James Tissot, Le Cercle de la rue Royale, 1868

A mali estremi, estremi rimedi

L’altra sera, come sempre faccio il lunedì, sono passata in macchina a via Salaria e mi sono fermata al semaforo rosso.
Lì c’è, sulla sinistra, un locale che mi è sembrato elegante e interessante finché non ci ho passato un pomeriggio, nel corso del quale ci siamo dovuti alzare per andare a prendere le bibite e i caffè perché nessuno dava ascolto a noi clienti.
Il locale affaccia sulla strada con molte vetrine, quindi si vede bene quello che succede dentro. E dentro c’era un gruppo di giovani donne che stavano a un tavolo, tutte donne e tutte sedute, tranne una, che era in piedi e aveva vicino a sé una carrozzina.
Dalla carrozzina aveva estratto una bambina piccola piccola, incartata in un pagliaccetto rosa, che trastullava su e giù.
E, mentre trastullava la bambina, parlava con le amiche.
Premetto che i gruppi di sole donne mi danno tristezza, mi fanno cena al paese l’8 marzo, e pettegolezzi e chiacchiere da femmine, giardino d’infanzia, vestiti e scarpe.
Inoltre, e questa cosa ritorna da un po’ più e più volte, mi chiedo perché la fascinazione di un figlio piccolo piccolo non basti a tenere a casa una donna.
Me lo sono chiesta anche quando c’è stato l’attentato a Parigi al Bataclan, sono passati tre anni e ho continuato a leggere interviste.
La prima, al padre di un bambino piccolo piccolo la cui madre quella sera è morta, cioè il padre stava a casa con il bambino e la madre stava al concerto degli Eagles Death Metal ed è stata una delle ottantanove vittime.
Mi sono anche detta che se il concerto fosse stato di musica classica, mi avrebbe fatto un altro effetto, insomma, metto insieme male un poppante e il metallo pesante.
Poi, via via, altri commenti, anche di recente, conversazioni con donne che stavano lì e avevano lasciato a casa i figli piccoli piccoli ed erano sopravvissute a quell’esperienza, estrema e terribile.

I miei sono interrogativi teorici, nel senso che penso che le donne possano ovviamente andare dove vogliono, però nella vita c’è una gerarchia di interessi, per cui, mettiamo, se stai lavorando a una tesi, essa passa davanti a tutto, come davanti a tutto passa un esame imminente, un lavoro importante, una consegna urgente.
Come davanti a tutto passa un uomo con degli argomenti.
Come davanti a tutto passa un romanzo avvincente.
Come davanti a tutto passa una casa nuova.
Mi ricordo infatti che, quando sono andata via da quello paterno, l’appartamento che avevo trovato in affitto, fra l’altro superiore per singolarità a tutti quelli che avevo abitato fino a quel punto, esercitava su di me una fascinazione che era una specie di magnete che mi teneva attaccata alle mie stanze, passavo le sere a guardarmele, a metterle a posto, a rifinirle.
Non sarei più uscita.
Invitavo a cena delle persone, ero in una fase di apertura al mondo, ma uscire io per andare a mangiare fuori, proprio non mi andava.
E ricordo che quando cominciai in Accademia, con il viaggio di mezzo, le lezioni da preparare, i colleghi nuovi e tutto il resto, frequentando in contemporanea il secondo anno di un corso di tedesco a Roma, tagliai corto su una serie di uscite, che, di fronte a tutte quelle novità, ormai non avevano più senso.
Fra l’altro, in Accademia eravamo tutti giovani, quindi cominciai a frequentare i colleghi e a rendermi conto, dal vivo e sul campo, come erano davvero gli artisti.
Avevo un’amica cara, che partecipò fino in fondo alla mia vita di allora, però mi ricordo che altre persone scomparvero dal mio campo di azione.
Giustamente.

L’altra sera sono andata a cena con due uomini.
Due artisti.
La serata era cominciata per tempo, avevamo un progetto professionale, per cui l’amico che conoscevo è passato a prendermi dopo che avevo fatto lezione in Accademia.
Pure con una bella macchina.
Pure scendendo dalla bella macchina per venirmi incontro.
E subito abbiamo cominciato a chiacchierare delle cose di cui mi piace chiacchierare, il lavoro, le opere, i giorni, abbiamo anche chiacchierato di quello che succedeva nell’ambiente, di cui io so poco o niente per il semplice motivo che io non frequento nessun ambiente, nemmeno quello che, a rigore, dovrebbe contenermi.

In venti minuti, in una Roma ormai serale, molto nera e ammantata di luci, siamo arrivati a destinazione.
Studio segreto e suggestivo, la prima cosa che ho pensato era che volevo assolutamente tornarci di giorno.

L’atelier dell’artista

L’altro artista era una specie di pirata, occhi neri e barba, alto, elegante, ci siamo stretti la mano, presentati e ho pensato: «Per la miseria».
I due si conoscevano da anni, erano amici, colleghi, complici, io non faccio nessuna fatica a mettermi in relazione con il mondo, quindi mi sono buttata nella mischia.
Di che abbiamo parlato.
Di lavoro.
Ovvero di arte.
Di dipinti, cataloghi, mercanti, disegno, talento, case, relazioni, ovvero delle cose che più mi stanno a cuore: professione & sentimenti.
È andata la prima bottiglia di vino.
Una delle cose più simpatiche di queste visite agli atelier di artisti è che ti offrono da bere quasi subito.
Questa sì, che è ospitalità.

La casa museo di Rembrandt a Amsterdam

Lo studio mi faceva pensare alla casa di Rembrandt ad Amsterdam, quella che lui ha abitato quando era nel pieno del suo successo e che poi ha dovuto dolorosamente abbandonare, con tutti i pezzi della sua collezione venduti: armature, quadri, sculture, gessi, disegni, la panoplia dell’artista che racconta la sua arte.
Casa che è stata ricostituita come museo, forse come risarcimento, forse come richiesta di perdono da parte di una città che ha trattato in modo così ingrato uno dei suoi figli più grandi.

Col vino, si sa, la conversazione scorre meglio e, se ce ne fosse stato bisogno, è andata avanti pure più fluida.
Dunque, abbiamo pensato di non lasciarci e di proseguire i discorsi gambe sotto il tavolo.

Percorso a piedi, facevo fatica a orientarmi, sapevo perfettamente dove stavo, ma fra il vino e l’arte, va’ a capire.

Di che cosa abbiamo parlato in seguito in trattoria.
Ancora di professione & sentimenti.

Anche perché non potevo farmi sfuggire l’occasione, chissà quando mi ricapita, due uomini, per giunta artisti, quindi sensibili, articolati, inoltre due, si dice così, figurativi, quindi capaci di parlare degli oggetti del mondo e di un corpo di donna, con quell’ulteriore bottiglia davanti, insomma, a farla breve, ho dispiegato tutte le mie ali e, semplicemente, ho proposto argomenti.
L’amore.
La gelosia.
Il desiderio.
I tradimenti.
I figli.
L’ambizione.
Il denaro.
Il talento.

Ho dichiarato che sono una tomba.
Inoltre, io ho relazioni sentimentali solo con artisti morti, è una norma professionale igienica che ha pagato fino a ora e che non si vede perché non debba continuare a pagare.
Dunque, tutti liberati dalla contingenza, sono venuta a sapere cose confessionali, intime, profonde, alcune anche divertenti.

Altro che una cena fra donne.

Nessuno ha parlato di bambini, di vestiti o di scarpe.
Nessuno si è lamentato di essere lasciato da solo.
Nessuno ha messo la professione o, se preferite, il mestiere, in questo caso quello altissimo dell’artista, al secondo posto nella gerarchia dell’esistenza.

E per concludere, il dipinto che vi ho proposto in apertura.
James Tissot, un po’ francese, un po’ inglese, figlio di un commerciante di abiti e di una modista, è uno molto attento all’abbigliamento.
Qui gli viene commissionato un ritratto di gruppo dai dodici modelli che vediamo, tutti membri del Cercle de la rue Royale, club esclusivamente maschile fondato nel 1852.
Ciascuno dei rappresentati ha pagato 1.000 franchi per la realizzazione dell’opera e il proprietario finale è stato estratto a sorte.
L’opera è rimasta proprietà della famiglia del vincitore fino a che il Musée d’Orsay non ha sborsato quattro milioni di euro per acquistarla.
Facendo benissimo.
Vi dico solo che il grande e imponente dipinto è una specie di manifesto della moda e dello stile maschile dell’epoca e che, addirittura, all’estrema destra vediamo Charles Haas che è, e ho detto tutto, colui cui Marcel Proust si sarebbe ispirato anni dopo per il personaggio di Swann della Recherche.
Aggiungo che l’opera, così squisitamente francese, è anche parecchio legata ai conversation pieces inglesi.

E ora veniamo a noi.
Dove sta il male estremo? Negli uomini.
Dove sta il rimedio, estremo anch’esso: sempre negli uomini.
Insomma, non è che una si mette a uscire con le amiche perché ha una pena d’amore e ammorba tutte tutta la sera, pure considerando che pure loro, le amiche, sono ampiamente ammorbanti.
Per i discorsi che fanno, pettegolezzi e chiacchiere da femmine, giardino d’infanzia, vestiti e scarpe.
Poi, per carità, mi sbaglio.
Però. Com’è finita la mia serata dell’altra sera.
Benissimo.
Con i primi saluti, baci, abbracci stretti e rivediamoci presto e poi il mio amico che mi ha depositata sotto casa a notte fonda con la sua bella macchina, dicendomi «Dovere», quindi non ho dovuto né prendere la metropolitana né cercare un taxi, e ci sarebbe pure mancato, la metropolitana, a quell’ora, manco c’era e il taxi, va’ a cercarlo.

Insomma, tu esci con un uomo e quello, minimo, si preoccupa del tuo rientro e il giorno dopo ti manda pure un WhatsApp con un link interessante che tratta proprio delle cose di cui, a più riprese, avete parlato tutta la sera.

Proprio un’altra aria, proprio un’altra atmosfera, proprio un umore diverso da una serata fra sole donne.
Poi, chissà, che ne so, ci sto, forse le serate fra donne sono un problema mio e loro, le donne, si divertono tantissimo, proprio come delle matte, a stare fra loro fra bambini, vestiti e scarpe.

Antoine Watteau, Le remède, l’inizio di tutto