezione, la lettura del cortese biglietto augurale, il coperchio sollevato, lo sconforto.
E adesso?
In macchina a tutta velocità dalla Cordon Bleu di famiglia, e meno male che c’era, che fu talmente efficiente da farlo trovare sulla tavola della festa ventiquattro ore dopo, sotto forma di brodo e di pietanza.
Penso di non averlo nemmeno assaggiato, tanto era stato lo sconcerto.

Nella mia vita, e ormai, ve lo dico subito, sono passati anni, due sono stati gli autori di regali di Natale di tutto rispetto.
1. La società dove lavorava mio padre, che si esprimeva nel dono per i figli dei dipendenti attraverso una persona a me ignota, che però aveva gusto e intuito e sapeva come fare felici maschi e femmine di età diverse. Sì, perché ogni anno c’era tutto un calcolo, un’attesa e poi un regalo che era il più indovinato di tutti, proprio la bambola più bella, proprio la pista di automobiline più da sogno. D’accordo, avrei saputo dopo che, quando il 25 dicembre diventa la festa che tutti sappiamo, le grandi fabbriche cominciano a organizzare alberi di Natale per i figli dei dipendenti allo scopo di controllare più da vicino la vita familiare dei lavoratori, che ricambiano con la buona volontà e un attaccamento al capo che va oltre il contratto. Questo lo dice la mia rivista indipendente on line che analizza i problemi che scompaginano (uso un verbo gentile) l’impresa e l’economia, «affrontando questi soggetti sotto angoli nuovi, nutriti di filosofia e di scienze umane».
D’accordo su tutto, però i regali che mi venivano dalla società dei telefoni dove lavorava mio padre per me non avevano uguali e poco mi importava allora, e forse poco mi importa pure oggi, delle scienze che riflettono sul concetto di dono, quelle bambole là erano bellissime e non avevo altro modo di ottenerle.
E comunque grazie a chi per anni ha saputo sceglierle.

2. Secondo autore squisito di regali di Natale: la sorella più giovane di mia madre. Bella, elegante, dotata di gusto sicuro e con possibilità economiche, benediceva ogni 25 dicembre con l’invio dal Piemonte di un pacco nel quale c’era un tesoro.

Giotto, Padova, Cappella degli Scrovegni, Coretto con prospettiva perfetta con cento anni di anticipo

Non so come facesse, come dice Longhi di Giotto, aveva «le seste negli occhi», cioè, nel suo caso, sapeva cogliere al volo la taglia, laddove Giotto, pure lui al volo e con cento anni di anticipo, aveva saputo cogliere a Padova, agli Scrovegni, la prospettiva.

Ma non fatemi distrarre, ché sto parlando di regali.
Ebbene, cara Rosanna, lì dove tu sei ora, ne sono certa, in quel Paradiso delle Signore nel quale certamente con il tuo stile e la tua classe domini come una regina, approfitto del mio blog per ringraziarti.
I capi di abbigliamento che tu mi spedivi durante la mia adolescenza mi hanno fatta bella e consolata di tutto.
In particolare un completo color pervinca, di cui ricordo ancora benissimo la sensazione che provavo nell’indossarlo, soprattutto la maglia, con un grande collo ad anello che si portava a cappuccio o piegato due volte, e dal quale mi sentivo sorgere e fiorire. Letteralmente.
E quel completo di maglia color pervinca, mia madre, ovvero tua sorella, mai me lo avrebbe comprato.
Dunque, cara zia, sappi che tu capitavi in maniera geniale nella mia vita.
Ti devo la metà invernale delle conquiste maschili di quei miei diciassette anni spericolati.
Di dette conquiste, l’altra metà invernale e tutte e complete quelle estive (ad aprile dovetti togliermi il tuo meraviglioso completo color pervinca e indossare altro), le devo alla mia brillante conversazione e alla mia grazia.
(Bugie pietose, ché se solo adesso incontrassi la me stessa che ero in quella fine di adolescenza, non so se apprezzerei quello che dicevo e come lo dicevo. Ma, questo, la zia Rosanna non è necessario che lo sappia).

C’è poi quella cosa, Matteo, 7, 6, versetti 11-14. Per carità, non è che sto qui e ci penso. Figuriamoci. Il mio motto è Forgive & Forget, sai a me che me ne importa delle perle e dei porci.
Ma quella volta mi è tornata in mente.
Anni, sono passato anni.
Natale, anzi, in vista del Natale.
Preparo un dono, dedicandomici.
Ho in mente una cartella per l’università, chiedo anche al mio collega di Design, ero appena entrata in Accademia e chi insegna Design sa anche stare al mondo.
Lui mi dice Mandarina, sono i primi anni, le prime prove, borse da lavoro solide, nere, assolute, razionali.

Belle.

Mandarina & mandarini, ci metto dentro una cascata di questi ultimi e poi scelgo, impiegandoci venti giorni, una serie di doni ulteriori, piccoli ed eloquenti, ciascuno dei quali sta in bilico fra la prima giovinezza e l’età adulta.

Peter Pan

Non mi ricordo tutto, ma certamente un’edizione in lingua originale di Peter Pan, un libro di poesie, forse un profumo, certo qualcosa da mettersi addosso.
Certo anche una cassetta con delle canzoni.

Altro.

Infilo tutto nella borsa, che confeziono con carta, nastro e biglietto.

Mezzanotte.
Mi aspetto una telefonata che non arriva.
Passo una notte incerta, eppure il mio dono mi sembrava così bello, così pensato, così pieno di sentimenti.
Incubi.
Forse pianti.
La mattina dopo mi chiama un’amica per farmi gli auguri, le racconto il mio vuoto, quello che è successo, le descrivo il dono, i mandarini e il resto, le chiedo se secondo lei è un regalo anodino e senza senso, tale da non essere nemmeno notato.

«A me sembra una poesia».

Avrei capito dopo che cosa era successo.
Notte della vigilia in famiglia con albero di Natale che arriva fino al soffitto.
Almeno una ventina di persone, ciascuna delle quali porta con sé i suoi regali.
Apertura dei medesimi in pubblico, uno alla volta, facendo un rapido calcolo almeno trecento pacchetti, il rito attacca fra schiamazzi ed episodi di caccia al tesoro, per cui la fanciulla di casa deve andarsi a raccattare la pelliccetta sotto al divano.
C’è stata anche la processione in cui il più giovane di casa porta un Bambino di dimensioni reali.
Il tutto dopo la cena, dall’insalata di rinforzo agli struffoli, col vino che è stato versato in abbondanza, il vassoio del caffè, i liquori e, intorno alla mezzanotte, adesso apriamo i regali.
(In quest’atmosfera, tutto tranne che natalizia, la poesia si perde.
Tutto stava saperlo. E, quando lo sai, è un’altra poesia e un’altra storia).

E io con i miei pensieri, i miei fantasmi e le mie supposizioni.
È proprio vero: quando tu non ci sei, ogni festa sembra insuperabile per organizzazione e divertimento, da lontano tutto è così luccicante, belli i vestiti, squisiti i cibi, prelibati i vini.
Per non parlare delle donne, ciascuna delle quali è portatrice di affetti, allegria ed erotismo, avvolta come è in abiti da festa che esaltano tutte le sue meraviglie.
Auguri di Buon Natale, eh, la serata è stata fantastica.
Sì, però, poi, come diceva il mio studente, bisogna vedere da vicino.

«Nel dono vive una molteplicità di cose sociali in movimento, che si riassume in questo triplice obbligo: regalare, ricevere, restituire. Sottrarsi all’uno o all’altro gesto significa rifiutare di netto il legame che prometteva di annodarsi – significa dichiarare la guerra».
Insomma, come dice l’antropologo Marcel Mauss, «il dono trasforma il nemico potenziale in debitore e in alleato, che dovrà rispondere con un altro dono».

Pace fatta.

Una società di servizi finanziari ha organizzato il suo primo Secret Santa, un’operazione in cui ciascun dipendente offre un regalo a un collega tirato a sorte.
Il budget è limitato.
Il Caso è malandrino, non riesco a pensare che cosa possa uscir fuori, candele profumate, olio da massaggio, un calendario.
L’Accademia di Belle Arti dove insegno non mi ha mai regalato niente.
Un nulla totale.
Evidentemente non vuole innescare una guerra.
Mi è tornato in mente adesso però un dono che mi fece un collega all’inizio: una piccola, deliziosa scatola di metallo di pastelli.
Lui era un artista e ne aveva prese tre uguali per le persone più vicine.
Mi sembrò un pensiero delicato e usai le matite colorate per sottolineare, devo avere ancora la scatola in un cassetto.
Mi sentii di far parte di una comunità, eravamo tutti poco più che ragazzi, fu una sensazione bella.

Ho fatto Natale in tutti i modi e dappertutto, con e senza regali.
Senza regali si sta quasi meglio.
La volta più avventurosa fu quando decisi di realizzare un rituale cinematografico e andai a Hong Kong, dove mi ero imposta l’obbligo di arrivare prima della mezzanotte del 24 dicembre.

Wong Kar-way, 2046

Volevo fare quello che faceva il protagonista di 2046, stare in quella città di collocazione incerta in quella data e vivere avventurosamente.
Mi chiusi alle spalle la porta della mia camera d’albergo alle 23:45, ce l’avevo fatta.
Il giorno dopo l’aria era tiepida e me ne andai a spasso nella baia cercando tracce del film.

Nella serie Six Feet Under, ai 63 episodi della quale mi dedicai vedendoli tutti insieme in un mese estivo, ce n’è uno, l’ottavo della seconda stagione, che si intitola It’s the Most Wonderful Time of the Year , ovvio che stiamo parlando del Natale.
Già sappiamo che uno dei protagonisti, il padre, titolare dell’impresa di pompe funebri Fisher a Los Angeles, proprio in quel giorno di festa è morto in un incidente stradale.
Tornerà per tutta la serie commentando e dando consigli, come sempre dovrebbero fare i padri, soprattutto se defunti.
Un 25 dicembre, mentre tutta la famiglia pensa all’anniversario, alcuni bikers chiedono di tenere aperta la funeral home per organizzare un party/memorial in onore di un loro compagno, che ha avuto un incidente mortale con la motocicletta.
Lui era vestito da Santa Claus e alcuni ragazzini lo hanno salutato. Lui ha ricambiato il saluto e la distrazione gli è stata fatale.
Il suo lavoro come Babbo Natale era part-time.
Tutto concorre a rendere surreale la festa, anche se sarebbe bastata da sola la città con il suo clima caldo.
Ma questo l’ha già detto Woody Allen in Io e Annie: in trasferta da New York, lui esterrefatto davanti all’architettura eclettica, alle renne nel giardino, alle canzoncine di circostanza:
Oh what fun it is to ride. In a one-horse open sleigh

 E quante ne vogliamo.

Meglio il freddo.
Meglio la famiglia unita.
Meglio i regali belli.
Tutti schierati sotto l’albero, pacchetti lucenti, nastri scintillanti, auguri autentici.
Casomai, con i miei consigli, riuscite pure a realizzare tutto questo.
Facciamo che ci aggiorniamo e che torniamo a parlarne.