Cose da uomini.  Diffido, e potentemente, dei meccanici che lavorano con i guanti.
Se il meccanico non vuole sporcarsi le mani, dovrebbe fare un lavoro diverso.
Il meccanico deve avere le mani sporche e deve avere orecchio.
Stamattina ho portato la mia bicicletta a gonfiare le gomme da Ivaldo, che ha l’officina proprio sopra la rampa del mio garage.
Lui è il mio elettrauto, il mio meccanico e, come detto, ogni tanto si prende cura della mia due ruote.
Tutto gira, è il caso di dirlo, intorno al garage, dove si danno il cambio cinque persone, con un carrozziere che gravita pure da quelle parti.
Il risultato è un servizio di quartiere completo a cento metri da casa mia: ricevo lì i miei pacchi; se ho graffiato la macchina, mi danno una passata di pasta lucidante sul danno; se ho un dubbio sull’assicurazione, sanno sempre rispondermi; la volta che mi hanno rubato il fregio della mia vecchia Polo, il carrozziere è andato allo sfascio e me ne ha trovato un altro; mi è pure capitato di vedere con loro la fine di una partita dell’Italia ai Mondiali perché ero rientrata proprio a quindici minuti dalla conclusione e ho scoperto un altro lato di loro tutti, sono ottimisti, sperano fino all’ultimo secondo, accesi nel tifo, simpatici e grandi conoscitori di tutte le tattiche calcistiche.
Inoltre, apprezzano tutti il cibo e il vino.
E apprezzano le donne.
E io ne approfitto.

Mi sdebito a Natale e a Pasqua con dei doni, ogni tanto porto pure una bottiglia per ringraziare di un intervento estemporaneo.
Tutti loro sono uomini come dovrebbero essere gli uomini, generosi, semplificati, gestibili, senza retropensieri esistenziali che ammorbano, inciampi del percorso, complicazioni professionali inesauribili.
In questo mio apprezzamento del genere del meccanico devo anche citare un uomo che con me si definisce sempre tale, buongiorno, sono Il Meccanico.
Questo signore, tempo fa, mi venne in soccorso quando mi si mise a fumare il cofano della macchina alle tre di notte sulla Tuscolana.
Mi fermai. Che dovevo fare.
Lui mi vide, si fermò pure lui, attese che il fumo si quietasse, tirò fuori dalla sua macchina una tanica, andò alla fontanella, la riempì d’acqua e con l’acqua rabboccò il radiatore.
Mi disse pure che probabilmente si era bruciata la testata, facendo così una diagnosi corretta.
Il danno fu grosso ma la sua provvidenziale presenza mi dette la possibilità di arrivare fino a casa.
Da quel giorno, Il Meccanico ogni tanto mi cerca, mi manda messaggi gentili, mi chiede sempre se mi ricordo di lui.
E come potrei dimenticarmi.
La prossima volta che mi sposo, mi sposo un meccanico. O qualcosa di simile.
Per come dovrebbero essere i mariti, sono i mariti ideali.

Cose da donne. Già vi ho raccontato di una delle mie due lavanderie qui.
Abbiamo lasciato la signora Anna, la titolare, che stava per riaprire.
Il riavvio della stagione non è stato facile. Si sono guastate le valvole delle caldaie di due delle tavole da stiro e una delle tre stiratrici l’ha abbandonata. Era la nipote, già autista di pullman.
Se voi pensate che un’autista con l’apostrofo di pullman sia una persona robusta, siete nel giusto. Caterina, però, ci sapeva pure fare con le camicie. Era andata dalla zia a chiedere lavoro perché era stata licenziata. Ha trovato un altro posto e se ne è andata.
La capisco, guidare un pullman lungo dodici metri deve essere divertentissimo, tu stai lì su quel sedile molleggiato e abbracci quell’immenso volante.
Io avrei problemi insuperabili nel parcheggio, ogni tanto ce li ho pure con la mia macchina, quindi, non mi cimento.
Con una stiratrice in meno, tutto è rallentato.
Quindi la signora Anna, quando sono andata a salutarla, pure nella sua inesauribile gentilezza, si vedeva che era preoccupata.
Poi è arrivata la signora Emilia.
Ai piedi ballerine con i lustrini, alta, imponente, con un gran sorriso stampato sulla faccia.
Dice che cucina pure bene, ha promesso di fare per tutti una fantastica lasagna.
Uno dice che c’è di strano, il lavoro è la cosa più normale di questo mondo.
Certo, ma fino a un certo punto.
Qui, di singolare, c’è che tre delle quattro donne che lavorano in lavanderia hanno superato i settanta anni.
Non è elegante parlare dell’età delle signore, però sono loro le prime a dichiararla.
E sono in gran forma, hanno un’attività frenetica e, soprattutto, sono sostenute da uno spirito indefettibile.
Trovo questa cosa bellissima.
In un mondo che non vede l’ora di andare in pensione, con tutti o quasi che sospirano all’idea di svegliarsi la mattina per andare a guadagnarsi il pane, in un mondo che se non ha l’aria condizionata e non sta in relax, alle terme o in viaggio o nel salotto di casa, si sente morire, ebbene, in questo mondo di quasi nullafacenti e di aspiranti all’ozio, si è formata un’enclave di lavoratrici a oltranza che resiste all’assedio.
Loro sono meglio di qualunque terapia.
Hanno un sacco di esperienza sulle spalle, una quantità industriale di narrazioni di cui mi rendono partecipe, sfidano tutti i luoghi comuni della donna con marito, figli e nipoti che cede le armi di fronte al mordere del tempo, sono capaci di reinventarsi continuamente un’esistenza.
Nelle mie abitudini, era ben raro che io risalissi la mia via Clelia verso la Tuscolana.
Da quando ci sono loro, allungo di un isolato il percorso per andare a prendere la metro, faccio una digressione pur di passare a salutarle, mi affaccio, dico buongiorno, chiedo notizie, ma di chi sono queste tende così imponenti e ci vuole il tappezziere per riappenderle, ah, c’è un abito da sera che non ho visto, i piumoni sono venuti a riprenderli.
Dico loro che sono un fantastico esempio di gioia sul lavoro, che sono una lezione per tutti.

Quando è riuscito fuori il discorso della lasagna, la signora Anna ha drizzato le spalle e ha detto alla signora Emilia «Guarda che se vuoi, io ho anche la licenza per la pasta all’uovo».
Mi sono prenotata per qualche porzione in settimana.
Appena loro si organizzano, risolvo pure l’annoso problema del cibo cucinato.
Insomma, risolvo un’altra delle mie cose da donna.

Il professore di Storia dell’arte. Non diventi tale per caso. La storia dell’arte è come la fisica e la matematica, tu non ci approdi se non sei vocato, se a un certo punto della tua vita non ti esplode dentro qualcosa che ti dice o ti avvii su questa strada, o sarai profondamente infelice.
A me è successo, quindi parlo per esperienza.
Con le dovute differenze, una lezione di storia dell’arte è paragonabile a un concerto. Il pubblico sta lì per un’ora e mezza, il direttore tiene tutto sotto la sua bacchetta, ma dietro c’è un lavoro lungo e complesso.
Per una lezione, chiamiamola, seria su un argomento che non mi è completamente sconosciuto, io ho bisogno di otto ore di preparazione.
E sono pure una svelta.
Ma i fili da annodare sono infiniti, ci sono tutti gli aggiornamenti, il materiale iconografico, una lezione deve uscire fuori coerente, con un suo ritmo interno, una sua armonia.
Alcuni autori, altro che otto ore, alcuni autori sono difficilissimi, se non li ho capiti io, come faccio a spiegarli agli altri.
Per preparare tre lezioni su Paul Cézanne, una volta ho impiegato tre settimane. E non ero nemmeno sicura di possedere l’argomento.

Uno degli artisti più ostici di tutti i tempi è anche uno dei più magici: a Paul Klee ha dedicato la sua tesi di laurea un mio compagno di università. Un momento, tu non dedichi una tesi a Klee perché quando ti laurei sei troppo giovane per capirlo, ti ci vuole un’intera vita e forse nemmeno ti basta.
Dunque, il mio compagno di università lavorò sulla pulsione di vita di fronte alla pulsione di morte in Klee.
Vi spiego.
L’artista era anche un ottimo violinista e aveva sposato Lily, una pianista di talento, da qui, tanto per complicare le cose, l’importanza della musica in tutto il suo catalogo.
Nel 1935 comincia ad avvertire i primi sintomi di una malattia rara e terribile, la sclerodermia.
Rimane attivo per tutti i cinque anni che gli rimangono da vivere, ma deve smettere di suonare.
Questa deviazione delle forze, questo stornare l’energia, questo nuovo stato lo porta a una produzione pittorica accresciuta.
Quella tesi fu dedicata proprio a questo aspetto, con tutta una serie di ricerche parallele, con casi esemplari, per esempio quello della paziente terminale che si innamora, ricambiata, del chirurgo, come se Eros reclamasse con violenza i suoi diritti davanti a Thanatos che sta lì a un passo.
Un artista complesso, molto prolifico, capace di produrre almeno 8.000 opere, che vi scrivo in cifra così si capisce meglio la portata della sua impresa. Straordinariamente inventivo, che si muove a suo agio fra astrattismo e figurazione.
Vi faccio vedere una sua cosa che amo molto.

Paul Klee, Er küsse mich mit seines Mundes Kuss, 1921

Provo a spiegarvi. L’artista qui riprende l’attacco del Cantico dei Cantici, che vi propongo nella traduzione di Guido Ceronetti:

«Mi abbeveri di baci la tua bocca
Perché il tuo amore inebria più del vino
È bello i tuoi profumi respirare
Il tuo nome è un unguento penetrato
Dalle vergini sacre sei amato…»

Alla bellezza del Cantico, il momento più erotico della Bibbia, che pure è piena di carne, Klee unisce le sue ricerche sulla forma, qui concentrate nelle lettere, strutturando l’operina, che è, appunto come spesso accade con lui, di piccole dimensioni, come un’architettura.
Se poi volete conoscere la tecnica impiegata dall’artista, eccovela: penna, matita e acquerello su carta, incastonati con strisce di carta dorata, su cartone.
Si capisce, no, che è uno tosto.
E si capisce che non è facile ridurre uno così, che sfugge a qualunque definizione, inoltre ironico, inoltre insegnante antidogmatico al Bauhaus, inoltre brillante e stimolante scrittore d’arte, a una lezione.
Proviamo a consolarci con quest’altra cosa, che si intitola Gatto e uccello, apparentemente più semplice.
Apparentemente.

Paul Klee, Gatto e uccello, 1928

Klee usa la linea, la forma e il colore, ovvero l’attrezzatura della pittura, senza che essa debba per forza descrivere qualcosa.
In questo modo, qui l’uccellino non sta davanti al gatto, ma proprio nella sua testa, anzi nella sua mente, letteralmente.
E il gatto è in agguato, se fossimo la sua preda, avremmo paura.
Eppure è calmo, come è calma la tavolozza, fatta di toni fulvi, rosa, con zone di verde azzurrognolo.
L’attenzione di Klee all’espressione dei bambini, che lui considera molto vicini al sentimento più profondo della creatività, lo porta a descrivere il gatto in modo semplificato e un po’ geometrico.
Secondo me la cosa più stuzzicante è il naso a forma di cuore rosso, che esprime il desiderio di fare fuori l’uccellino.
E questa è la tecnica: olio e inchiostro su tela coperta di gesso e montata su legno.

Questo per me è il più bel gatto di tutta la storia dell’arte.

Difficile da acciuffare, lo capisco, lo dite a me, che, è vero, ho voluto la bicicletta e che amo profondamente prendermene cura, divertirmici, raccontarla.

A me, che amo tantissimo pedalare.