A questo punto io feci osservare che tutti i linguaggi sono pieni di immagini e di metafore la cui origine si va perdendo, insieme con l’arte cui sono state attinte…scomparsi i mulini a pietre sovrapposte, dette anche palmenti, in cui per secoli si era macinato il grano…ha perso ogni riferimento la frase “macinare” o “mangiare a quattro palmenti”, che tuttavia viene ancora meccanicamente ripetuta…
Primo Levi, Cromo, Il sistema periodico, 1975
Aveva ragione quell’amico mio, fotografo e artista, che una volta mi disse tu mi mandi una mail e io mi aspetto una lettera, con la busta e il francobollo, altrimenti si dovrebbe trovare un nome nuovo per questa cosa diversa.
Lo stesso per il film, che se diventa digitale, come fa a chiamarsi ancora così, chiedetelo alla gente del cinema, che cambiamenti ci sono stati, dall’impossibilità per la troupe di rivedere la sera tutti insieme il girato, che in inglese e in francese si chiama rushes, visto che il girato si rivede individualmente sul proprio computer, al fatto che prima la pellicola costava, quindi si stava attenti, e adesso si gira senza farci più caso.
Del resto stamattina, io, che evidentemente non è che sia del tutto sveglia, a un semaforo ho impiegato almeno dieci secondi a capire che cosa fosse quella specie di alfabeto Morse che si illuminava su una macchina che stava davanti a me.
Che doveva, evidentemente, girare a sinistra, e quella era una delle tante forme che ha assunto il lampeggiatore, che io mi ostino, come tanti, a chiamare freccia perché lampeggiatore mi fa strano.
E mi fa strano anche freccia, visto che qualunque lampeggiatore, tanto meno l’alfabeto Morse di stamattina, sembra tale.
Però: «(freccia indica anche) il dispositivo (propriam. f. di direzione) che negli autoveicoli si alzava manualmente a destra o a sinistra per segnalare il cambio di direzione di marcia, ora sostituito da apparati luminosi lampeggiatori».
Insomma, nelle prime automobili, la freccia c’era davvero.
Aggiungo che, in tutto questo lampeggiare, al semaforo successivo, dove avevo una macchina davanti a me che era come la mia, mi sono intenerita sull’indicatore di direzione: limpido, chiaro, funzionale.
Sembrava proprio quello che era.
Ma è giunto il momento di parlare di qualcosa che non è più.
Ovvero della lampada che è scomparsa dalla lampada.
Come già accennato, voglio comprarmi una lampada nuova per il mio salotto.
E vi ripropongo quella che secondo me sarebbe perfetta.
È lei, l’ho pensato subito, appena l’ho vista e ci sto girando intorno da un po’.
Non mi trattiene solo il prezzo, che forse è l’ultimo dettaglio, mi preoccupa la lontananza, la lampada sta a Stoccolma, in un bellissimo negozio, vedi oltre; la parte elettrica, chissà se è funzionante; il colore reale del paralume, che, visto così, sta bene con le marmette originali verdi e bianche del pavimento, poi, chissà; il trasporto.
Insomma, vorrei vederla e ho anche pensato di fare un viaggio, però così il prezzo aumenta ulteriormente, anche se uscirebbe fuori il materiale per un racconto.
Intanto vi mostro il negozio, così se andate a Stoccolma, ci fate un salto.
Una volta provai a convincere il titolare a vendermi solo uno dei due candelieri che loro utilizzano da mettere sul tavolo, ma non ci fu niente da fare.
L’uso svedese li vuole a coppia.
Ci lasciai il cuore, ma due erano davvero troppi, con tutto che ho un tavolo grande.
Dal medesimo negozio viene anche quest’altra lampada, che mi è sembrata simpatica e domestica.
Di essa vi dico il prezzo, che è, invece, quello che me l’ha fatta escludere: € 15.000 (quindicimila), più di una macchina di quelle accessibili.
Ho chiesto consiglio a un amico, che ha una casa magnifica e un gusto sicuro e non si capisce perché faccia l’antiquario invece di fare l’arredatore.
Mi ha dato un nome: Luminator.
Ce ne sono due.
- Comincio da questo, che è quello che mi consigliava lui. Nel secondo dopoguerra, i fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni, architetti e designer, si mettono a lavorare su una lampada ridotta ai minimi termini, dai bassi costi di produzione, molto semplice nella concezione (tutto questo mi piace molto). C’è un tubo, una lampadina faretto con bulbo in vetro pressato, una base a tre elementi e il filo elettrico, che esce dal tubo.
Solida, stabile, la lampada ebbe un grande successo, fu esportata in grandi quantità e aiutò la ripresa economica del Paese. Siamo dunque di fronte a un design concreto, funzionale, creativo, utile.
Questo Luminator qui è edito da Flos. - L’altro è precedente. Luminator è un nome generico, che negli anni ’30 indicava tutte le lampade da terra. Pietro Chiesa, artista, esperto nell’arte vetraia, cosa che lo rende a me molto caro, si associa a FontanaArte, affiancando Gio Ponti nella progettazione.
Il suo Luminator è la prima lampada da terra a illuminazione indiretta ed è composto da un fusto metallico, praticamente uno stelo, che si apre a cono e che ospita la sorgente luminosa.
L’unico elemento appoggia su una base circolare.
Abbiamo finito, tutto qui.
Però, come è noto, qualunque semplificazione assoluta e totale arriva alla fine di un processo, voi pensate alla matematica.
Siamo davanti a un oggetto che evoca una flûte da champagne, di una purezza concettuale che incanta.
Aggiungete a tutto questo la presenza di Gio Ponti, uno degli artisti più ispiranti che io abbia incontrato in vita mia, che siede perpetuamente nel mio pantheon e al quale torno di continuo, e capirete come sono orientata nell’acquisto.
Ma voglio vedere le lampade dal vivo e voglio vedere come sono da accese.
Sono una donna nell’aria del tempo, quindi a me incontrare oggetti o persone in rete va benissimo, anzi, lo schermo acuisce il mio intuito.
È come con un uomo, anzi, mi viene in mente che, visti i tempi, slegati tipo maionese fuori di senno, è probabile che con una lampada nasca una relazione più profonda.
(E comunque pure un uomo lo devi vedere da acceso).
Ho già anticipato qui che giovedì scorso sono andata a via del Babuino da Flos.
Riassumo che non avevano il loro Luminator e che ho fatto la sconcertante scoperta dell’assenza quasi totale delle lampadine nelle lampade.
Scomparse.
Volatilizzate.
Perché i LED sono stati integrati e tu non li vedi.
Non puoi più dire si è fulminata la lampadina, devi dire si è rotta la lampada.
E la lampada rotta va rimandata in azienda.
E voglio sapere come fai con, mettiamo, la Superloon di Jasper Morrison, cm 1,97 di altezza, disco diffusore con diametro di cm 75, 12 kg di peso.
Facciamo che, con tutta la simpatia, la Superloon il designer la mette dentro casa sua.
Io voglio una casa normale.
Io voglio una lampada normale.
Io voglio una vita normale.
Io voglio una lampada funzionale.
Io voglio una vita che funzioni, non che si intorcini su se stessa per colpa dei LED integrati.
Ma che li avete integrati a fare.
La risposta tarda a venire, la signorina annaspa, dice che è l’evoluzione tecnica.
Posso capire la lavatrice, che deve pensare a come lavare, il paio di calze non è il lenzuolo, e infatti la mia lavatrice, che ha otto mesi freschi freschi, certe volte se la prende proprio con comodo, io ho detto al direttore dell’Experience dove l’ho comprata che è lenta, lui ha puntualizzato: «È delicata».
Se lo dice lui.
Ma la lampada ha una sola funzione, quella di illuminare e l’unica cosa che deve decidere è quanto, poco o tanto.
E vorrei deciderlo io, non voglio che lo decida lei.
Sto nel negozio e mi sembra di stare in un’astronave.
Con delle incongruenze.
Per esempio, la Toio, disegnata ancora dai fratelli Castiglioni nel 1962, nasce con alla base un trasformatore.
Che serviva a dosare l’energia elettrica.
Visto, stavo dicendo, di persona, è un aggeggio un po’ troppo industriale, però la cosa che trovo più evidente è che esso non serve più a niente.
Sta lì, pare che stabilizzi, ma secondo me è una castroneria, penso piuttosto che sia una specie di reperto archeologico, fra l’altro pure brutto a vedersi.
Ci aggiriamo io e la signorina, che si chiama Giulia, al piano terra e al superiore, sembriamo due anime in pena, le chiedo lei che lampada ha in casa.
Mi dice la Parentesi.
Me la spiega: c’è tutto un gioco di equilibrio per cui il faretto si sposta sul cavo, dunque la lampada è posizionabile, fra l’altro è una delle più economiche.
Ma qui il nodo non è il prezzo, tutte hanno un costo che ho più o meno messo in conto, e poi voglio farmi un bel regalo, passare le sere, come Lili Marlene, sotto il mio fanale, leggere un libro, cenare a lume di candela con sullo sfondo la mia lampada da terra nuova.
Dietro la Parentesi, fra l’altro, c’è una storia molto bella, che trovo da sola, perché se la signorina Giulia, che per me è diventata un titolo alla Strindberg, l’avesse saputa, è probabile che me l’avrebbe raccontata.
Dunque: Pio Manzù, figlio di Giacomo Manzoni, scultore, è una promessa del design italiano.
Muore a trent’anni in un incidente stradale mentre sta andando da Milano a Torino a presentare il design finale per la Fiat 127, una delle macchine dell’azienda torinese che avrebbe avuto maggior successo.
Achille Castiglioni riprende gli schizzi della lampada, che già avevano in sé l’idea base, quella del faretto che scivola su e giù e che ruota di 360°.
Con la bellezza disadorna della lampadina, che, diciamocelo, è un peccato che sia scomparsa.
Gesto nobile, riconoscimento di una creazione condivisa.
Ma la Parentesi non è una lampada da terra.
È una lampada da soffitto. Nel senso che va fissata in alto e non ci penso per niente.
Perché non voglio un lampadario, inamovibile, voglio una lampada da terra, che casomai sposto, se ho voglia di farlo.
Con la signorina Giulia passiamo davanti a Philippe Starck, le dico mai e poi mai, è uno dei palloni gonfiati più gonfi che ci siano sulla faccia della terra e disegna pure cose che sulla terra non ci stanno.
E manco in cielo.
Penso di essere una cliente spoetizzante.
Lei mi regala la quarta edizione di una specie di rivista che è un concentrato di quello che fa l’azienda.
Io le dico che ci penso su e che può darsi che, a forza di pensarci, io riesca ad entrare in un’ottica diversa.
Finiamo con la Bellhop di Edward Barber, che lì è esposta nelle tre versioni, verde, bianca e rossa, Giulia dice che è un caso e che c’è pure grigia, io dico che mi sembra bella, lei dice che fa una bella luce (e vorrei pure vedere), io dico ah, la base è di cemento, che contrasto, un materiale da costruzione, il colore e questo vetro diafano e luminoso soffiato a coppa.
Ci infilo una mano dentro.
E che trovo.
Niente.
Nemmeno l’ombra di una lampadina, fosse pure a LED, la luce non si sa da dove viene, è uno dei misteri moderni, tale e quale alla luce che sempre l’arte ha descritto, quella che arrivava da est e inondava tutte le absidi di tutte le chiese, grandi e piccole; quella delle Annunciazioni con la Vergine che si ritraeva pensando, e la capisco, ma chi me lo fa fare; quella che dà coraggio ai martiri nel momento fatale.
La luce, che tutto inonda e riempie, che è vita, e pensiero, e lettura e cene, fossero pure a lume di candela.
Ora non mi resta che rimettermi a cercare una luce con una sorgente un po’ meno divina di quelle che ci sono in commercio: tangibile, comprensibile, aggiustabile quando si rompe.
Vi dico pure che nel mio salotto ho evidentemente già una lampada da terra, che però ha la base che traballa.
Ed è questo il motivo per cui ne voglio un’altra.
La ragazza che fa le ore, si definisce lei così, è stata istruita e le ho detto di stare attenta, con l’aspirapolvere e con lo straccio.
«E se casca?» ha chiesto lei.
«Si rompe e ne compro un’altra», l’ho tranquillizzata.
Purché io faccia in tempo.
Purché io non mi rompa prima davanti a tutto questo design con così poco senso.
Ma non dispero perché in settimana cerco di conoscere di persona il Luminator di Fontana Arte.
L’Eletto.
Darò notizie.
Andrea
3 agosto 2022 — 17:33
Grazie sempre Rosella.