LA PRIMA MELA

La mia prima mela nel piatto di Blanche Patine ‘Lucy’, fine sec. XIX

Ieri sera, in zona Cesarini, quindi, alle ore 20:25 quando chiudono alle 20:30, ho trovato al supermercato le prime mele.
Amando i cibi semplici, apprezzo molto le mele. Potrei vivere di spaghetti al pomodoro, petto di pollo ai ferri, due foglie di insalata e mele.
Più vino ottimo e variato, e vorrei pure vedere.
Le mele nuove sono buonissime, belle croccanti e piene di promesse.
Ho espresso un desiderio.

La mela più singolare che ho mangiato in vita mia stava in un mese di agosto sulla tavola della cena di un albergo orrendo in Val Senales.
La farmacia più vicina era a 32 chilometri. Se ho resistito è stato solo perché avevo un magnifico romanzo da leggere e perché avevo fatto un patto: una settimana dove piace a te; una settimana dove piace a me.

La prima settimana: negozi, un bell’albergo con cambio frequente di asciugamani, piscina semplice ma calda, tovaglioli puliti a ogni pasto, stanza grande, balcone con vista.
La seconda settimana: pari, come spirito tragico, all’ultima del mese quando non hai soldi, stanza esposta a nord, la farmacia, ve l’ho già detto, a distanza siderale, niente cambio di tovaglioli, la sera, solo le luci del cimitero: quattro o sei, non ricordo. Manco i morti, volevano stare da quelle parti.
Ma è una valle intatta. E ti credo, e chi ci viene, in questa valle.
A parte che la prossima volta che mi ricapita lascio la macchina e prendo il treno per mio conto, pure portandomi via il cappottino delizioso e di grande marca che mi sono comprata e rientro al mio domicilio, l’unica cosa divertente di tutta la vacanza fu «la mela».
Appena raccolta, messa in un piccolo piatto con accanto il tovagliolo usato, quindi, sporco, essa era ricoperta da una buccia talmente sottile che fu possibile toglierla con le mani.
Una cosa incredibile.
Una mela nuova.
Una prima mela.

Ancora me la ricordo. Insieme alla sensazione di umido che mi dava la stanza, alla lentezza con cui passava quella settimana, al cimitero e al romanzo.

Gli antichi romani, che sapevano stare al mondo, avevano ben 32 tipi diversi di mele.
Lo slogan più bello della storia della comunicazione d’Italia diceva: «Chi Vespa mangia le mele».
Nonsense totale e radicale, ma qui sta il bello.
L’idea geniale della Piaggio, la Vespa: nata nel 1946 come alternativa economica per l’industria aeronautica che aveva avuto 12.000 dipendenti e che alla fine della guerra se la passava proprio male.

 

Un mezzo leggero, pratico, che anticipa nuovi stili di vita.
Poi, lo slogan degli anni ’70, che aveva anche un seguito: «e dà un bacio a chi gli pare».
Basta confrontare quella pubblicità là con questa qua, quella che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, per capire come stiamo messi: insieme al prosciutto crudo, tutto salato anche quello che una volta era dolce e comunque immangiabile e ai soldi del bancomat, che sono messi tutti in disordine, laddove dovrebbero cascarci in mano tutti belli dritti e in ordine gerarchico a seconda del valore delle banconote, il livello frusto della nostra comunicazione segnala a gran voce la sconfitta storica dell’Italia.
Ditemi voi se c’è oggi uno slogan bello (e demenziale) come questo.
Io non sono capace di trovarlo.

Vi ricordo che Woody Allen in Manhattan mette «le pere e le mele di Cézanne» fra le dieci cose per cui vale la pena vivere.

Paul Cézanne, Les pommes, 1889

Le mele, mica i pomodori o l’avocado (che, apprendo solo stasera, in spagnolo, aguacate, significa «testicolo»).
Insomma, cose serie.
(Non sto parlando di testicoli, che pure sono cose serissime).

Una delle cose più carine della mia carriera in Accademia mi venne da tre deliziosi studenti, parecchio sventati, che rimasero ultimi quando furono assegnati lavori a squadra sulle regioni d’Italia.
(Lo so, lo so, che sono cose da scuola elementare, ma i nostri ragazzi ignorano la geografia e tutti i suoi incantamenti. Quella volta provai a iniziarli).
Allora, dicevo, rimasti solo loro tre e con le regioni assegnate da un pezzo e con il compito di costruire un manufatto tridimensionale nel quale infilare tutto, monti, valli, fiumi, prodotti della terra e dell’intelletto, musiche, usanze e quello che vi pare, si presero quello che restava: la Valle d’Aosta.
E, trionfanti, all’esame, tirarono fuori dal loro peraltro ben fatto plastico una mela.
Dissi: «Prego?».
«La mela della Val Venosta», dissero loro.
Risi solo io, che sapevo che la Val Venosta stava in Alto Adige e non dall’altra parte.
Il suono e la mancanza di esperienza li avevano ingannati. Ma da lì nacque tutta una faccenda, loro divennero «I ragazzi della Val Venosta» e se mi leggono oggi, diventati adulti, sappiano che mi hanno fornito uno dei motivi più disarmanti e commoventi di tutti i miei anni di Accademia sui quali piangere di nostalgia nelle sere d’inverno.

Quindi, grazie.

A me la Apple non piace, non faccio parte della setta (ho detto setta?).
Posseggo un i-Pad, che non mi sta simpaticissimo e una volta mi sono quasi picchiata con uno che mi diceva ma è intuitivo a proposito delle icone che, cliccate, si mettono a tremare, come diceva Lucky Lucke, che leggeva mio fratello, come un budino (gli avversari del cowboy, davanti a lui; le icone Apple, cliccate quando hai bisogno di farci qualcosa).

Sì, d’accordo, ciao.
Però il logo è bellissimo ed è bella l’idea della mela un po’ morsa, fa tanto paradiso perduto, quindi peccato, quindi: altro.

Il tempo delle mele è il titolo, italiano e cretino, dato al film francese Le boum, quello con Sophie Marceau del 1980. Un film sull’adolescenza, con questa strana interpretazione per cui questi frutti, proibiti più o meno, apparterrebbero alla primavera e non all’estate nel suo pieno rigoglio.
Un altro nonsense. Ma che volete farci.

Le mele sono così: come tutte le cose semplici e disarmanti, imbrogliano le piste.
Però, che gusto.
Dopo l’imbroglio, addentarle e pensare che con esse, è arrivato l’autunno.
E che quindi, porti quel che porti e costi quel che costi: si ricomincia.

 

 

2 Comments

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  1. Adoro le mele!

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