Istaso Arana in «La virgen de agosto», Jonás Trueba, 2019

Ci sono donne che piacciono alle donne.
Ci sono donne che piacciono agli uomini.
Ci sono (poche) donne che piacciono agli uomini e alle donne.
Ci sono donne che non piacciono né agli uomini, né alle donne, e allora è una tragedia.
Come sempre, quando vedo una donna, io mi chiedo se mi piace e se piace agli uomini.
Come sempre e soprattutto con un’attrice, dove il gioco dell’identificazione è più potente e dove il film funziona solo se il gioco funziona.
All’inizio lei non mi piaceva: occhi rotondi e sorriso gummy, volontario, a questo punto, perché il mio medico estetico, che poi è il fratello del mio odontoiatra, una volta mi ha spiegato come si corregge e ci vuole poco o niente, due iniezioni che neutralizzano i muscoli che tirano troppo il labbro superiore e il vermiglio fa il suo lavoro, scoprendo solo quello che deve scoprire.
Venti minuti in tutto.
Reversibile.
All’inizio lei non mi piaceva, poi è bastato che si mettesse a ballare, era in una festa in piazza, faceva roteare la coda di cavallo, si capiva che si divertiva e ho visto, finalmente, che la camera del regista la cercava con piacere.
Lei ha seni bellissimi.
Si intravedono quando lei fa l’amore con un tipo che si è messa a seguire tutte le sere e con il quale ha attaccato discorso.
Poi si vedono benissimo quando lei una mattina si alza e ha addosso solo una T-shirt e fa quello che fanno tutte le donne: la solleva e si guarda allo specchio.
I seni sono di dimensioni giuste, né troppo piccoli, né troppo grandi, alti e sodi, alti e sodi come dovrebbero essere tutti i seni che stanno sulla faccia della terra.
E le scollature di tutto quello che lei indossa, roba semplice, ma ci arriviamo fra un momento, le scollature, ecco perché le stanno così bene.

È tornata la Nouvelle Vague e il film è bellissimo.
Se avete pensato per un attimo che battesse bandiera italiana, devo deludervi.
Da noi nessuna onda, né nuova, né vecchia.

Il film batte bandiera spagnola.


Mentre lo vedi, tu stai lì, ovvero, non stai più dove stavi quando hai cominciato a vederlo, ma ci stai proprio dentro, stai dentro il film e ti chiedi ma che ci vuole a fare un film bellissimo.
Niente.
Questo è l’effetto di tutte le opere d’arte: si dice effortless, che significa senza sforzo, in disinvoltura, in eleganza, in un miracolo di naturalezza.
Il bel gol, il bel dipinto, la canzone che non ti togli più dalla testa, la giacca che te la metti addosso e ti domandi come hai fatto fino a oggi a vivere senza.
Siamo a Madrid ed è agosto.
Sono stata a Madrid alcune volte ma ho sempre pensato che non fosse una città nelle mie corde.
Madrid ho sempre pensato che non fosse nelle mie corde per una serie di motivi: non aveva un’identità chiara; imitava Parigi senza riuscirci; si mangiava sempre troppo tardi e io ci ho sempre mangiato male; ci sono sempre e solo andata per lavoro e, arte a parte, mi è sempre sembrata una città di nessun interesse.
Diventata capitale tardi.
Con quella luce stranita, così spostata a ovest. Fra il décalage della cena e quello del sole, sono sempre stata male.

Adesso non vedo l’ora di tornarci.
Dunque, qualcosa è successo.

Siamo a Madrid e Eva, di cui sappiamo poco o niente, per esempio che ha fatto l’attrice e che ha sofferto una rottura amorosa recente, si sistema a casa di un conoscente in partenza, che le lascia un appartamento pieno di charme, di libri e di luce, set perfetto per una storia suddivisa in capitoli che corrispondono ai giorni di un diario.
Sapevo che Madrid in estate era invivibile per via del caldo.
Lei dice che il mese di agosto è quello in cui succedono delle cose.
In quella Madrid, in quell’agosto, succede infatti di tutto.
Ma succedono cose normali, non c’è niente che sia eccezionale, lei incontra delle persone, comincia dalla sua solitudine e si apre all’imprevisto, il tempo è punteggiato da feste popolari, San Cayetano, San Lorenzo e la Festa della vergine Paloma, dappertutto c’è gente che fa cose semplici, mangia, beve, fuma, balla in piazza, non stanno tutti attaccati al telefono come stanno tutti da noi, loro si siedono a un tavolino all’aperto e parlano.
E di che parlano.
E qui sta il punto.
Parlano come in un film della Nouvelle Vague, parlano di sé, della realizzazione di sé, delle loro scelte, le donne parlano di ciclo mestruale e gravidanza, un padre parla di paternità, i discorsi sono affettuosi, partecipi, appena si incontrano, pure se non si conoscono, fanno come i napoletani, si baciano due volte sulle guance, non sono pieni di tatuaggi, hanno addosso gli abiti estivi che qui mi infastidiscono.
Guardavo il film e perdonavo ai maschi i calzoni corti, le canottiere, i sandali, la borsa a tracolla.
Sono uscita dal film come da una cerimonia iniziatica: ho imparato a sopportare quello che di solito non sopporto.
E mi sono molto interrogata.
Perché qui non sento mai quel genere di discorsi.
Perché qui quell’abbigliamento mi dà così fastidio.
Perché qui siamo sempre, io per prima, attaccati al telefono: come il koala all’albero; la cozza allo scoglio; la zecca al cane, al quale succhia il sangue.

Loro parlano e fanno cose semplici.
Per esempio, vanno tutti al fiume, compresa l’amica della protagonista che lei aveva smesso di vedere da quando aveva avuto un bambino.
E il fiume è un posto semplice, dove si fa il bagno, dove si mangia su una tovaglia messa sull’erba e dove si canta con uno che suona una chitarra.

Secoli che non faccio niente di così semplice e diretto.
Secoli che non sento il suono diretto di una chitarra.

L’attrice, Itsaso Arana, ha collaborato alla sceneggiatura.
E si sente.
Il regista, Jonás Trueba, è molto Nouvelle Vague: si dichiara felice di lavorare sempre con il medesimo gruppo di amici; ammette di dialogare in modo evidente con Il Raggio verde di Rohmer, che è il film sull’estate; racconta «dell’idea di costruire tutto un film a partire da quei piccoli gesti che si esprimono quando ci si sente vivere: bere un bicchiere d’acqua, passeggiare, sentire il sole sul viso».
Lui dice queste cose e io mi accorgo di quanto tutti i bicchieri d’acqua bevuti nel film mi sono sembrati importanti.
Di quanto, da quando ho visto il film, ogni bicchiere d’acqua che ho bevuto ha cambiato il suo senso e la mia esistenza.

Un bicchiere d’acqua.

Lui parla dell’essenza di Madrid e dice che essa è l’aria, l’aria pura che arriva dalla Sierra e che si sente nonostante l’inquinamento della città.
Dice pure che quella medesima aria si sente nella pittura spagnola.

E mi è venuto in mente Velázquez alle prese con il primo dei suoi dipinti en plein air, Los borrachos, dove un gruppo di ubriaconi posa accanto a un Bacco incanaglito, accomodato su una botte, che incorona uno di loro.

Il Maestro è arrivato a Madrid e sente pure lui l’aria della Sierra, e la fa sentire a noi.

Diego Velázquez, Los borrachos, Gli ubriaconi, 1629

Il regista dichiara: «Credo veramente che la creazione, al cinema così come in letteratura o in pittura, nasce spesso dal dialogo con altri creatori».
Detto fatto.

Le donne nel film sono centrali.
La protagonista sta spesso da sola: gira per musei, va al cinema (a Madrid c’è almeno un cinema d’essai che dà Bergman, Anghelopoulos e un film muto, uno per sala. E la sala che vedo è pulita e funzionale), si siede in un parco a guardare le stelle cadenti, prende l’autobus di notte.
Poi frequenta delle donne, nei confronti delle quali è aperta e con le quali si siede a bere e a parlare e va a ballare, senza mai dare l’impressione del pollaio.
Poi frequenta degli uomini, conoscenze precedenti e conoscenze nuove.
C’è un meraviglioso equilibrio in tutto questo, si sente che è lei a provocare l’imprevisto, si capisce che lei si fa guidare dal caso consapevolmente.

Song of Herself, si intitolava la recensione che avevo letto sulla mia rivista di cinema più o meno un anno fa e che mi ero messa da parte.
E la rivista ha girato più o meno un anno nel mio studio, senza mai restare seppellita sotto le consuete montagne di roba che stanno sui miei tavoli.
Ho comprato appena è uscito il dvd dalla Francia, è arrivato in tre giorni.

E tre giorni ho aspettato a inserirlo nel lettore, quindi, a vederlo.
Appena in vista di Itaca, da Itaca mi sono allontanata.
E poco importa se stavolta Itaca stava a Madrid.

Il film è bellissimo e se il regista ha dichiarato che il lavoro di altri registi gli dà la voglia di fare altri film e gli mostra la via, ecco che in me il film ha suscitato altri desideri.

Andrò a Madrid appena possibile.

Passerò il mese di agosto in una città che esplorerò con lo sguardo vigile di chi è lontano dai cliché turistici, sarò aperta agli incontri, mi costruirò, tale a quale a Eva, «un nuovo modo di stare al mondo».

Il senso del titolo, ovvero della vergine, è quello della festa della vierge Paloma.
E di lei, che si sente come se fosse incinta ma che sa che sta arrivando il suo ciclo mensile e che ha fatto l’amore con quell’uomo che le piace poco prima di questa circostanza.

Poi, però.

Va’ a sapere.

Poi, però, essere incinta significa essere piena di qualcosa, fosse solo di un nuovo progetto.
E se uno (una) è pure vergine, tanto meglio.
Vuol dire che niente è già stato fatto e che niente è deciso.
Ovvero, che tutto è possibile.

La Virgen de agosto, Jonás Trueba, Spagna, 2019