La faccenda delle mozzarelline. Ho preso una busta di mozzarelline della Coop in un supermercato in disarmo, con le schiacciatine di pollo per le quali ero andata che stavano in vendita al 50% e che erano, quindi, già da buttare al secchio.
Le ho prese perché volevo fare una presentazione più composita del melone e prosciutto.
Le mozzarelline avevano un sapore che oscillava fra quello del polistirolo e quello dell’acqua, forse il polistirolo è uscito fuori per via della consistenza.
Nemmeno la doppia macinata di pepe, del mio pepe che mi faccio arrivare  da uno chef bretone che è una specie di mago delle spezie, è riuscita a cambiare l’umore del mio piatto.
Che ho considerato un fallimento.
Allora mi sono arrabbiata e ho scritto una mail, comunque gentile, al Servizio consumatori.
Il senso era: mi avete mandato all’aria la cena.
Mi ha risposto un uomo con nome e cognome, accampando delle scuse, dicendomi di scrivere a un altro indirizzo eccetera.
Lui sosteneva che non hanno un negozio lì dove io ho detto.
Sì, perché me lo sono sognato. C’è una Coop nella mia strada davanti alla lavanderia della signora Anna, le mozzarelline sono marca Coop, fatte con latte 100% italiano e lei mi dice che la Coop lì non ha un negozio.
Ma fatemi il piacere.
È cominciato tutto un simpatico scambio, concluso da me con un non si preoccupi, figuriamoci se mi metto a scrivere a un altro indirizzo, mi limiterò a non comprarle mai più, le sue mozzarelline.
E a parlarne come di un agente sabotatore.
Ora, se a me qualcuno avesse detto «le sue mozzarelline» con un accento sarcastico, sarei stata malissimo, mi sarei precipitata a cercare la busta, peraltro simpatica e avrei rilanciato dicendo è vero, non sanno di niente, ovvero, sanno di polistirolo e di acqua, lo farò presente alle nostre mucche e a chi di noi si occupa del loro latte.
Lui, niente.

Quanto è difficile stare al mondo, soprattutto quando al mondo c’è gente che rilancia.

Il ritorno  delle aquile. Per trovare il titolo di questo paragrafo prendo il  Morandini, il DIZIONARIO DEI FILM, tutto maiuscolo. È fermo all’edizione del 2008 e mi chiedo perché non l’abbia buttato. Perché lo considero una specie di dizionario, un po’ come lo Zingarelli, di cui non ho certo ricomprato la nuova edizione tutti gli anni, ma che funziona ancora benissimo.
Il titolo doveva contenere la parola ritorno.
Fra poco vi spiego.
I film che hanno, almeno in italiano, la parola che mi serve sono parecchi. Ma Ritorno a casa non mi piace; Ritorno al futuro è insensato; Ritorno alla vita è un po’ troppo; è un po’ troppo, almeno numericamente, pure il Ritorno dei magnifici sette; il Ritorno del campione  sarebbe stato divertente ma del tutto sconnesso dal titolo originale, cosa che mi infastidisce; il Ritorno dello Jedi, non se ne parla; il Ritorno di Casanova, dovrei provarlo; il Ritorno di Tiger non lo conosce nessuno.
Vado sulle aquile e vado liscio.
Mi chiedo se questa parola vada declinata al femminile, vado liscia, faccio una ricerca grammaticale, non trovo notizie, quasi quasi pongo il quesito alla Crusca, loro sì, che sanno (quasi) tutto.
Tutto questo perché: il Direttore del supermercato è tornato dalle ferie.
Quindici giorni senza di lui e mancava l’intrattenimento.
Sapevo che sarebbe partito, mi aveva detto tutto, e avevo fatto due rapidi calcoli.
Dunque, ho detto adesso scendo e vado a salutarlo.
Così è stato.
Per la via Appia soffiava una brezza leggera, in giro c’era gente.
Prima sono andata a fare un bancomat.
Sul bancomat vorrei scrivere un articolo.
Quello sportello generoso, che per anni ha emesso denaro tutto disposto secondo un criterio e con banconote tutte voltate dallo stesso lato e in ordine crescente, da un po’ è diventato uno scempio.
La volta che, avendo trovato la porta dell’agenzia spalancata con dentro gente, ho detto adesso mi diverto, ho chiesto a tre gentili impiegate, vestite tutte più o meno da spiaggia, sandaloni, braccialetti, maglie con decorazioni improbabili, come mai era venuto meno quello che mi avevano descritto come un rito, con il cassiere che predisponeva i soldi con ordine prestabilito e una sequenza di gesti, quelle mi hanno guardato esterrefatte.
Non avevano capito.
Ovvero. Loro lavorano in banca e non si sono accorte che da un po’ il verso dei soldi è negletto e in disordine.
Lasciamo perdere.
Allora sono andata al supermercato, che non è quello delle mozzarelline, e ho detto adesso lo cerco.
E l’ho trovato.
Anzi, lui mi è venuto incontro.
Io ho fatto come se fossi andata in sollucchero. Dato che il sollucchero è una castagna, sono un po’ in anticipo sulla stagione, però ci può stare.
Come pensavo, stava benissimo; abbronzato, asciugato (anche se uno già asciutto), con gli occhi ancora più neri e la camicia bianca.
Gliel’ho detto, che stava benissimo.
Gliel’ho detto, che al supermercato era mancato l’intrattenimento.
Gliel’ho detto: mi racconti tutto.
E lui tutto mi ha raccontato.
Si è fatto una vacanza fra soli uomini con tre amici a Terracina.
Ci va da qualche tempo, da quando non va più a Follonica, dove era stato sempre molto bene.
Ma ci andava con la sua ex.
(Quanto sono noiosi e tutti uguali gli uomini quando raccontano della loro ex).

Follonica, Cancello magonale, ovvero che chiude il perimetro dell’ex Ilva

Io ho buttato lì, ah, Follonica, la città della ghisa, che fascino, c’è tutta quell’archeologia industriale.
(Ora che ci penso, pure l’archeologia industriale è ex. Però non è noiosa come le donne. Tutt’altro).
Il Direttore, della ghisa di Follonica, non sapeva proprio niente.
Il senso era perché ancora non ci conoscevamo, glielo avrei detto e, soprattutto, perché non stavamo in vacanza insieme.
Perché, io so.
Io sono stata a Follonica e so che la cosa più bella e singolare e sorprendente che sta da quelle parti è la ghisa.
Quanto abbiamo parlato? Venti minuti buoni, nella quiete del supermercato del pomeriggio di agosto, accanto al banco frigorifero delle cose sfiziose che, come tela di fondo, ci stava benissimo.
Il prosciutto tagliato a mano da € 118,00 al chilo.
Quelli, salati e non commestibili, di Parma e di San Daniele, che una volta erano buonissimi.
Quand’è, Direttore, che parliamo di prosciutti?
Ditemi voi se la frase non ha il tono, l’allure, il ritmo di quell’altra domanda, carducciana e bellissima, che mi ha perseguitata per tutta l’adolescenza:

Contessa, che è mai la vita?
È l’ombra d’un sogno fuggente.
La favola breve è finita,
Il vero immortale è l’amor.

Ho avuto un’adolescenza letteraria, lo ammetto.
Perché voi non sapete quanto è stato letterario tutto il resto.

Comunque. Stavolta con il Direttore del supermercato sull’Appia non abbiamo parlato di prosciutti ma di vacanze, di quanto lui si sia scocciato per via dei locali chiusi, della birretta consumata al tavolo in piazza con gli amici come i ragazzini, niente luci sulla spiaggia, niente mare luccicante come sfondo, niente avventura, niente romance.
«Oh, quanto mi dispiace», ho buttato io lì.
In cattiva fede totale.

Ben ti sta.
Così impari a sottrarmi il passatempo, lo svago, la piacevolezza più piacevole del supermercato: la tua presenza.

Comunque, abbiamo concordato che andiamo male, che siamo nei guai, che l’autunno sarà difficile.
Gli ho augurato una buona stagione, lui ha detto che sarebbe volentieri ripartito subito per le ferie, io ho ribattuto non se ne parla nemmeno.

Andiamo, su: lasciare soli i suoi clienti.

Fra blu e blues. Mi piacciono i manga. A un certo punto della mia vita, e mi ricordo benissimo dove è stato il punto, ho scoperto i manga.
Per la precisione la nouvelle manga.
Femminile.

Napoli, Acquario

Infatti, piena di sentimenti.
(Il genere si chiama shojo).
È successo a Napoli, in un Ferragosto, anni fa, alla Feltrinelli  a Chiaia.
In fase nomade, avevo accettato un invito a cena.
Ero arrivata intorno alle 12:00, ero andata in albergo, mi ero rinfrescata e dovevo tirare le 20:00.
La città, deserta.
Mi ricordo che tornai all’Acquario, che è quello di cui parla Malaparte ne La pelle, spero che non ci abbiano messo le mani, era uno dei posti più incantati del mondo, niente da spartire con Genova o Valencia, dove mi pento di aver messo piede.
Dopo l’Acquario andai in libreria e accadde quello che ogni tanto accade.
Fu un libro che trovò me, me lo ritrovai fra le mani, mi sembrò bellissimo.
Fu così che scoprii i manga.
Fra i miei autori prediletti c’è Kiriko Nananan.
Nata nel 1972, io l’ho incontrata almeno una decina di anni fa.
Fra l’altro, un nome bellissimo, non vi sembra?
E non vi sto a dire il mio stupore l’altro giorno, quando su un vecchio numero della mia rivista di filosofia che avevo ripreso  perché aveva un dossier dedicato al cibo e io di cibo volevo parlare in una lezione, nell’ultima pagina, ho trovato, inattesa, une recensione di un suo manga.
Che mi era sfuggita, non sono riuscita a rimettere insieme le date, comunque, alla fine, ho ripreso il volume.
Blue è stato pubblicato agli inizi degli anni ’90, dunque quando lei era giovanissima.
Che cosa racconta.

Kiriko Nananan, Blue, 1995

Niente.
Come tutte le storie che contano.
Racconta il tormento esistenziale degli adolescenti, che lei comunque osserva un po’ da lontano, visto che nel 1995 ha ventitré anni.
Alcune liceali si interrogano: sulla loro sessualità, sugli uomini, sui loro innamoramenti per altre ragazze.
Certe volte, mettiamola così, hanno rapporti sessuali, perché deve pur succedere qualcosa.
Un manga tenero e violento. Sensuale.
I personaggi sembrano banali, ma hanno una vita interiore strutturata e ricca, che ci invade.
Il disegno evoca il gioco del pieno e del vuoto della pittura orientale.
Su uno sfondo bianco si stacca il profilo stilizzato di una giovane donna.
Proprio laddove sembra che non accada nulla, si libera davanti a noi una poesia straordinaria.
Il manga come veicolo di verità alternative: esso sostiene la possibilità di un altro rapporto con la vita.

Un desiderio di nuove comunità, di esperienze amorose, di eroismo al quotidiano.

A ben vedere, niente di nuovo.
«Trouver la frénésie journalière».
Charles Baudelaire, non ve lo traduco perché si capisce.
Ma vi dico che sta nei suoi diari in Notes précieuses.
E, questo sì, lo traduco, pure se non serve.
Note preziose.
Sia chiaro.

E perché, mi chiedo, ho infilato come segnalibro nelle pagine di Blue un biglietto del treno per Fiumicino Aeroporto del 29 ottobre 2013, in partenza da Roma Tiburtina alle 16:47, che io avrò preso a Roma Tuscolana qualche minuto dopo.
Escludo che fosse una mia partenza, io non parto mai il pomeriggio e vado sempre in aeroporto con la mia macchina, che mi faccio venire a prendere, e riportare, da un valletto.

Dunque, chi andavo a prendere.
E perché non ci andavo in macchina.
E, soprattutto, io, con la mia vita da pendolare con una montagna di biglietti, perché ho conservato proprio quello.

E perché l’ho infilato nelle pagine del manga.
E con quale stato d’animo, di esperienze amorose e di eroismo al quotidiano, sono andata quel giorno, che a me nemmeno sembra troppo lontano, in aeroporto.

Piccole gioie. Mi sembra che non ci siano biscotti con questo nome. Che secondo me è all’altezza di tutti gli altri nomi dei biscotti che sono interessanti solo per il nome.
Comunque, se qualcuno mi sfila l’idea, ci tengo a ricordarvi che essa, e sto parlando dell’idea, ovvero di una delle cose più importanti che ci siano sulla faccia della terra, ebbene, ci tengo a ricordarvi che l’idea: è mia.