Il sarto del Bangladesh a via Eurialo mi ha restituito i blue jeans rammendati.
Ha fatto un’operazione di altissima chirurgia, riprendendo, rappezzando, rattoppando, ricucendo strappi, squarci, buchi, laddove io pensavo che i miei pantaloni fossero irrecuperabili.
Sono i primi acquistati della marca svedese da me prediletta, già mostravano la corda, poi, praticamente non li ho tolti da quando è iniziato il confinamento, ovvero li ho sostituiti con altri blue jeans quando sono uscita per qualche occasione più interessante.
Erano già stati rammendati una prima volta, li avevo lasciati al negozio di Parigi, me li aveva ritirati un amico che va spesso su per lavoro, il rammendo era superbo, tutto il tessuto era stato ripreso filo per filo, ma la cosa più bella era stata la signorina alla quale li avevo consegnati, che li aveva abbracciati dicendomi: «Quanto erano belli, ho avuto anch’io questo modello e non li ho mai dimenticati».
Blue jeans come epoca esistenziale, prima o poi dovrò raccontarvi la storia di tutti quelli che ho in guardaroba.
Stavolta il rammendo è stato più rapido, ho detto al sarto ti do due giorni di tempo, non ho altro da mettermi (pare vero), ho pensato di portarli da lui perché viene da un paese dove alligna la miseria, loro recuperano tutto, figuriamoci se mi dice di buttarli.
Fra l’altro, ultimamente mi ha rammendato anche altro, per esempio le mie lenzuola antiche, è bravissimo, da loro si vive con l’idea che ogni pezza sia recuperabile, figuriamoci un lenzuolo ricamato, figuriamoci qualcosa da mettere addosso.
La cosa più divertente è che, quando glieli ho portati, lui ha passato in rassegna i blue jeans inventariando tutti i guasti, fra cui uno sbrego da quindici centimetri in zona sensibile, che non sta bene che una signora esponga al mondo.
Quando poi è arrivato agli strappi che stavano lungo la gamba, mi ha detto: «Questi te li lascio perché fanno moda».

Mentre scrivo ho nel calice uno Chardonnay californiano profumatissimo.
Gusto di pera matura e mela, completato da note di vaniglia e da un tocco di quercia.
Quercia a parte, qualcosa di quello che dice la scheda lo sento.
Voglio fare un corso di degustazione, ovvero ubriacarmi con più consapevolezza.
Ho preso informazioni per lezioni on line ma non ho capito niente.
Ho chiesto delucidazioni.
Non ho capito niente lo stesso.
Mi è arrivata una mail che mi chiedeva di valutare l’aiuto che mi aveva dato la signorina.
Ho lasciato perdere perché ho pensato che lei avesse problemi suoi.
Comunque, questo californiano è già diventato il mio Chardonnay prediletto.
Pure senza corso, capisco al volo, e al primo sorso, quali sono i miei vini di elezione.
E poi, quando c’è la vaniglia, è roba mia.

Il profumo cui sono ritornata ieri l’altro

Sono anche appena tornata a un profumo impegnativo che ho usato per qualche tempo: vaniglia anch’esso.
Abbiate compassione, cerco di addolcirmi.
E poi chi ha detto che la vaniglia sia dolce.

Pare che un sito di incontri abbia inviato una mail agli iscritti consigliando loro di stare attenti, di privilegiare le conversazioni tramite messaggistica e videochat e di aspettare un attimo prima di fissare un appuntamento.
Poi, se proprio vuoi incontrarti con qualcuno, indossa la mascherina, lavati le mani e rispetta il distanziamento.
Fisico, sottolineano.
Capirei quello spirituale.
Laddove mi pare chiaro che se uno utilizza un sito di incontri per incontrare qualcuno, forse, quando lo incontra, il qualcuno, e casomai prova interesse, a tutto pensa meno che al distanziamento.
Quanto sono stupidi questi.
E la stupidità mi incanta, mi chiedo sempre come possa sopravvivere in un mondo in cui c’è, apertamente, la guerra e ognuno cerca di combattere come può la sua battaglia.

Mi aspettavo la seconda ondata di Covid?
Voi che dite?
Dall’ultima decade di agosto ho pianificato tutta la mia professione e ho comunicato i miei programmi.
Che svolgerò tutti on line.
Che ne sapevo.
Andiamo su, mica penserete che io abbia la palla di vetro. Fra l’altro, non saprei che farmene.
Semplicemente, ho fatto 2 + 2. E ho deciso per me che cosa avrei fatto.
E a me sta bene.
Già ho elencato una serie di cose da cui mi fa piacere liberarmi: la maleducazione, i ritardi perpetui, i commenti, il fastidio per i commenti.
La pioggia.
Il parcheggio.
La temperatura dell’aula.
L’assegnazione dei posti: tutti vogliono stare in prima fila.
Comunque e però: avevo dimenticato la luce.
Ovvero, non mi ricordavo più tutte le discussioni a proposito dell’illuminazione.
Che, per una lezione di storia dell’arte, ça va sans dire, deve essere regolata tale e quale al cinema, dunque, solo lo schermo per la proiezione deve essere in luce.
E se c’è chi vuole prendere appunti, benissimo, ho procurato io stessa delle lampade nomadi.
Ma niente basta.
Perché poi chi sta seduto vicino, e vuole solo sentire e vedere o chiacchierare o starsene per i fatti suoi, si lamenta perché la luce lo disturba.
A posto così.
Ora ognuno si regola come vuole.
Io faccio lezione e ciascuno sta davanti al suo computer, se vuole, pure in compagnia.
E non sono più responsabile io della luce, della temperatura e dei commenti.
E tanto meno della pioggia e del parcheggio.
Dunque, come sto di fronte alle lezioni on line.
E come volete che stia.
Benissimo.

Qualche giorno fa volevo licenziarmi.
Licenziarmi nel senso che volevo licenziare me stessa.
Per aver commesso un errore.
Del resto, l’errore me lo aspettavo da mesi.
Esso riguardava le credenziali di accesso alle lezioni.
Io sono una attenta, faccio le cose delicate quando sono lucida, propositiva, sobria.
Controllo.
Ricontrollo.
I codici di accesso sono una comunicazione confidenziale, sto lì e guardo prima di spedirli.
Ma l’altro giorno ho commesso un errore.
Chiarisco che non ho sbagliato giorno, non ho sbagliato ora, semplicemente (semplicemente, si fa per dire), accanto al Passcode si è aggiunta una cifra: il numero 1.
Come sia potuto accadere non lo so, è evidente che ho battuto io un tasto che non avrei dovuto toccare.
E avevo controllato.
E ricontrollato.
Me ne sono accorta un’ora prima dell’incontro, ho mandato una mail a tutti gli iscritti che aveva come oggetto la parola URGENTISSIMO e poi ho telefonato a tutti, organizzando anche una catena.
È andata bene ma ho deciso di licenziarmi.
Mi sono data dell’inetta, della distratta, dell’incompetente e dell’incapace.
Mi sono risposta sì, però, ho rimediato.
Buon per te, ho chiosato. Sballata così, non potresti fare nemmeno la cassiera in una cassa dove tutto è automatico e pure una scimmia sarebbe capace di passare il codice a barre sul lettore.
Ho provato a dirmi che era il primo errore in sei mesi e mezzo.
Mi sono risposta con una risatina sarcastica.
Ho deciso di tenermi solo perché, se mi licenzio, non saprei come fare.
Magnanima, mi sono detta: «Però, la prossima volta che sbagli, con me hai chiuso».
D’accordo.
E poi, se volete saperlo, ho vissuto questa cosa come un esorcismo: mi aspettavo l’errore e l’errore c’è stato.
Ora, possiamo procedere e andare avanti.

Ho ripreso, perché cercavo una citazione per una collega, il diario di guerra, le journal, di Simone de Beauvoir, pubblicato nel secondo volume della sua autobiografia, quello che si intitola La force de l’âge e che da noi è stato tradotto con L’età forte.

Simone

Dunque, dopo anni di scoperte, avventure, viaggi, insegnamento, amori, lettura, scrittura, costruzione di sé, dopo tutti i segni premonitori che c’erano stati, scoppia la guerra.
Lei descrive il suo stato d’animo: incertezza, paura, angoscia, stupore davanti al cielo di una Parigi piombata nel buio nel quale si distingue l’Orsa Maggiore rutilante sul carrefour Vavin, vicino a Montparnasse, e ancora, senso del cataclisma e della tragedia, molti bicchieri di vino rosso bevuti, lavoro, caffè oscurati all’esterno e splendenti di luce appena uno entra, senso di irrealtà e di assurdo.
Mentre leggevo e pensavo che tutto quello che lei scrive potrebbe attagliarsi, seppure con qualche modifica e alleggerimento, al periodo che stiamo vivendo, inciampavo in una delle tante sue frasi da me sottolineate, datata al 2 ottobre: «Abbondanza di autunno felice».
Non saprei dire perché, certo, è autunno, ma non è che io sia felice, lei è una che si definisce dotata come nessuno per la felicità, di me mai penserei altrettanto, insomma, non saprei dire perché, ma quell’autunno abbondante e felice mi ha colmata e mi ha fatto sperare che anche l’autunno nostro e mio possa essere tale.

E che tutti gli errori, gli strappi, le lacerazioni e tutto il resto che è sbagliato e che ci perseguita, insomma, che tutto possa essere, se non cancellato, almeno, come dice il titolo del mio post: corretto.