Il numero dei telefoni. Conosco parecchie persone che hanno due telefoni:
manager, affiancatori di politici, gente che ha un ruolo di qualche peso in un’azienda.
Si tratta di telefoni che chiamiamo qui di servizio.
Ho incontrato anche uno psicologo che aveva due telefoni. Mi ha detto che ce li aveva perché non voleva essere disturbato fuori orario dai suoi clienti.
Ha detto proprio così.
A me già il fatto che chiamasse clienti coloro che andavano da lui perché erano in uno stato di sofferenza e che, dunque, avrebbero meritato il titolo di pazienti, è sembrato incongruo.
Che poi lui non volesse essere disturbato da persone con dei disturbi che andavano da lui per curarli, mi è sembrato feroce.
Ma tant’è.
Anche il protagonista di Breaking Bad, che aggiunge al mestiere di professore di Chimica quello di cuoco di metanfetamina, ha due telefoni ed è proprio a causa di una sua sbadata ammissione che la moglie comincia a vederci chiaro. Oltre che per la quantità anomala di denaro che affluisce dalle loro parti.
Ma questo è un altro discorso.
Pure la mia domestica ha due telefoni: uno lo accende la notte. Ora, che cosa ci faccia con un simile armamentario questa donna che conduce un’esistenza semplice, io continuo a chiedermelo. Lei un paio di volte me lo ha spiegato, ma io non credo di essere del tutto entrata nel discorso.
Sta’ a vedere che la signora Gerardina ha una doppia vita, proprio come la Veronica del bel film di Kieslowski.
Contenta lei.


Una volta mi ha portata in aeroporto un tassista che aveva tre telefoni, tutti schierati sul cruscotto. È probabile che ne avesse anche un quarto nascosto da qualche parte. Privato.
Sì, perché i primi tre erano di lavoro.
A guardarlo guidare e rispondere in contemporanea, sembrava di stare davanti a una di quelle centraliniste che si vedono nei vecchi film, sapete, quelle con le cuffie, che continuamente attaccano e staccano spinotti sul pannello.
Un lavoro terribile.
Un po’ come quello del tassista, che invece di godersi l’autostrada, stava lì a gestire la sua multiforme attività, che non ho ancora capito in che cosa consistesse.
Lui era solo e aveva solo quella macchina.

Comunque ancora non vi ho detto che anch’io ho due telefoni.

Uno però è quello fisso. Che io uso, apprezzando anche, quando capita, quelle conversazioni che sembrano datare al secolo scorso, io sdraiata sul divano con un calice di vino appoggiato a terra, facendo una bella chiacchierata.
È stato così che ho rotto due dei miei bicchieri più belli, dando loro inavvertitamente un calcio a cose fatte.

Tutti i miei studenti hanno il mio numero di telefono.
Come ce l’hanno tutte le persone con le quali ho rapporti professionali, cosa che a me sembra normale.
E come ce l’hanno coloro con i quali ho rapporti privati.
Finora non è che qualcuno mi abbia recato noia, oppure, se è successo, i modi per non farseli recare, la noia e pure il disturbo, sono infiniti. Quindi, non devo stare lì a tenere segreto il mio numero di telefono.
E fu così che una volta ci fu questo scambio con uno dei miei ragazzi.
Lui: «Professoressa, quanti anni avete?».
Io: «Novantacinque, però me li porto bene e sembro una ragazza».
Lui: «Su, andiamo, non scherzate».
Io: «Perché, non è vero che sembro una ragazza?».
Lui: «Sì. Però poi bisogna vedere da vicino».

E allora, giustamente, andiamo a vedere da vicino il nostro argomento di oggi.

Il tempo. Il tempo è il peggiore nemico delle donne. Infatti il mio studente, musicista, svagato e pure simpatico, sul tempo mi aveva interrogata, mica sul programma di Storia dell’arte.
Chiarisco subito che io in vita mia non sono mai stata bene come adesso; facendo il conto di tutto e tutto calcolando, per esempio finalmente ho imparato a gestire la mia energia, che prima mi sfuggiva da tutte le parti e con la quale spesso sono entrata in violento conflitto. Certo, ho perso qualcosa, anche se non posso essere io a dirlo, io mi vedo tutti i giorni, però quello che ho guadagnato è talmente tanto, che posso serenamente evitare di rimpiangere la mia prima giovinezza.
Chiarita la mia posizione, torno all’evidenza che il tempo è il grande nemico delle donne.
Insieme alla loro dabbenaggine.
Se così non fosse, esse non pubblicherebbero versi come «Supererò le correnti gravitazionali / Lo spazio e la luce per non farti invecchiare» aspirando a sentirseli dedicare da un uomo.
Un uomo non la pensa così.
Io non ho mai incontrato un uomo che nutrisse questi sentimenti. Nemmeno quando avevo vent’anni e tutti i lunedì andavo in facoltà per il  seminario delle 8:00 su Aldo Palazzeschi per l’esame di Storia della letteratura contemporanea e uscivo da casa alle 7:15 per prendere la circolare a piazza del Risorgimento e davanti al portone mi trovavo regolarmente due o tre amichetti con la macchina con il motore acceso che si offrivano di accompagnarmi, contando di compensare l’alzataccia con una mezz’ora di conversazione con quella che ero io all’epoca, fosse pure in mezzo al traffico.
Un uomo a non fare invecchiare una donna non ci pensa per niente.
Anzi.
Figuriamoci se pensa di sollevarla «dai dolori e… (dagli) sbalzi d’umore / Dalle ossessioni delle… (sue) manie».
Diciamocelo. Gli sbalzi di umore, le ossessioni e le manie delle donne danno fastidio a me, figuriamoci che cosa pensa un maschio di tutta questa panoplia al femminile.
Ne pensa malissimo.
E fa bene.
Quindi le donne dovrebbero piantarla di scambiare versi, che in questo caso manco sono letterari ma che si limitano ad arredare una musica, per oro colato o dichiarazioni di evoluzione dei sentimenti.
Gli uomini provano sentimenti primitivi, primordiali, primigeni, non è che stanno lì a sottilizzare, sarebbe ora, e finalmente, di metterlo in conto.

Sgombrato il campo dagli equivoci, ora parliamo del tempo e dello strumento per misurarlo.

L’orologio. Ho un solo orologio. Un Eberhard d’oro, che a un certo punto della mia vita ho deciso di regalarmi. L’incontro non fu facile e impiegai circa sei mesi a sceglierlo.
Volevo un oggetto rigoroso e semplicissimo e non volevo un orologino da donna.
Avevo bisogno di un quadrante leggibile anche con la coda dell’occhio mentre facevo o una lezione o una conferenza ma non volevo una dimensione da uomo: un orologio virile su un polso femminile mi sembra sproporzionato.
E volevo gli indici dei minuti, cioè quelle stanghette che girano intorno e sulle quali scivolano le lancette.
A proposito di lancette, volevo anche quella dei secondi, perché se ho ancora mezzo minuto a disposizione, riesco a chiudere un discorso.
Non vi sto a raccontare le reazioni.
Ma gli orologi da donna non sono così.
E io, quando faccio l’uovo sodo, i minuti, come li conto?
E quando mi applico la maschera ai capelli?
Stupore e disorientamento.
Ovvio, con l’arrivo degli smartphone, abbiamo risolto.
Ma prima, prima, come facevo.
Mica mi potevo portare il timer della cucina appresso.
Risultato. Alla fine mi dovetti rassegnare a non avere la lancetta dei secondi. Per tutto il resto il mio orologio corrisponde perfettamente a quello che cercavo e, quando lo porto in assistenza per cambiare il cinturino, mi faccio discorsi infiniti con tutti gli esperti della botteguccia a piazza San Donà di Piave.
Di che parliamo? Di orologi.
Anche se io ne so pochissimo, perché ne ho uno solo e loro sono invece degli esperti, maniaci e collezionisti.
Ma la relazione con loro è per me molto importante.
Per inciso: sono tutti uomini.
Sarà un caso, ma mi pare di aver capito che gli uomini hanno con il tempo un rapporto diverso da quello che abbiamo noi donne.

La salute, 1. Fra i vari strumenti di misurazione che si usano in medicina, lo sfigmomanometro, ovvero quello che serve per la pressione, si incontra di frequente.
Torno alla mia domestica. Che è un’ipocondriaca, autoprotettiva e gira con in borsa un sacchetto di medicinali da prendere in caso di.
In caso di che cosa, non si capisce del tutto. Il sacchetto pesa almeno tre etti e quando io le dico ma perché si porta dietro tutta questa roba quando qualunque farmacia saprebbe darle una mano in caso di bisogno, ecco che scatta l’ansia.
La nostra relazione si basa sul suo stato di salute e, incidentalmente, sulle necessità della casa.
La fase della pressione fu sfiancante.

Lei si era comprata il misuratore e lo utilizzava almeno dieci volte al giorno. La pressione, sottoposta a quel placcaggio, non sapeva più che cosa fare. Come avrebbe fatto chiunque, si inquietava. Dunque, scendeva e saliva e a ogni sbalzo montava pure l’agitazione.
Io cercavo di cambiare discorso.
Per esempio, le dicevo ma perché non esce con un uomo e non si va a mangiare una pizza.
Mica una cosa più impegnativa.
Lei è rimasta vedova da qualche tempo.
Era giovane e la perdita fu triste.
Sto leggendo un romanzo la cui protagonista è vedova da tre anni. Insegna Matematica a Nisida, che è il carcere minorile di Napoli.
La scrittura è magnifica e il sentimento di solitudine è sottoposto a un’analisi spietata e furibonda.
Il marito, Antonio, è morto per un attacco cardiaco e lei se lo è trovato «freddo su un tavolo di metallo, labbra viola, e il viso come se ci avessero passato sopra del talco».
Lei ha anche saputo in ritardo, perché il telefono, come da regolamento, stava chiuso nella cassetta di sicurezza all’ingresso del penitenziario.
Da quel giorno, Elisabetta Maiorano, questo è il suo nome, tenta di riprendere a vivere.
«…passato il giro dell’anno, quando mi era tornata la voglia di mangiare e di uscire per strada, una notte mi tornò pure la voglia di fare l’amore».
E così ci dice più di una volta che le piace il comandante.
Però il comandante è sposato e non la inviterà mai.
La invita, invece, il maestro del coro, che però ne fa una proprio grossa, portandola al San Carlo a vedere La vedova allegra senza nemmeno pensarci.
E lei non è riuscita a riderci su.
C’è anche un ritorno all’esistenza sul campo.
«”Sono il primo?” mi aveva chiesto uno con cui avevo scopato. Credetti di non capire, ho cinquant’anni, ma in realtà avevo capito: c’era questo spettro che vagolava intorno al mio corpo nudo e sì, era il primo dopo il lutto, ma non mi parve una domanda che meritava una risposta, non a lui ».
È chiaro che vorrei passare il romanzo alla signora Gerardina, o, almeno, parlarne, ma non mi sembra che questa strada sia praticabile.
La mia teoria, quella che cerco di esporle, è che se lei si andasse a mangiare una pizza con un uomo qualunque, la pressione ne trarrebbe beneficio.
Anche il sacchetto delle medicine potrebbe starsene a casa.
Lo dice pure Pavese nel suo diario, chiodo scaccia chiodo, anzi, puntualizza: «Che in amore  chiodo scacci chiodo, sarà vero per le donne, per le quali il problema è appunto come trovare un altro chiodo da ficcarsi in cavità, ma per gli uomini che di chiodo non ne hanno che uno, è meno vero».
Brutale, ma esatto.
Comunque, da qualche settimana, alla signora Gerardina è scoppiata un’allergia.
Non si sa bene a cosa, certamente, ha scoperto il medico a fiuto, al peperoncino.
Per lei calabrese, un contrappasso.
E così il problema della pressione è stato risolto.
Grazie all’ossessione che dallo sfigmomanometro si è spostata nel piatto.

La salute, 2. Non so quanti siamo, secondo me un piccolo drappello, ma faccio parte di coloro che hanno un’alterazione frequente della temperatura.

C’è stato pure un film, che ho visto affettuosamente, anche se la protagonista era troppo sconclusionata perché io mi potessi identificare.
Accorgersi di una cosa del genere è facilissimo, basta, come si dice, misurarsi la febbre.
Quando io ero ragazzina, quella che era proprio preoccupata al riguardo era mia madre, che le pensava tutte, anche che io fossi tubercolotica, proprio quando la tubercolosi da un pezzo era stata debellata.
Ma non si sa mai.
Dopo aver tentato ogni strada per far regredire quel 37,2 e portarlo a 36,8, l’ebbe vinta un medico più lucido degli altri, che dette il consiglio giusto: butti il termometro.
Cosa che io non feci subito, essendo esso uno strumento di misurazione importante per la febbre, quella vera.
Ma, come sappiamo, anche i termometri non sono più quelli di un tempo e si è stabilito che le apparecchiature di misurazione contenenti il mercurio sono «pericolose e dannose per l’ambiente e la salute umana».

Alexander Calder, Fontana di mercurio, 1937

Mi è rimasta la curiosità di sapere che cosa ne è stato della Fontana di mercurio di Calder che stava a Barcellona, un oggetto divertente, in cui quello che abbiamo fatto tutti, tutti noi che siamo adulti, cioè giocare con le palline di quello strano metallo liquido quando si rompeva il termometro, era tirato all’ennesima potenza.
Vi metto una foto storica e se vi sembra che dietro all’artista ci sia Guernica di Picasso, avete visto giusto: l’anno è quello.
Forse anche la fontana è stata smantellata.

Comunque, rotto, come di frequente accadeva, il termometro storico, ne comprai uno a gallio, presentato come più preciso degli altri.
Sarà.
Ma il problema è che quest’altro metallo, anch’esso, subdolamente, di colore argenteo, quando sta nel bulbo, lì dove io lo vedo, non si muove. Non va né su né giù.
Dunque, non si può azzerare e tantomeno riesce a salire.
Ho riportato il termometro in farmacia e la dottoressa, costernata, mi ha detto che va agitato più forte.
Ci ha provato lei, senza riuscirci.
Ci ha provato la collega.
Niente.
Ci ha provato il barista, che aveva appena deposto sul banco il vassoio con tre caffè al bicchiere e un cappuccio in tazza.
Niente.
Alla fine mi sono sentita in imbarazzo.
Ho detto non fa niente, lasciamo perdere, anche perché io non ho alcuna intenzione di misurarmi più la febbre in vita mia, io ho un passato sensibile e poi mi sento bene da quando, finalmente, ho deciso di seguire sul serio il famoso consiglio del medico lucido e di buttare il termometro.

Cosa che ho fatto appena uscita dalla farmacia, nel primo cassonetto che mi sono trovata davanti, finalmente libera da quel ricatto, da quello strumento di misurazione della temperatura corporea che per me era stato in passato una specie di appuntamento con un subisso di pensieri oscuri, nei quali ero un giorno la Mimì di Bohème e il giorno dopo la Violetta di Traviata,  senza che mai fosse venuto in mente a quelle due donne, mie compagne di ipertermia, di liberarsi del loro destino rifiutandosi di ammettere che erano entrambe condannate alla morte.

Loro sì, che sono tisiche e che devono misurarsi la febbre.
Io, no.
Io sono sanissima e di questo diabolico  strumento non so che farmene.